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Un altro passo avanti verso l’adesione dell’Unione europea alla CEDU

Il 5 aprile 2013, a conclusione del quinto incontro fra la Commissione europea e il gruppo ad hoc nominato dal Comitato direttivo per i diritti umani del Consiglio d’Europa (CDDH), è stato adottato un rapporto contenente una versione riveduta degli strumenti relativi all’adesione dell’UE alla CEDU (doc. 47+1(2013)008). Essi comprendono il progetto di accordo di adesione (da qui innanzi: l’Accordo), con relativo commentario,  un progetto della Dichiarazione che l’Unione dovrebbe rendere al momento della firma dell’Accordo, un progetto di modifica del Regolamento di procedura del Comitato dei ministri, un modello per il Memorandum of Understanding che dovrebbe essere concluso dall’Unione europea con uno Stato terzo allorché si renda opportuna la partecipazione dell’Unione come amicus curiae (art. 36, par. 2, CEDU) in un procedimento instaurato contro un siffatto Stato.

Il rapporto individua molto chiaramente le tappe che restano da percorrere per portare a compimento il processo di adesione (doc. cit. supra, p. 18). In primo luogo, la Corte di giustizia dovrà rendere un parere ex art. 218, par. 11, TFUE, circa la conformità dell’Accordo con i Trattati europei. Ammesso che questo parere non sia di segno negativo – ciò che renderebbe necessaria una revisione dei Trattati o, più realisticamente, una riapertura dei negoziati – dopo l’emanazione di un parere da parte della Corte EDU e dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’accordo dovrebbe essere adottato dal Comitato dei ministri e aperto alle firme. Al momento della firma, l’Unione europea dovrebbe rendere la Dichiarazione concordata in sede di negoziati. Per poter entrare in vigore, l’Accordo necessiterebbe a quel punto della ratifica o dell’approvazione dell’Unione e di tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. È bene precisare a questo proposito che – assai opportunamente – l’art. 10, par. 1 dell’Accordo lascia gli Stati liberi di esprimere il proprio consenso a vincolarsi mediante la ratifica oppure la semplice firma. Considerato che l’Accordo si limita a modifiche di natura istituzionale poco incisive e che non muta in maniera significativa la posizione degli Stati non membri dell’Unione, è ragionevole ritenere che questi ultimi, nel rispetto dalle proprie norme costituzionali, possano manifestare il consenso a vincolarsi senza dover espletare le complesse procedure interne che precedono la ratifica; procedure che – il Protocollo 14 docet – potrebbero ritardare di molto l’entrata in vigore dell’Accordo.

Alla conclusione dell’Accordo dovrebbe accompagnarsi l’emendamento del Regolamento di procedura del Comitato dei ministri, volto a modificare le maggioranze di voto nelle ipotesi in cui il Comitato sia chiamato a controllare la corretta attuazione delle sentenze della Corte EDU vincolanti nei confronti dell’Unione. Infine, l’Accordo dovrebbe essere recepito nell’ordinamento europeo attraverso l’adozione (particolarmente delicata) di atti che disciplinino, fra le altre cose, le modalità per il coinvolgimento preventivo della Corte di giustizia nel corso della procedura di co-respondent, nonché le modalità di attuazione delle sentenze della Corte EDU che stabiliscano un responsabilità solidale fra Unione e Stato/i membro/i.

Evidenti limiti di spazio non consentono, in questa sede, di svolgere un esame esaustivo, o anche soltanto organico, dei numerosi e complessi problemi connessi all’adesione dell’Unione alla CEDU. Per un’analisi maggiormente sistematica, mi permetto di rinviare a quanto già osservato con riferimento ad una precedente versione dell’accordo (qui). Mi limiterò qui soltanto ad alcune osservazioni rapsodiche (e mi auguro non troppo sommarie), nella speranza che taluni spunti possano essere oggetto di approfondimento nel successivo dibattito.

