diritto internazionale pubblico

Riflessioni a margine della sentenza Vinter c. Regno Unito (parte I): Quali limiti al controllo della Corte europea dei diritti umani?

Con la sentenza Vinter e altri un nuovo fronte di scontro si è aperto tra il Regno Unito e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Dopo la condanna nel caso Hirst, relativa al diritto di voto dei detenuti, e a soli due giorni dalla chiusura del caso Abu Qatada, estradato verso la Giordania dopo una lunga battaglia processuale giocata sia sul fronte interno che su quello internazionale, è l’istituto inglese dell’ergastolo senza possibilità di liberazione ad essere bocciato dai giudici di Strasburgo. Il 9 luglio 2013 la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, infatti, dichiarato che l’assenza di un meccanismo di riesame che permetta di valutare la necessità della protrazione dell’ergastolo in relazione ai fini legittimi della pena stessa – tra cui la finalità rieducativa – trasforma la pena dell’ergastolo in una pena inumana e degradante.

Le reazioni, sul piano politico, di numerosi esponenti del partito e del Governo del Primo Ministro David Cameron, non si sono fatte attendere. Lo stesso Primo Ministro, attraverso il suo portavoce, si è detto “molto, molto, molto, deluso da tale sentenza”, mentre il Ministro degli Interni Theresa May si è dichiarata sorpresa e sconcertata (dal Guardian). Il Ministro della Giustizia è andato anche oltre, affermando, che il popolo britannico troverà tale sentenza fortemente frustrante e difficile da comprendere: “Penso – ha affermato Chris Grayling – che coloro che hanno scritto il testo originale della Convenzione europea si rivolterebbero nelle loro tombe” (v. la dichiarazione). Queste posizioni rappresentano bene l’insofferenza inglese di fronte a decisioni provenienti da un organo giurisdizionale sovranazionale che considera illegittime scelte democraticamente assunte a livello nazionale. D’altronde, da tempo il Governo inglese ha espresso l’intenzione di «ridurre il ruolo della Corte europea nel Regno Unito”.

Tuttavia, tale posizione non è nuova e rispecchia quella che, sul piano giuridico, è stata espressa da influenti giuristi e politologi inglesi tra cui si possono citare Lord Hoffmann (v. il suo celebre discorso The Universality of Human Rights, 2009), Dominic Raab (v. Strasbourg in the Dock: Prisoner Voting, Human Rights & the Case for Democracy, Civitas, 2011) e Michael Pinto-Duschinsky (v. Bringing Rights Back Home. Making human rights compatible with parliamentary democracy in the UK, Policy Exhange, 2011) e si riflette, come si vedrà a breve, nella posizione adottata dal Governo inglese nel corso dell’udienza pubblica davanti alla Grande Camera.

La controversia relativa alla disciplina dell’ergastolo senza possibilità di liberazione trae dunque origine da un conflitto più profondo che si dispiega su due piani, uno propriamente penalistico e l’altro di natura costituzionale-internazionalistica.

Nel primo, si contrappongono due diverse concezioni dei valori che fondano la legittimità della sanzione penale e, in particolare, della pena dell’ergastolo e i loro scopi. Da una parte, quella sostenuta dal governo inglese, secondo la quale è perfettamente legittimo giustificare l’ergastolo, alla luce dell’articolo 3 CEDU, sulla base di ragioni di natura meramente retributiva e di giusta punizione (just punishment) oltre che di neutralizzazione di soggetti considerati di per sé pericolosi, data la gravità dei loro atti; dall’altra, si trova la concezione propugnata dal ricorrente che, nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale italo-tedesca, colloca al centro della funzione della pena il principio della protezione della dignità umana e il concetto di rieducazione e reinserimento sociale. In un caso, l’ergastolo senza possibilità di liberazione sarebbe, dunque, legittimo (salvo casi eccezionali, posto che i condannati all’ergastolo, quasi per definizione, essendosi macchiati di gravissimi reati, ‘meritano’ una sanzione altrettanto grave), nell’altro caso gli individui dovrebbero godere, per utilizzare le parole del giudice Power-Forde, di un ‘diritto alla speranza’ di ottenere un giorno la liberazione, fondato, almeno in parte, su considerazioni relative alla finalità rieducativa della pena. Tale profilo sarà esaminato nella seconda parte di questo post.

La risoluzione di questa prima controversia presuppone, però, un’analisi posta su un altro piano, sul quale il Regno Unito è da tempo in conflitto con la Corte: si mette in discussione la competenza della Corte europea stessa a decidere in merito alla legittimità di soluzioni adottate democraticamente a livello nazionale. E così, nelle osservazioni orali presentate dal Governo durante l’udienza pubblica davanti alla Grande Camera, riemergono, in chiave giuridica, gli stessi termini che caratterizzano il dibattito politico. Secondo il Governo inglese, infatti, il tema della funzione della pena e dell’ergastolo costituisce “oggetto di controversie di natura etica, politica e filosofica e di continue discussioni razionali e di dissensi civilizzati”. La valutazione di cosa si debba considerare come giusta punizione o come punizione inumana o degradante può portare a diverse risposte in diversi Stati, motivate da differenze di ordine storico, culturale e politico. Sarebbe dunque legittimo che tali controversie fossero decise secondo la volontà popolare di ciascuno Stato e non da un organo giurisdizionale sovranazionale. La determinazione della portata e dell’applicazione dell’articolo 3 CEDU dovrebbe, dunque, prendere in considerazione l’importanza del rispetto delle decisioni nazionali democraticamente assunte.

La posizione espressa dalle scelte del Parlamento inglese, ossia quella di fondare la legittimità della pena dell’ergastolo su meri fini retributivi, costituirebbe dunque un’opzione legittima e meritevole di pari dignità rispetto a quelle operate da altri Stati, dai giudici dissenzienti nella sentenza di camera e dal ricorrente, che invece conferiscono dignità costituzionale/convenzionale al principio rieducativo e alla speranza di riottenere la libertà. Quest’ultima rappresenta solo uno, tra i diversi possibili punti di vista etici, politici e filosofici concernenti la giustificazione dell’ergastolo ed è in contrasto con il sentire comune nel Regno Unito.

La Corte, tuttavia, ha implicitamente rigettato questa seconda posizione. Il fatto che esistano più concezioni egualmente legittime dal punto di vista etico e politico, non significa che debbano, per ciò stesso, essere considerate legittime sul piano del rispetto dei diritti umani, così come tutelati dalla CEDU e interpretati dalla Corte. La Convenzione costituisce un limite a scelte di natura etica e politica, considerandone alcune in contrasto con la protezione effettiva dei diritti umani.

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Roberto Chenal

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