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QUO VADIS FAVOR VICTIMAE? OVVERO, DI QUELLA VOLTA IN CUI LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO HA OPERATO UN PERICOLOSO DÉTOURNEMENT DAL SUO ACQUIS IN MATERIA DI CONTRASTO ALLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE: IL CASO G. GERMANO C. ITALIA

Claudia Morini Claudia Morini (Università del Salento)

1. Contrastare la violenza contro le donne (sulla risposta italiana alla criminalizzazione della violenza di genere, vedi di recente Ippolito) significa porre in essere misure volte ad arginare e reprimere quel fenomeno ormai sistemico nelle nostre società, cui possono essere ascritte, tra le molte condotte, varie forme di violenza domestica e di violenza sessuale, minacce, violenza economica e terrore psicologico. A quest’ultimo sono riconducibili anche gli atti persecutori, meglio noti come stalking: si tratta di «forme di ossessiva persecuzione realizzate prevalentemente, anche se non esclusivamente, nei confronti delle donne, tali da creare in loro uno stato di fondato timore o di ansia, o addirittura da indurle a mutare, spesso sensibilmente, le proprie abitudini di vita» (Mandaglio). Esattamente dieci anni fa, ovvero il 27 giugno 2013, con la Legge n. 77 l’Italia ratificava la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, c.d. Convenzione di Istanbul. Quando ancora non si è affievolito il doloroso clamore per uno dei più recenti e cruenti femminicidi perpetrati in Italia – con il caso della giovane Giulia Tramontano brutalmente assassinata insieme al bimbo che portava in grembo – la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata con una sentenza sul tema del rispetto delle garanzie procedurali da riconoscersi a un presunto autore di stalking nel procedimento di ammonimento previsto dalla vigente disciplina italiana.

Il 22 giugno scorso, infatti, la Corte EDU ha avuto l’occasione di esprimersi sul bilanciamento tra tali garanzie e gli obblighi positivi di protezione incombenti sugli Stati al fine di interrompere la consumazione di condotte riferibili ad atti persecutori e prevenire un’eventuale escalation di violenza. Al rispetto di tali obblighi oggi le autorità italiane sono tenute anche in virtù dell’adesione del nostro Paese proprio alla Convenzione di Istanbul. Il caso sul quale ci soffermeremo con alcune prime, parziali, riflessioni è Giuliano Germano c. Italia nel quale i giudici di Strasburgo si sono pronunciati sulla compatibilità del procedimento di cui all’art. 8 del Decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009 – convertito in legge con la L. n. 38 del 23 aprile 2009 (su cui si veda De Fazio) – con l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. A questa importante e, per i profili che vedremo, a tratti discutibile sentenza, è allegata l’opinione concorrente del giudice italiano Raffaele Sabato, nella quale egli, pur condividendo marginalmente le conclusioni in relazione all’avvenuta violazione da parte dell’Italia dell’art. 8 CEDU, ha ritenuto che la maggior parte delle motivazioni addotte dai suoi colleghi abbiano però rappresentato «several steps backwards in human-rights protection in the context of gender-based violence» (par. 1). E noi siamo d’accordo con lui. Ma procediamo con ordine.

2. Il caso in esame prende le mosse da un procedimento di ammonimento per stalking ex art. 8 del Decreto-legge 11/2009 che il governo italiano – anticipando anche uno degli obblighi che oggi esso ha in ragione della ratifica della Convenzione di Istanbul – aveva introdotto nel nostro ordinamento giuridico, contestualmente all’introduzione nel Codice penale del nuovo art. 612-bis, rubricato “Atti persecutori” (stalking). In sostanza, questo procedimento prevede che fino al momento in cui non sia proposta querela per il reato di stalking, la persona offesa possa riferire alla pubblica autorità i fatti che ritiene essere ascrivibili a tale condotta persecutoria, avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della stessa. Il questore, al quale tale richiesta è trasmessa senza ritardo, dopo aver assunto se necessario, informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, qualora ritenga fondata l’istanza della vittima, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo contestualmente a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo un processo verbale di tale ammonimento, che viene rilasciato in copia al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Questo procedimento, la cui finalità protettiva nei confronti della vittima è evidente, si pone anche il fondamentale obiettivo di costituire un deterrente rispetto a una possibile escalation degli atti persecutori che, spesso, la cronaca ha dimostrato essere prodromici ad atti di violenza veri e propri, se non, nei casi più drammatici, all’assassinio della vittima. L’art. 8, infatti, prevede anche che qualora sia avviato un procedimento penale per il reato di cui all’art. 612-bis c.p., la pena finale – che oggi può essere da sei mesi a cinque anni – sia aumentata se il fatto è stato commesso da un soggetto già ammonito dal questore. Inoltre, nei casi in cui un soggetto sia già stato ammonito e perseveri nei suoi atti persecutori, la procura può procedere d’ufficio per il reato di stalking.

