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Il disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo Italia-Albania: profili di (in)compatibilità con il diritto dell’Unione europea

Giada Grattarola (Università di Pavia)

1. Introduzione

Come ormai noto, il Protocollo tra Italia ed Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, firmato a Roma il 6 novembre 2023, riconosce il diritto dello Stato italiano di utilizzare due aree demaniali, di proprietà dello Stato albanese e site nel relativo territorio nazionale, al fine di costruire delle strutture destinate alla gestione dei migranti, i quali verrebbero ivi trattenuti, nei limiti temporali posti dalla legge italiana, nelle more dell’esame delle domande di protezione internazionale dagli stessi presentate, nonché durante le procedure di rimpatrio, eseguite nel caso in cui si riscontrasse l’insussistenza dei requisiti soggettivi richiesti ai fini del soggiorno nel territorio italiano.

Benché fosse intenzione iniziale del Governo non presentare il Protocollo al Parlamento (in aperto contrasto, come sottolineato in dottrina, con quanto disposto dall’art. 80 Cost.), il 18 dicembre 2023 è stato incardinato, presso la Camera dei Deputati, il disegno di legge governativo (A. C. n. 1620) recante l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione dell’accordo in discorso – ordine di esecuzione che, nelle parole della Relazione illustrativa al progetto di legge, immetterebbe nell’ordinamento nazionale le disposizioni convenzionali «con un rango che, in virtù dell’articolo 117 della Costituzione, è sovraordinato alla legge ordinaria» (e ciò, sebbene sia ampio il dibattito circa la collocazione gerarchica delle norme pattizie nel sistema interno delle fonti, anche a prescindere dalla natura del trattato internazionale in cui queste risultano contenute; sul punto, v. in particolare la dottrina riportata da Canzian e Lamarque, p. 400, nota 109). Tale disegno di legge, che contiene altresì alcune disposizioni attuative, è stato approvato il 24 gennaio 2024 dalla Camera e quindi trasmesso al Senato della Repubblica.

Ora, sebbene l’atto in discorso presenti essenzialmente carattere unilaterale e rilievo interno, questo ricomprende previsioni che gettano una certa luce interpretativa su diversi profili della disciplina contenuta nel Protocollo. In particolare, alcune delle menzionate disposizioni di attuazione, introdotte al fine di garantire l’esecuzione dell’accordo, riflettono l’intendimento dell’Esecutivo rispetto a taluni obblighi e prerogative dello Stato italiano ai sensi della disciplina convenzionale; dall’altro lato, pure la Relazione illustrativa che accompagna il disegno di legge contiene precisazioni circa la portata del Protocollo, così spiegando anch’essa, nei limiti della sua origine one-sided, una qualche valenza interpretativa (sulla sussumibilità, in termini generali, di assimilabili atti interni specie nella categoria dei mezzi supplementari di interpretazione di cui all’art. 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati v. Prislan).

L’intervento che segue si propone pertanto di saggiare la compatibilità del Protocollo Italia-Albania, come inteso alla luce di questi ulteriori elementi interpretativi, con il diritto dell’Unione europea. Si intende così verificare, innanzitutto, se il testo convenzionale si ponga in contrasto con qualche disposizione del sistema europeo comune di asilo (in particolare, con l’articolo 9 della direttiva 2013/32, c.d. direttiva procedure); in secondo luogo, se l’accordo in discorso, intervenendo in un settore materiale già regolato da norme comuni, ricada nella preclusione di cui all’art. 3, par. 2, TFUE, che individua le ipotesi di competenza esterna esclusiva dell’Unione.

2. La compatibilità del Protocollo con il diritto dell’Unione in materia di asilo

2.1. Venendo al primo dei profili che si intendono trattare, pare rilevante richiamare come il 15 novembre 2023 la Commissaria europea agli affari interni, Ylva Johansson, abbia sommariamente anticipato che, all’esito dell’esame preliminare condotto dal servizio giuridico della stessa Commissione, il Protocollo Italia-Albania risulterebbe non porsi in contrasto con il diritto dell’Unione, collocandosi al di fuori del relativo campo di applicazione (qui il passaggio di interesse della conferenza stampa).