RIPARTIZIONE DI RESPONSABILITA’ FRA UNIONE E STATI MEMBRI

Anche in questa sua ultima versione, l’Accordo non contiene una clausola (auspicata da parte della dottrina), che deroghi come lex specialis alle regole di diritto internazionale generale relative all’attribuzione di fatti illeciti alle organizzazioni internazionali e/o ai loro Stati membri. L’Accordo (art. 1, par. 4), riafferma il principio, coerente con la pregressa giurisprudenza di Strasburgo, secondo cui i comportamenti posti in essere dagli organi di uno Stato membro, anche se adottati in attuazione di un obbligo previsto dal diritto dell’Unione, restano  attribuibili allo Stato. Non del tutto congruente pare il commentario, nella parte in cui giustifica il principio suddetto alla luce del diritto dell’Unione, anziché del diritto internazionale (ivi, punto 23). Non è chiaro a che titolo il diritto dell’Unione potrebbe venire in rilievo ed essere opponibile a Stati terzi. Né, peraltro, si capisce a quali norme europee si faccia riferimento. Il diritto dell’Unione non si occupa in generale del problema dell’attribuzione di fatti internazionalmente illeciti; tutt’al più vi sono alcuni accordi misti che regolano la ripartizione di responsabilità fra Stati membri e Unione,  limitatamente all’attuazione degli accordi medesimi. Viene da chiedersi se il commentario non alluda all’art. 340 TFUE, in tema di responsabilità extracontrattuale dell’Unione per i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti. Il richiamo a questa norma, e alla giurisprudenza che su di essa è stata elaborata dalla Corte di giustizia in relazione alla nozione di “agente”, non sarebbe comunque  pertinente, in quanto riguarda il differente profilo dell’attribuzione di atti o omissioni, di organi e agenti dell’Unione, ai fini del sorgere di una responsabilità civilistica e non della responsabilità internazionale. Al di là di considerazioni di ordine formale, il riferimento nel commentario al diritto interno dell’Unione sembra fuori luogo alla luce della considerazione, maggiormente pregnante, che i giuristi della Commissione europea, spesso in  polemica con la Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, hanno sostenuto a più riprese la tesi di segno opposto, secondo cui i comportamenti degli organi statali sarebbero attribuibili all’Unione, ogniqualvolta essi agiscano per dare attuazione ad un atto europeo che non lasci loro alcun margine di discrezionalità.

NOZIONE DI JURISDICTION

Un tema assai dibattuto in dottrina riguarda il significato che dovrebbe essere attribuito alla nozione di giurisdizione ex art. 1 della CEDU, con riferimento ad un’organizzazione internazionale come l’Unione europea. L’Accordo evita di prendere posizione fra le principali prospettive teoriche e si impronta ad un approccio pragmatico, che tende ad equiparare la situazione dell’UE con quella degli Stati parti, rinviando  in questo modo alla pertinente giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Secondo l’art. 1, par. 6, per persone sottoposte alla giurisdizione dell’Unione devono intendersi in primo luogo le persone “within the territories of the member States”. Lo stesso articolo soggiunge: “[i]nsofar as that term refers to persons outside the territory of a High Contracting Party, it shall be understood, with regard to the European Union, as referring to persons which, if the alleged violation in question had been attributable to a High Contracting Party which is a State, would have been within the jurisdiction of that High Contracting Party”.

MECCANISMO DI CO-RESPONDENT

Al pari delle precedenti versioni, l’Accordo non introduce un meccanismo di intervention forcée, auspicato da molti Stati non membri dell’UE (doc. 47+1(2013)R04, punto 12) e, a nostro avviso, decisamente preferibile. Si segnala, peraltro, una novità apprezzabile consistente nella previsione, all’interno della Dichiarazione che l’Unione dovrebbe rendere al momento della firma dell’Accordo, di un impegno, da parte dell’Unione stessa, a chiedere di partecipare come “co-respondent to the proceedings before the European Court of Human Rights or accept an invitation by that Court to that effect, where the conditions set out in Article 3(2) of the Accession Agreement are met”. Un atto europeo di recepimento dovrebbe affidare presumibilmente alla Commissione il compito di prendere l’iniziativa per la partecipazione dell’Unione a un procedimento in qualità di co-respondent. Peraltro, nel caso in cui la Commissione non agisse in tal senso, ritenendo non soddisfatti i requisiti di cui all’art. 3, par. 2, dell’Accordo, resterebbe aperta la possibilità, sia per lo Stato membro convenuto, sia per l’individuo ricorrente davanti alla Corte EDU, di proporre innanzi alla Corte di giustizia un ricorso in carenza.

Nell’Accordo non è stata accolta la proposta avanzata nel corso dei negoziati (doc. 47+1(2012)R03, par. 10), di consentire l’attivazione del meccanismo di co-respondent anche quando uno Stato terzo sia chiamato a rispondere di asserite violazioni della CEDU compiute in adempimento di un obbligo posto da un accordo internazionale concluso con l’Unione europea (si pensi all’Accordo sullo Spazio economico europeo). Tale proposta si poneva in netto contrasto col principio secondo cui la posizione dell’Unione europea deve essere identica a quella di tutte le altre Parti contraenti, salvo per le modifiche che siano strettamente necessarie in considerazione della specifica natura dell’UE come ente astatuale. Infatti, lo scenario immaginato nella suddetta proposta è del tutto analogo a quello in cui violazioni della CEDU siano poste in essere dagli Stati parti in adempimento di trattati con altri Stati che non lascino loro margini di discrezionalità. Come sottolinea il Commentario (punto 46), più opportuna sembra la possibilità per l’Unione di intervenire ex art. 36, par. 2 della CEDU. Si segnala l’inclusione nel rapporto (Allegato IV) di un modello di memorandum che, nell’ipotesi di cui si tratta, dovrebbe essere  concluso dallo Stato terzo e dall’Unione. In base ad esso l’Unione si impegnerebbe a intervenire come amicus curiae e, soprattutto, a prendere le misure necessarie per consentire allo Stato terzo di attuare la sentenza della Corte EDU, laddove essa evidenziasse l’incompatibilità con la Convenzione di atti europei che tale Stato sia tenuto ad applicare in virtù di un accordo internazionale con l’Unione.

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Simone Vezzani

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