Nel caso in esame, il procedimento di ammonimento nei confronti del ricorrente era stato avviato in seguito a una richiesta avanzata da sua moglie nel novembre del 2009, nelle more della separazione. La richiesta – che precisava diversi episodi di violenza fisica e verbale presumibilmente perpetrati sia mentre vivevano insieme che dopo che egli aveva lasciato la casa coniugale – veniva accolta dal questore e il verbale notificato al ricorrente. Quest’ultimo, lamentando che il provvedimento fosse stato adottato in spregio al suo diritto di prendere parte al procedimento – diritto riconosciuto nell’ordinamento italiano dall’art.  7 della Legge n. 241 del 7 agosto 1990 in materia di procedimenti amministrativi – presentava ricorso al TAR Liguria che, il 30 settembre 2010, lo accoglieva e annullava l’ammonimento, ritenendo sussistente la violazione dei principi di contraddittorio, di difesa e di parità delle armi. Secondo il TAR, invero, un’eccezione al rispetto dei diritti di partecipazione – riconosciuta ai sensi dello stesso art. 7 per «ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento» – sarebbe stata giustificata esclusivamente in casi di stretta urgenza e necessità, condizioni che avrebbero dovuto essere sufficientemente dimostrate e giustificate nella motivazione dell’ammonimento, cosa che, invece, non era a suo dire avvenuta nel caso in esame.

Il 3 gennaio 2011 il Ministero degli interni ricorreva in appello al Consiglio di Stato, il quale dapprima sospendeva la sentenza del TAR – poiché alla luce dello scopo preventivo dell’ammonimento sussisteva un grave rischio di danno irreparabile per la moglie del ricorrente – e, successivamente, la annullava ripristinando così la vigenza dell’ammonimento. Nella sentenza (n. 4563 del 19 luglio 2011), il massimo giudice amministrativo, ponendo a fondamento essenziale del suo ragionamento giuridico l’obiettivo primario dell’ammonimento – ovvero la prevenzione di “danni potenzialmente gravi e irreparabili” alla presunta vittima di stalking – aveva ritenuto prevalente l’esigenza di procedere a una risposta immediata: esso, infatti, aveva concluso che la mancata notifica dell’avvio del procedimento amministrativo a carico del sig. Germano e il suo mancato ascolto da parte del questore prima dell’imposizione della misura, non costituisse una violazione dei suoi diritti di partecipazione, in quanto egli avrebbe comunque potuto presentare sia un ricorso presso l’autorità amministrativa superiore (c.d. ricorso gerarchico), vale a dire il prefetto locale, ai sensi delle pertinenti disposizioni italiane (Decreto Presidenziale n. 1199 del 24 novembre 1971), che un ricorso al TAR, cosa di fatto poi avvenuta. A fronte della decisione del Consiglio di Stato, il sig. Germano aveva quindi presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (n. 10794/12 del 5 gennaio 2012), lamentando, in sintesi, la violazione del diritto alla difesa, a causa della sua mancata partecipazione al procedimento dal quale è scaturito l’ammonimento del questore e del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, come conseguenza del pregiudizio causato dall’ammonimento, in particolare con riferimento all’impatto della misura sui suoi contatti con i familiari, sulla sua reputazione e sulla sua vita professionale. La Corte ha deciso di esaminare il ricorso solo alla luce dell’art. 8 della Convenzione e non anche dell’art. 6 (par. 58).