Tale conclusione è stata maggiormente argomentata il giorno successivo da Eric Mamer ed Anitta Hipper, rispettivamente Portavoce capo e Portavoce per gli affari interni e la migrazione della Commissione: partendo infatti dal presupposto (invero non suffragato expressis verbis dal testo dell’accordo) che il Protocollo concerna i soli migranti tratti su imbarcazioni italiane in acque internazionali, se ne è così derivata la conseguenza che lo stesso riguardi situazioni che ricadono al di fuori del campo di applicazione dell’ acquis dell’Unione in materia di asilo, stante la portata meramente territoriale di tale corpus normativo (v. qui per le dichiarazioni riportate). Rimarrebbe invece impregiudicato il rilievo del Protocollo ai sensi di ulteriori disposizioni di diritto dell’Unione (in particolare, dell’art. 3, par. 2, TFUE, su cui infra).

Il presupposto interpretativo da cui muove il servizio giuridico della Commissione trova pieno riscontro nell’art. 3, co. 2, del disegno di legge di ratifica ed esecuzione dell’accordo in discorso, il cui testo infatti precisa che nelle strutture site in territorio albanese potranno essere solamente condotti i migranti imbarcati dalle autorità italiane all’esterno delle acque territoriali della Repubblica (e degli altri Stati membri dell’Unione).

Ora, la posizione sostenuta dalla Commissione si caratterizza senz’altro per intendere in termini piuttosto stringenti la portata, ratione loci, del sistema europeo comune di asilo. In effetti, ai sensi delle previsioni dei pertinenti strumenti di diritto derivato, tale corpus normativo si applica alle sole domande di protezione presentate nel territorio degli Stati membri (art. 3, par. 1, della direttiva procedure), nonché ai soli richiedenti ivi presenti (art. 3, par. 1, della direttiva 2013/33, c.d. direttiva accoglienza). Il territorio degli Stati membri è dunque inteso dalla Commissione, ai fini dell’applicazione dell’acquis dell’Unione in materia di asilo, in senso restrittivo: esso non sarebbe infatti comprensivo di aree, quali le navi battenti bandiera dello Stato di nazionalità, tradizionalmente soggette alla fictio iuris dell’extraterritorialità reale. Tale lettura del resto non sorprende, poiché, dopo aver pur sostenuto l’espressa ricomprensione delle acque territoriali nell’ambito di applicazione degli strumenti normativi sopra richiamati (così COM (2009) 554, p. 24, e COM (2011) 320, p. 20), la Commissione ha invero ritenuto, in un documento del 2018 relativo alla possibile creazione di piattaforme regionali di sbarco intra ed extra UE, che le persone tratte in salvo in acque internazionali da imbarcazioni europee, quand’anche militari, «would not acquire the right to access the asylum procedure in an EU Member State», situandosi all’esterno del territorio degli Stati di bandiera (il documento menzionato è reperibile qui, p. 50 ss.).

Tale conclusione interpretativa non pare essere, però, unanimemente condivisa: in effetti, esprimendo le proprie considerazioni sempre con riferimento all’eventuale istituzione di piattaforme regionali di sbarco dei migranti, il servizio giuridico del Parlamento europeo ha ritenuto, pur condividendo in termini generali la posizione interpretativa della Commissione circa la portata territoriale del diritto dell’Unione in materia di asilo, che le «warships» (qui da intendersi, se ben si è compreso il testo, come «navi militari», e non come «navi da guerra») equivalganoin alto mare a porzioni di territorio dello Stato di cui battono bandiera.