3. Chiamata, dunque, a pronunciarsi sull’ammonimento quale legittima ‘interferenza’ nella vita privata e familiare del ricorrente ai sensi del par. 2 dell’art. 8 CEDU, la Corte ha dovuto valutare la conformità di tale misura con i requisiti richiesti affinché il margine di apprezzamento statale – volto alla limitazione del godimento dei diritti garantiti dalla Convenzione – potesse essere esercitato conformemente al dettato convenzionale: la legalità, la necessarietà in una società democratica e la proporzionalità della misura adottata.

Al fine di valutare la legalità dell’ammonimento; la Corte ha fatto uso di un cospicuo excursus della giurisprudenza interna, per la quale rinviamo al testo della sentenza (par. 27-44). Innanzitutto, in relazione alla natura della misura dell’ammonimento, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la pertinente giurisprudenza nazionale avesse in diverse occasioni chiarito che esso assolva a una funzione ‘preventiva e deterrente’, in quanto finalizzato a evitare la ripetizione del comportamento punito dall’art. 612-bis c.p. e il verificarsi di un danno irreparabile alla persona offesa. Alla luce di questa funzione, che dunque non è di stampo punitivo, al questore non è richiesto di valutare la responsabilità penale del presunto stalker, ma di accertare prima facie la probabilità che tale comportamento si sia verificato e di analizzare la potenziale esistenza di un pericolo di ripetizione di tali condotte in futuro. Da un punto di vista fattuale, l’imposizione della misura richiede l’accertamento degli stessi comportamenti che costituiscono il reato di cui all’art. 612-bis c.p. Da un punto di vista probatorio, invece, la giurisprudenza ha chiarito che ai fini dell’irrogazione della misura non siano necessarie prove ‘definitive’ dell’avvenuta commissione del reato, ma siano sufficienti elementi indiziari circa l’avvenuta commissione di condotte sanzionabili ai sensi dell’art. 612-bis c.p. e una valutazione prognostica che essi potrebbero ripetersi in futuro (par. 27-28).

Venendo poi all’aspetto relativo al diritto di partecipazione del singolo al procedimento di ammonimento, la Corte EDU ha ricordato che nei primi casi pertinenti, i tribunali nazionali avevano ritenuto che si trattasse di una misura amministrativa capace di produrre importanti effetti nella sfera giuridica degli interessati e che, di conseguenza, essa fosse subordinata al rispetto del diritto di intervento nel procedimento e al principio del contraddittorio sanciti dalla Legge n. 241/1990, e alla valutazione obbligatoria da parte del questore di tutti elementi anche a difesa dell’interessato. Nella giurisprudenza successiva analizzata dalla Corte erano però emersi due approcci contrastanti. L’approccio maggioritario riteneva che la funzione preventiva dell’ammonimento non giustificasse, di per sé, la deroga al diritto del singolo di essere ascoltato nel procedimento, quest’ultimo dovendosi, pertanto, svolgere sempre in ottemperanza al principio del contraddittorio, al fine di consentire al destinatario del provvedimento di esprimere il proprio punto di vista. Per contro, parte minoritaria della giurisprudenza riteneva che, alla luce della funzione preventiva dell’ammonimento e della sua stessa natura – ovvero prevenire un rischio di danno irreparabile per la persona che ne faccia richiesta – il questore detenesse la piena discrezionalità nel valutare se notificare al destinatario l’avvio del procedimento e se ascoltarlo prima dell’adozione della misura: i diritti di partecipazione del destinatario, dunque, avrebbero potuto essere derogati ma esclusivamente in via eccezionale e qualora le circostanze di urgenza lo imponessero, circostanze che avrebbero dovuto essere valutate dal questore. Il motivo specifico a fondamento della deroga avrebbe dovuto però essere debitamente indicato nella motivazione del provvedimento (par. 37-40). Questa posizione, che a dire della Corte è minoritaria, a noi pare comunque perfettamente in linea con quanto stabilito dall’art. 7 della L. 241/1990 laddove si enuncia che «[o]ve non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato […] ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi». La ratio di questi procedimenti è, invero, proprio quella di fornire una risposta celere al fine di tutelare le vittime, promuovendo quello che potremmo definire favor victimae.

4. Che quello alla partecipazione ai procedimenti amministrativi sia un diritto suscettibile di legittime limitazioni è poi confermato anche da alcuni atti internazionali richiamati dalla stessa Corte, già esistenti all’epoca del procedimento contestato. In proposito, rileva innanzitutto la Resolution 77 (31) on the protection of the individual in relation to the acts of administrative authorities, adottata dal Comitato dei Ministri il 28 settembre 1977. Qui, invero, in relazione al riconoscimento del diritto a essere ascoltati nel corso di un procedimento amministrativo, da un lato si riconosce che la persona destinataria del provvedimento «may put forward facts and arguments» utilizzando quindi una formulazione non ordinatoria e, dall’altro, che solo in casi ‘opportuni’ la persona sarà informata per tempo di tale possibilità. Anche qui, dunque, emerge uno spazio di discrezionalità per l’autorità amministrativa in ragione del caso concreto. Invece, quando si affronta il tema della motivazione del provvedimento, la Risoluzione in esame parla di un vero e proprio obbligo delle autorità, le quali devono informare «of the reasons on which it is based». Un altro atto di soft law rilevante, richiamato come il precedente dalla stessa Corte, è la successiva Recommendation CM/Rec(2007)7 of the Committee of Ministers to member states on good administration, adottata il 20 giugno 2007. Ad essa è allegato un Codice della buona amministrazione che all’art. 8 prevede espressamente che le autorità pubbliche debbano riconoscere agli individui la possibilità di partecipare nella fase dell’elaborazione e dell’attuazione degli atti amministrativi che possano produrre un impatto sui loro diritti o interessi, «unless action needs to be taken urgently»: anche qui, dunque, emerge che tale diritto possa subire limitazioni qualora emerga la necessità di procedere con urgenza.

Oggi, infine, è la stessa Convenzione di Istanbul a fungere da ulteriore metro di valutazione della legalità della misura adottata in relazione al diritto di partecipare al procedimento, in particolare in virtù dei suoi articoli 50, 51 e 53. Sebbene la Convenzione non fosse in vigore né al momento dell’emanazione dell’ammonimento contestato e neppure in pendenza dei due ricorsi amministrativi, nel caso in esame essa è stata però richiamata dalla Corte sia per inquadrare il reato di stalking nel più ampio contesto degli obblighi internazionali dell’Italia (art. 34), che per ‘delimitare’ lo spettro d’azione del procedimento amministrativo che ha condotto all’adozione della misura dell’ammonimento. Quanto alla ‘risposta’ che gli Stati sono tenuti a garantire in caso di stalking (e degli altri reati contemplati dalla Convenzione), si chiede alle parti che essa sia immediata, affinché le autorità possano affrontare «in modo tempestivo e appropriato» gli atti incriminati e offrire alla vittima una «protezione adeguata e immediata». La procedura di ammonimento oggetto della sentenza in commento rientra a pieno titolo tra quelle in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza contro le donne che gli Stati sono tenuti ad adottare (art. 50). Nello specifico, il successivo art. 53 esplicita che tali misure debbano essere «disponibili per una protezione immediata e senza oneri amministrativi o finanziari eccessivi per la vittima; emesse per un periodo specificato o fino alla loro modifica o revoca; ove necessario, decise ex parte con effetto immediato; disponibili indipendentemente o contestualmente ad altri procedimenti giudiziari. Inoltre, si richiede che la violazione di tali misure comporti l’erogazione di “sanzioni penali o di altre sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive». Il procedimento in esame, pertanto, pur essendo stato introdotto nel 2009, appare pienamente in linea anche con quanto successivamente richiesto agli Stati che hanno aderito alla Convenzione, tra cui appunto l’Italia.