Nel silenzio delle disposizioni normative rilevanti (che pur accolgono, come si vedrà infra, una nozione restrittiva di «territorio», avendo però riguardo non alle imbarcazioni, bensì alle rappresentanze diplomatiche di Stati membri dell’Unione situate in un Paese terzo), ed in mancanza di una pronuncia sul punto da parte della Corte di Giustizia, si può forse far ricorso, a titolo di ausilio interpretativo, al diritto internazionale consuetudinario. A tal riguardo, sebbene nel caso Lotus la Corte Permanente di Giustizia Internazionale abbia sancito che «what occurs on board a vessel on the high seas must be regarded as if it occurred on the territory of the State whose flag the ship flies» (p. 25 della sentenza), ad oggi l’effettiva equiparabilità delle imbarcazioni (anche militari) a porzioni di territorio dello Stato di cui battono bandiera non sembra trovare sostegno né in dottrina (sul punto, v. per tutti Tamburini, “Extraterritorialità”, in Enciclopedia Giuridica, 1989, vol. XV, pp. 2-3), né in una uniforme prassi statale, non mancando pronunce di organi giurisdizionali domestici che intendono la finzione dell’extraterritorialità come strumento concettuale utile semplicemente ad evidenziare la giurisdizione dello Stato di bandiera sulla comunità navale, senza così ritenere che l’imbarcazione debba essere considerata, ex se, alla stregua di una parte semovente (“flottante”) del territorio dello Stato di nazionalità (in tal senso, v. UN Doc. A/10139 (Part II), in particolare alcune pronunce citate al par. 87). Del resto, gli Stati, nel giustificare la concessione dell’asilo a bordo di navi pubbliche ormeggiate nelle acque territoriali straniere, non paiono aver fatto generalmente ricorso alla «territorialità» della nave battente la loro bandiera (sul punto, v. Morgenstern, p. 254 e Prakash Sinha, p. 267), mancando di configurare il potere di concedere asilo a bordo come un’ordinaria manifestazione della sovranità territoriale (per una tale argomentazione, v. invece la dottrina citata da Baldoni, p. 285, nota 2) ed adducendo, piuttosto, ragioni di carattere umanitario, ovvero l’esistenza di usi locali che riconoscono la legittimità di una siffatta pratica.

La configurabilità delle navi come porzioni di territorio dello Stato di bandiera, operata di fatto o per via di finzione, non pare dunque trovare conferma in una regola di diritto internazionale consuetudinario – così corroborando, in meri termini di supporto interpretativo, la posizione della Commissione. Le menzionate pronunce dei giudici interni paiono tuttavia suffragare la percorribilità di un differente percorso argomentativo, che a tal riguardo valorizzi la giurisdizione di uno Stato sulle navi che battono la sua bandiera. Questa, in effetti, è la posizione del servizio giuridico del Parlamento europeo, il quale, riposando sulla portata sostanzialmente territoriale del potere di governo degli Stati, ritiene che l’esercizio esclusivo di siffatto potere, da parte dello Stato di bandiera, sulle navi militari operanti in alto mare possa giustificare l’equiparazione di tali imbarcazioni a porzioni semoventi di territorio.  

In definitiva, tanto la posizione della Commissione quanto quella del Parlamento europeo possono trovare conforto nella prassi statale sopra descritta. In ogni caso, entrambe le soluzioni interpretative proposte, se utilizzate per vagliare la legittimità del Protocollo Italia-Albania, non paiono determinarne l’incompatibilità con il diritto dell’Unione in materia di asilo (e, in particolare, con l’art. 9 della direttiva procedure, che sancisce il diritto del richiedente di rimanere nello Stato membro in cui ha presentato domanda di protezione fino a che su questa non sia stata adottata una decisione in primo grado – sul punto, v. anche De Leo). Se infatti, come sostiene la Commissione, i mezzi delle autorità italiane operanti in alto mare non possono essere considerati alla stregua di porzioni territoriali della Repubblica, tale accordo si limiterebbe ad istituire un regime di cooperazione inter-statale al di fuori dell’ambito di applicazione dell’acquis dell’Unione. Qualora, invece, le imbarcazioni militari in discorso fossero da ritenersi, in forza della giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera, territorio italiano, il trasferimento in Albania di migranti che avessero manifestato a bordo l’intenzione di richiedere la protezione internazionale non si porrebbe necessariamente in contrasto con l’art. 9 della direttiva procedure, posto che il luogo di trasferimento, ancorché sito in Albania, si collocherebbe sotto la giurisdizione italiana e potrebbe essere così assimilabile, al pari delle imbarcazioni stesse, ad una porzione territoriale dell’Italia.

2.2. A quest’ultimo proposito, la Relazione illustrativa al disegno di legge di ratifica dell’accordo (p. 3) precisa che gli spazi convenzionalmente concessi in uso allo Stato italiano rimangono territorio albanese, posto che, in tali aree, l’Albania autorizza semplicemente la realizzazione di specifiche attività, garantendo al contempo alcune facilitazioni, immunità e benefici necessari per il migliore svolgimento di tali operazioni.

Da quanto è noto, gli esponenti della Commissione non si sono soffermati, nelle loro dichiarazioni pubbliche, sulla «categorizzazione» delle aree di cui al Protocollo, né sul rispettivo regime giuridico. Da questa omissione si può forse dedurre che, secondo la prospettiva adottata dall’Istituzione europea, tale regime non sia comunque rilevante ai fini dell’applicazione del diritto dell’Unione in materia di asilo, stante la portata strettamente territoriale di detto corpus normativo. Ne ricadrebbero dunque al di fuori anche quei luoghi che, pur collocati nel territorio di un Paese terzo, si caratterizzano nondimeno per essere nella disponibilità esclusiva di uno Stato dell’Unione, essendo così assoggettati ad un particolare regime giuridico che, in taluni casi, ne potrebbe giustificare l’assimilazione a porzioni del territorio di tale ultima entità statale. Del resto, come già anticipato, le stesse direttive procedure ed accoglienza escludono dal proprio campo di applicazione sia le domande di protezione presentate presso rappresentanze diplomatiche degli Stati membri site in Paesi terzi, sia i richiedenti che tali domande abbiano formulato, sancendo così l’inapplicabilità del diritto dell’Unione in materia di asilo in luoghi tradizionalmente considerati “extraterritoriali”, seppur dalla dottrina più risalente.

Eppure, occorre notare che il regime giuridico a cui risultano assoggettati gli spazi di cui al Protocollo diverge sensibilmente da quello applicabile alle rappresentanze diplomatiche (così come ad ulteriori aree, quali, ad esempio, gli edifici di cui all’art. 15 del Trattato lateranense, stipulato tra l’Italia e la Santa Sede). In effetti, tali luoghi, benché godano delle immunità riconosciute dal diritto internazionale generale e pattizio, risultano comunque sottoposti alla legge dello Stato territoriale (sul punto, v., per le rappresentanze diplomatiche, Salmon, Manuel de droit diplomatique, Bruylant, Bruxelles, 1994, pp. 224 ss.; per gli immobili con privilegio di extraterritorialità ai sensi del Trattato lateranense v. invece Cavana, p. 11 ss.). Non così, invece, le aree concesse in uso ai sensi del Protocollo in discorso, le quali sono gestite conformemente alla legge dello Stato beneficiario: all’interno dei centri trova infatti applicazione, da un lato, l’intera normativa italiana che disciplina sia l’accesso alla protezione internazionale che le procedure di rimpatrio e le condizioni di trattamento dei richiedenti asilo (art. 4, co. 1, del disegno di legge di ratifica ed esecuzione). Dall’altro lato, pure le conseguenze della nascita e della morte dei migranti sono sottoposte alla disciplina italiana (art. 9, co. 3, del testo convenzionale); parimenti, i reati commessi da questi ultimi all’interno dei centri sono puniti, salvo le eccezioni previste, ai sensi della normativa penale italiana (art. 4, co. 6, del disegno di legge). Nel caso in cui si verifichino tali ipotesi delittuose, l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria italiane hanno il potere di svolgere direttamente le proprie funzioni all’interno dei centri, nel rispetto delle pertinenti disposizioni del codice nazionale di procedura penale (art. 4, co. 8, del disegno di legge).

A fronte di tale netta individuazione della legge applicabile all’interno delle aree di cui al Protocollo, si è sostenuta in dottrina (sul punto, v. Masera) la qualificabilità di tali spazi alla stregua di enclave italiane in territorio albanese, rispetto alle quali lo Stato d’Albania conserverebbe la mera «ultimate sovereignty» (per mutuare l’espressione utilizzata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Rasul v. Bush, con riferimento alle residue prerogative della Repubblica di Cuba rispetto alla base navale americana di Guantanamo). Ora, tale assimilazione pare ad oggi temperata dalle conclusioni della Corte costituzionale albanese, la quale è stata recentemente chiamata a pronunciarsi sull’accordo in discorso. In effetti, sebbene le motivazioni non siano state ancora depositate, tramite apposito comunicato stampa è stata anticipata la parte dispositiva dell’emananda sentenza di legittimità costituzionale, in cui parrebbe riconoscersi l’applicabilità, all’interno delle aree di cui al Protocollo, delle norme della Costituzione albanese relative ai diritti fondamentali dell’uomo. Eppure, non sembra che questa precisazione vada in qualche modo a comprimere, ovvero a limitare, il potere di governo esercitato dallo Stato italiano nelle strutture in discorso, posto che la giurisdizione albanese si affiancherebbe a quella italiana, senza ad essa sostituirsi, in relazione solamente a limitati profili (e nel rispetto dell’inviolabilità dei centri).