5. Ammessa, dunque, la possibilità che in casi specifici le garanzie procedurali – nello specifico il diritto di partecipare al procedimento di ammonimento – possano legittimamente subire delle limitazioni, snodo del ragionamento della Corte in questo caso è la valutazione dell’ampiezza della discrezionalità dell’azione amministrativa, con riferimento ai poteri del questore. In proposito, rileva ancora una volta la Convenzione di Istanbul che, all’art. 51, si occupa della valutazione e gestione dei rischi nei casi di violenza contro le donne: alle autorità competenti deve infatti essere riconosciuta la possibilità di poter «valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti, al fine di gestire i rischi e garantire, se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno». Inoltre, in una prospettiva giuridica ampliata e volendo prestare attenzione ai più recenti sviluppi in materia, non possiamo esimerci dal rilevare come la stessa Proposta di Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica presentata dalla Commissione europea l’8 marzo 2022 ricordi, al Considerando n. 30, che «[p]er garantire alla vittima un’assistenza e una protezione complete, tutte le autorità e gli organismi competenti, non solo le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie, dovrebbero partecipare alla valutazione dei rischi per la vittima stessa […]». La discrezionalità del questore, dunque, rientra senz’altro in quell’accurata attività di valutazione e gestione del rischio che è oggi richiesta anche a livello internazionale al fine di garantire una tutela immediata ed effettiva alla vittima: egli, invero, legittimamente potrà valutare opportuno per ragioni di necessità e urgenza, e in ragione della tipologia di condotta oggetto della procedura, limitare i diritti di partecipazione del presunto autore della stessa.

Evidenziati questi primi elementi in relazione alla misura contestata, e non potendoci in questa sede soffermare profusamente su tutti gli aspetti emersi dalla sentenza, occorre evidenziare le conclusioni cui è giunta la Corte ed esprimere poi alcune considerazioni critiche sulle stesse.

6. In relazione alla capacità del diritto interno di delimitare sufficientemente l’ambito del potere discrezionale conferito al questore nell’adottare il provvedimento, la Corte si è soffermata su due tipologie di ‘restrizioni’ a tale discrezionalità, una di tipo sostanziale e una di tipo procedurale.

Quanto alla prima, ovvero le condotte che giustifichino l’adozione di tale provvedimento e  sulle quali ci siamo già soffermate sopra, la Corte ha ribadito che la portata della nozione di ‘prevedibilità’ dipende in misura considerevole dal contenuto dello strumento in questione e dal suo campo di applicazione e, pertanto, ha ritenuto che il testo dell’art. 8 del Decreto-legge n. 11/2009 – considerato nel suo contesto e alla luce scopo perseguito – fosse stato formulato con un sufficiente grado di chiarezza per delimitare l’ambito di discrezionalità conferito al questore e prevenirne, dunque, l’arbitrarietà (par. 103). Inoltre, in riferimento alla chiarezza della formulazione dell’ammonimento al fine di consentire al destinatario di potersi regolare per il comportamento da tenere in futuro, la Corte ha evidenziato che, poiché lo scopo dell’ammonimento è di prevenire il ripetersi in futuro di atti molesti, il ricorrente avrebbe potuto agevolmente sapere quali condotte evitare, ovvero quelle punite dall’art. 612-bis c.p. (par. 108). Nel caso concreto, poi, come anche rilevato dal Consiglio di Stato, il provvedimento del questore dava «puntualmente conto degli accertamenti effettuati dalla Squadra Mobile, dai quali emerge la condotta ingiuriosa e intimidatoria tenuta dall’odierno appellato nei confronti della moglie, tale da suggerire “la necessità e l’urgenza di dover prevenire il compimento di ulteriori atti persecutori”».

Quanto ai limiti procedurali, invece, e in particolare all’appropriatezza delle misure esistenti nell’ordinamento italiano al fine di permettere al ricorrente di potersi difendere in caso di condotte arbitrarie da parte della pubblica autorità, con specifico riferimento al suo diritto di partecipare al procedimento di ammonimento, la Corte ha ritenuto che le modalità attraverso le quali quest’ultimo deve concretizzarsi devono essere rapportate alle caratteristiche e alle finalità della procedura pertinente e della misura da adottare. Nel caso di specie, la misura in questione mirava a prevenire la reiterazione di comportamenti che costituiscono il reato di stalking e, quindi, secondo i giudici di Strasburgo, essa rientrava nell’ambito di applicazione dell’art. 53 della Convenzione di Istanbul, che abbiamo già richiamato e che consente di emettere misure di protezione ex parte e con effetto immediato, a patto che tale limitazione del diritto di partecipazione al procedimento sia controbilanciata dalla possibilità di avere accesso a un rimedio giurisdizionale effettivo. La Corte ha qui puntualmente ravvisato l’esistenza di tale possibilità, sia con riferimento al ricorso al TAR che al secondo grado di giudizio garantito dal Consiglio di Stato (par. 118).

Ulteriore aspetto emerso è stato poi quello della compatibilità dell’ammonimento con un legittimo scopo: in proposito la Corte ha risposto in modo affermativo, rilevando innanzitutto che esso è conforme all’obbligo statale di prevenire la commissione di reati e di proteggere la salute, i diritti e le libertà altrui (par. 122) ma che, ulteriormente, la ratifica della Convenzione di Istanbul impone oggi all’Italia di prevedere nel suo ordinamento, tra le altre cose, anche misure come quella oggetto del ricorso (par. 123).

7. Tenuto conto di quanto appena esposto, resta ora da evidenziare in base a quali motivazioni la Corte abbia però condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU.

Ebbene, la misura in esame non ha superato il test della necessarietà in una società democratica (par. 144). Sebbene, infatti, la Corte abbia concluso che la misura fosse conforme al principio di legalità, essa ha ritenuto che gli obblighi imposti al ricorrente fossero formulati in termini molto generici, che l’ammonimento si configurasse come misura ‘istantanea’, non soggetta né a revoca né a revisione e fosse, pertanto, ontologicamente una misura sine die il cui destinatario, ad avviso della Corte, non potrebbe mai godere di una tutela piena ed effettiva contro una sua possibile emanazione arbitraria e che, almeno al momento dell’emissione dell’ammonimento, non vi fosse alcun diritto di ottenere un riesame periodico o una nuova valutazione della misura finalizzata alla sua revoca.

Infine, secondo la Corte, nel caso in esame non erano state fornite al ricorrente sufficienti garanzie procedurali (par. 143), in quanto i tribunali nazionali non avevano fornito motivazioni pertinenti e sufficienti per stabilire se le azioni imputategli fossero effettivamente in grado di giustificare l’imposizione della misura. In particolare, la Corte ha lamentato che il Consiglio di Stato non avesse invero effettuato un esame indipendente per verificare se l’ammonimento fosse ragionevolmente fondato, in quanto dalla sentenza non era emerso l’esame di alcuna prova per confermare o confutare le affermazioni del ricorrente. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che il mancato esame della capacità effettiva del questore di dimostrare l’esistenza di fatti specifici su cui basare la valutazione che il ricorrente costituisse un pericolo per la moglie, abbia comportato un vulnus ai diritti dello stesso, essendosi il Consiglio di Stato limitato a un esame puramente formale della decisione di imporre l’ammonimento (par. 141).

Quest’ultimo punto, invero, è l’unico sul quale il giudice italiano Sabato ha concordato con la maggioranza, come emerge dalla sua opinione concorrente.

8. Rinviando ad altra sede per un approfondimento ulteriore di questa discutibile sentenza, ci limiteremo ora a sollevare qui alcune perplessità in relazione all’approccio seguito dalla Corte in questo caso.

Innanzitutto, sebbene in alcuni passaggi del suo ragionamento giuridico la Corte abbia dimostrato una certa sensibilità e consapevolezza della rilevanza e della delicatezza della questione affrontata, essa ha però a tratti rivelato arroganza nel diffidare della buona fede e della competenza del questore e delle forze di polizia italiane, lasciando quasi trasparire il messaggio che le autorità italiane abbiano, de facto,agito con arbitrarietà.