In questo senso, poiché sostanzialmente sottoposte alla potestà dello Stato italiano, tali aree potrebbero essere forse equiparate a porzioni di detto Stato ai sensi della disciplina dell’Unione in materia di asilo, se ben si comprendono le implicazioni della posizione interpretativa adottata dal servizio giuridico del Parlamento in merito alla portata, ratione loci, di tale corpus normativo. Siffatta assimilazione consentirebbe dunque di ritenere rispettato l’obbligo discendente dall’art. 9 della direttiva procedure anche in caso di trasferimento, nelle strutture albanesi, di quei migranti che abbiano manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale già a bordo delle navi militari italiane. Come già accennato, la descritta equiparazione delle aree in parola a parti del territorio italiano non troverebbe invece riconoscimento alcuno nella prospettiva accolta dalla Commissione.

3. La compatibilità del Protocollo con l’art. 3, par. 2, TFUE

Anche se apparentemente non in contrasto con l’art. 9 della direttiva procedure, la conclusione del Protocollo in discorso da parte dell’Italia sembra sollevare, nondimeno, una questione di compatibilità con la preclusione discendente dall’art. 3, par. 2, TFUE.  In effetti, tale disposizione riconosce la competenza esclusiva dell’Unione a stipulare trattati internazionali che siano idonei ad incidere sulle norme emanate sul piano interno, ovvero a modificarne la portata: in questo senso, stante l’adozione di una disciplina comune in materia di asilo, grava sugli Stati membri l’obbligo di non concludere accordi che interferiscano, o che anche solamente rischino di interferire, con tale sistema normativo.

Con riferimento al Protocollo Italia-Albania, una siffatta incidenza potrebbe discendere, in particolare, in forza delle previsioni convenzionali che determinano la disciplina in vigore all’interno delle aree cedute in uso allo Stato italiano, qualora queste consentano l’applicazione, anche solo potenziale, di standard di trattamento non già più favorevoli, bensì differenziati o deteriori rispetto alle pertinenti norme di diritto dell’Unione. Tale rilievo spiega efficacia sia aderendo alla prospettiva, propria del Parlamento europeo, secondo la quale il sistema comune di asilo troverebbe applicazione ex se all’interno dei centri di cui al Protocollo, sia abbracciando una concezione strettamente territoriale di tale corpus normativo, che consideri le situazioni oggetto di disciplina convenzionale come «estranee» rispetto al diritto dell’Unione. La Corte di Giustizia ha infatti precisato a più riprese come risulti precluso agli Stati membri concludere accordi internazionali che possano pregiudicare l’applicazione uniforme e coerente delle disposizioni comuni, nonché il buon funzionamento del sistema normativo che esse costituiscono (v. per tutti Parere 1/03, punto 128): calando tale principio nel contesto convenzionale qui in discussione, detto effetto sembrerebbe prodursi tanto nel caso in cui il Protocollo, consentendo di sottoporre i migranti a regole che si discostino dalla disciplina comune, incida su norme direttamente operanti nei centri, quanto nell’ipotesi in cui l’accordo, tramite l’istituzione convenzionale di apposite aree al di fuori dello spazio territoriale degli Stati membri, sottragga taluni migranti dal campo di applicazione del sistema comune di asilo al fine di sottoporli ad un regime normativo potenzialmente differente o più restrittivo.

A tale riguardo, la valutazione preliminare del Protocollo condotta dal servizio giuridico della Commissione non pare aver evidenziato criticità, probabilmente sulla scorta della valorizzazione di quelle previsioni pattizie che sanciscono l’applicazione delle pertinenti regole di diritto dell’Unione all’interno delle aree cedute in uso allo Stato italiano (v. per esempio art. 4, co. 2 e 3, e art. 9, co. 2, dell’accordo). Eppure, l’assunto su cui detto giudizio di non-interferenza sembra basarsi (i.e., l’integrale estensione della pertinente normativa sovranazionale anche ai migranti trattenuti nei centri di cui al Protocollo) pare non trovare pieno riscontro nell’art. 4, co. 1, del disegno di legge di ratifica ed esecuzione dell’accordo in parola. In effetti, questa disposizione sancisce innanzitutto l’applicazione, all’interno dei centri, di alcuni atti di legge italiani: in particolar modo, del testo unico sull’immigrazione, nonché dei decreti legislativi 142/2015, 25/2008 e 251/2007 (che contengono, rispettivamente, la normativa interna di recepimento delle direttive accoglienza e procedure, nonché della direttiva 2011/95, c.d. direttiva qualifiche). La disposizione in parola prescrive infine anche l’applicabilità della «disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale».