Un passaggio che lascia molto perplessi è, ad esempio, quello in cui la Corte ha affermato di non comprendere perché esse non abbiano ascoltato anche il ricorrente (par. 130): qui, purtroppo, la Corte pare aver dimenticato il suo ruolo sussidiario rispetto a quello dei giudici nazionali; come rilevato anche dal giudice Sabato, infatti, proprio alla luce del suo ruolo, «second-guessing the domestic assessment of evidence should take place only when arbitrariness is evident» (par. 7). E non era certo questo il caso. Nel procedimento in esame, infatti, il questore ha agito nel pieno rispetto degli obblighi di due diligence volti a prevenire l’escalation della violenza perpetrata ai danni della vittima e, pertanto, i rilievi della Corte nel merito della procedura ci paiono decisamente in contrasto e in controtendenza rispetto a quell’approccio gender-sensitive che si sta invece imponendo a livello nazionale e sovranazionale nei casi di violenza contro le donne e violenza domestica. Come anche rilevato dallo stesso Consiglio di Stato, alla luce delle «finalità proprie del provvedimento questorile, è del tutto palese l’esigenza che la sua adozione avvenga in tempi rapidi, in ragione della necessità di interrompere con immediatezza l’azione persecutoria». La stessa Corte, poi, ha richiamato il Rapporto esplicativo della Convenzione di Istanbul che, in relazione all’53, prevede che misure immediate e inaudita altera parte possano essere adottate “in certi casi” e “quando necessario”: nel caso in esame, il questore ha avuto a disposizione tutti gli elementi per poter valutare che ci si trovasse esattamente in ‘un caso’ adeguato e che vi fosse la necessità di procedere inaudita altera parte  (v. par. 10 della sentenza dove si riporta la trascrizione dell’ammonimento). Anche se la Corte è parsa ‘confondere’ il requisito della necessità con quello dell’urgenza, che non appare certamente nel testo del Rapporto, la ‘protezione della vittima’ può senz’altro costituire una valida motivazione a sostegno della necessità di derogare ai diritti di partecipazione nel procedimento di ammonimento. Il giudice Sabato, invero, si è spinto oltre arrivando ad affermare che nei casi di stalking, comunque, l’urgenza sia «ipso iure et facto present» (par. 46).

Un altro aspetto preoccupante è che una lettura gender-oriented della sentenza mette in luce alcuni ‘pregiudizi’ che paiono trasparire dalle parole della Corte, soprattutto con riferimento al ruolo della vittima, la cui testimonianza non solo non viene considerata come tale nel ragionamento dei giudici di Strasburgo ma che, anzi, viene declassata a mera ‘versione dei fatti’ (par. 8 e 36). Stupisce davvero questo atteggiamento della Corte che si pone nella scia di quella pericolosa e svilente pratica di alcuni giudici nazionali che ha come effetto la c.d. ‘vittimizzazione secondaria’, pratica che la Corte stessa ha in passato condannato anche con riferimento all’Italia in relazione proprio a dei ‘pregiudizi giudiziari’ (caso J.L. c. Italia del 27 maggio 2021) e che, sia la Convenzione di Istanbul, all’art. 18, che la Proposta di Direttiva menzionata, all’art. 23, proibiscono. Sebbene nel caso J.L. la Corte si riferisse alle ‘allusioni’ dei giudici nazionali rispetto a un presunto ruolo della vittima nel ‘causare’ la violenza subita, la nozione di vittimizzazione secondaria può includere tutte quelle manifestazioni di pregiudizi culturali in base ai quali le donne possono mentire, presentare denunce strumentali o, addirittura, ‘essersela cercata’. Stando, infatti, alla recentissima Recommendation CM/Rec(2023)2 of the Committee of Ministers to member States on Rights, Services and Support for Victims of Crime, «vittimizzazione secondaria significa vittimizzazione che non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima». Svilire la testimonianza di una vittima, dunque, ben può ritenersi una ‘risposta’ inadeguata al primario obbligo di proteggerla e può, di fatto, ingenerare oltre che una nuova sofferenza nella vittima anche una comprensibile sfiducia nei confronti delle istituzioni. A fronte di ciò, come anche evidenziato dal giudice Sabato, in questo caso a noi pare che la Corte abbia addirittura messo in atto una vera e propria ‘overprotection’ del presunto stalker, esasperando la centralità del suo diritto di partecipare al procedimento a discapito della necessità di proteggere in modo celere la vittima di stalking. Invero, il diritto alla difesa non è detto che debba necessariamente garantirsi attraverso la partecipazione al procedimento, ben potendo essere tutelato anche mediante la possibilità per il destinatario di un provvedimento di avere successivamente accesso a mezzi di ricorso effettivi e imparziali. Ciò, a nostro avviso, vale ancor di più in casi relativi a condotte violente contro le donne che necessitano di azioni repentine ed efficaci innanzitutto nel breve periodo, al fine di evitare derive ancor più drammatiche e dagli esiti nefasti. Un approccio eccessivamente garantista e, forse, non pienamente coerente con i più recenti sviluppi in materia di protezione delle donne in casi di violenza ‘gender-based’, rischia di vanificare gli sforzi degli Stati membri del Consiglio d’Europa che hanno già da tempo adottato provvedimenti virtuosi e conformi agli obblighi internazionali.

Ciò che forse lascia però più perplessi, e che ci porta a sperare in un ricorso alla Grande Camera da parte del Governo italiano, è che con questa sentenza, arrivata ben 11 anni dopo la presentazione del ricorso e in un quadro giuridico decisamente più evoluto rispetto al 2012, la Corte sembra negare la sua precedente importante giurisprudenza in materia, ad esempio, di valutazione del rischio e di condanna della passività delle autorità preposte alla protezione delle donne (si veda De Vido). Essa, infatti, ci pare abbia strumentalizzato quella nozione di valutazione e gestione del rischio ‘autonoma’ e ‘proattiva’ che deve caratterizzare l’operato delle autorità statali, sviluppata dalla Grande Camera nel caso Kurt c. Austria del 15 giugno 2021: qui, invero, i giudici avevano chiarito il ruolo centrale della autorità nazionali nel poter anche, in una certa misura, ‘sopperire’ alla percezione del rischio della vittima (par. 169 e 170), che potrebbe essere ‘inquinato’ da timori e ripensamenti dovuti alla sua particolare vulnerabilità. In Germano c. Italia, invece, la Corte ci è sembrata ‘accusare’ le autorità italiane di non aver sentito anche la versione del presunto stalker – non prendendo così in considerazione «the entirety of the evidence available» (par. 128) – e interpretare così le nozioni di ‘autonomia’ e di ‘proattività’ quali garanzie in favore del presunto reo. Come anche evidenziato dal giudice Sabato nella sua opinione concorrente, in Kurt la Grande Camera aveva, al contrario, promosso il favor victimae «in its pursuit of better protection of vulnerable victims who are unable to report in full the violence they sustain» (par. 55). La sentenza in esame, dunque, pare quasi espressione di un atteggiamento ‘schizofrenico’ della Corte europea che, da un lato, ha condannato gli Stati per l’inerzia delle loro autorità (Talpis c. Italia del 2 marzo 2017, Kurt c. Austria, De Giorgi c. Italia del 21 giugno 2022) e, dall’altro, ha stigmatizzato comportamenti virtuosi e proattivi volti a proteggere e fungere da deterrente rispetto a possibili future escalation di violenza ai danni delle donne, ribaltando pertanto il suo fondamentale acquis volto alla tutela delle vittime di violenza gender-based.

Lo scorso 28 giugno anche l’Unione europea ha finalmente ratificato la Convenzione di Istanbul, lanciando un segnale molto forte agli Stati membri che ancora non lo hanno fatto e al mondo intero; quasi contemporaneamente, però, ci è giunta la notizia del 44° femminicidio (solo) in Italia da inizio 2023, concretizzatosi con il brutale assassinio di Michelle Maria Causo, di soli 17 anni. In questo scenario in chiaroscuro, dove sono più le ombre che le luci, si auspica vivamente che la Corte europea possa tornare prontamente a essere un solido baluardo per tutte le donne vittime di una violenza ancora dilagante e che «the departures from the case-law entailed by the majority’s judgement will be speedly corrected by further jurisprudential developments» (par. 2, op. conc.).

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