In questi termini, il riferimento al diritto dell’Unione appare invero un poco nebuloso, poiché non risulta chiaro se ad essere richiamato è l’intero corpus normativo in materia di asilo, ovvero se il rinvio debba intendersi come limitato agli ulteriori atti di diritto sovranazionale, diversi dalle direttive i cui provvedimenti di attuazione sono stati espressamente menzionati, il cui contenuto concerna nondimeno le procedure ed i requisiti rilevanti ai fini dell’ammissione e del soggiorno degli stranieri nel territorio nazionale (si pensi, ad esempio, al regolamento 603/2013, c.d. regolamento Eurodac, ovvero alla direttiva 2008/115, c.d. direttiva rimpatri, nella parte in cui enuncia i casi in cui vige un divieto di allontanamento dei soggetti non beneficiari della protezione internazionale). Tale seconda opzione interpretativa sembra peraltro suffragata da alcuni indizi testuali, posto che il richiamo generale alla disciplina «europea» risulta effettuato con riferimento a specifici profili regolatori, che non coincidono con il contenuto di tutte direttive in parola: in questo senso, il rinvio opererebbe con riferimento a solo alcune di queste (ovverosia, alle direttive qualifiche e procedure), e non rispetto ad altre (nello specifico, alla direttiva accoglienza).

La descritta formulazione potrebbe dunque ingenerare il dubbio interpretativo che il disegno di legge, nel richiamare la sola normativa interna di attuazione, abbia inteso «disancorare» una parte rilevante della disciplina applicabile nei centri dagli atti di diritto dell’Unione che ne costituiscono, almeno in senso lato, l’origine. In altri termini, a trovare applicazione nelle strutture albanesi non sarebbero le direttive qualifiche, procedure ed accoglienza, bensì la sola legge italiana di recepimento, la quale potrebbe così venir considerata come sottratta al vincolo di piena conformità con le menzionate direttive. Ciò determinerebbe pertanto la possibile creazione di un «doppio binario» di regolazione, sia per via diretta (qualora il legislatore ritenga di emendare la legislazione vigente al fine di introdurre standard differenziati di trattamento per i migranti trattenuti in Albania), sia per via interpretativa. A tale ultimo riguardo, i giudici nazionali potrebbero infatti reputare di non essere legittimati ad adire, in caso di dubbi interpretativi, la Corte di Giustizia, la cui competenza pregiudiziale sarebbe invece presumibilmente radicata in caso di diretta operatività delle direttive all’interno dei centri (così, Favilli, p. 6; v. invece, per una disamina della giurisprudenza su cui tale conclusione si basa in via analogica, Bartoloni, “La competenza della Corte di giustizia ad interpretare il diritto nazionale «modellato» sulla normativa comunitaria”, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2001, p. 311 ss.).

In conclusione, le disposizioni convenzionali, come attuate dal disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Protocollo, non sembrano escludere ogni rischio di interferenza con il sistema europeo comune di asilo, ponendosi così in contrasto con l’art. 3, par. 2, TFUE. Il necessario rispetto della competenza esterna esclusiva dell’Unione avrebbe dunque imposto la modifica, in sede parlamentare, dell’art. 4, co. 1, del disegno di legge di ratifica, in modo da riconoscere la diretta operatività, all’interno dei centri albanesi, pure delle direttive qualifiche, procedure ed accoglienza, ovvero da esplicitare il vincolo di conformità, rispetto a tali strumenti, della normativa italiana applicabile nelle strutture. Così, tuttavia, probabilmente non sarà, visto che la Camera dei Deputati ha da poco approvato il disegno di legge apportando minimali modifiche, che non interessano affatto l’articolo 4, primo comma. L’illegittimità del Protocollo, nel senso appena descritto, sembra dunque destinata a cristallizzarsi.

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Giada Grattarola

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