diritto internazionale pubblico

Quando la ragione non coincide necessariamente con la ragionevolezza: la pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel caso della Caccia alla balena nell’Antartico.

La sentenza del 31 marzo 2014, con cui la Corte internazionale di giustizia si è pronunciata sul caso della Caccia alla balena nell’Antartico (Australia c. Giappone), solleva diversi spunti di riflessione, in particolare con riferimento al tema dell’interpretazione dei trattati e alla definizione  in tale contesto di un appropriato “standard of review”. Va al riguardo rilevato che quest’ultimo concetto, già ampiamente utilizzato da altri tribunali internazionali (cfr. anzitutto la Corte europea dei diritti umani, con riferimento all’elaborazione della teoria del margine di apprezzamento, la cui applicazione nel caso di specie era stata peraltro inizialmente invocata dal Giappone), aveva fino ad oggi ottenuto scarsissimo riconoscimento da parte della Corte.

Il caso riguarda la Convenzione internazionale del 1946 sulla regolamentazione della caccia alle balene (ratificata da entrambi gli Stati parte alla controversia) ed in particolare la conformità ad essa della concessione da parte del Giappone di permessi di cattura e uccisione delle balene ai fini dello svolgimento di ricerche scientifiche. Stipulata al fine di circoscrivere e regolamentare le operazioni di caccia alle balene e garantire la conservazione e l’accrescimento di questi cetacei, la Convenzione prevede, all’VIII, che uno Stato contraente «may grant to any of its nationals a special permit authorizing that national to kill, take and treat whales for purposes of scientific research subject to such restrictions as to number and subject to such other conditions as the Contracting Government thinks fit». La stessa disposizione detta poi alcuni obblighi di carattere procedurale a carico dello Stato, il quale deve notificare le concessioni, da esso accordate, alla Commissione istituita ai sensi della Convenzione (d’ora innanzi “IWC”) e trasmettere periodicamente le informazioni scientifiche disponibili, nonché i risultati relativi alle ricerche condotte sulle balene, al Comitato scientifico da essa designato. Quest’ultimo, conformemente alla sua competenza a emettere raccomandazioni di valore non vincolante, ha definito alcune linee guida cui gli Stati dovrebbero conformarsi onde realizzare gli obiettivi della Convenzione.

L’interpretazione della norma, invocata dal Giappone a giustificazione dei permessi accordati nell’ambito della seconda fase del programma c.d. JARPA (JARPA II), è quindi tema centrale della controversia e del ragionamento della Corte. Essa in particolare ha dovuto stabilire se le autorizzazioni contestate fossero state accordate “for purposes of scientific research” o se invece, come sostenuto dall’Australia, la loro concessione non fosse in realtà che un modo per aggirare la normativa internazionale in materia di caccia alle balene, mascherando, dietro a considerazioni di tipo scientifico, interessi di altra natura e principalmente di carattere economico e commerciale (par. 101 della sentenza).

Il dibattito che ha preceduto l’adozione della sentenza e che ha visto protagonisti non solo gli Stati direttamente coinvolti nella controversia (tra cui la Nuova Zelanda, intervenuta in causa, ai sensi dell’art. 63 dello Statuto della Corte), ma anche studiosi ed esperti della materia, si è concentrato, in larghissima misura, sulla portata della nozione di interesse scientifico e, ancor più, sullo standard of review da adottare nella definizione di tale parametro. L’art. VIII infatti non chiarisce se spetti allo Stato piuttosto che alla Corte internazionale di giustizia, ovvero agli organi di controllo stabiliti dalla Convenzione, il compito di determinare l’esistenza di un interesse di natura scientifica, né quali sono gli elementi in cui esso si sostanzia, né infine la sua rilevanza ai fini del giudizio sulla conformità delle concessioni alle norme convenzionali; problemi questi con cui in varia misura la Corte si confronta, chiarendo, fin da subito, che scopo del suo ragionamento è quello di stabilire quali sono i parametri rielevanti per decidere se una misura sia stata adottata “for purpose of scientic research” e se quindi, alla luce dei medesimi, essa debba ritenersi conforme all’art. VIII della Convenzione.

Tale norma, secondo la Corte, va intesa anzitutto nel senso che l’interesse scientifico non deve essere soltanto compreso fra quelli verso cui le misure oggetto della concessione sono finalizzate, dovendosi piuttosto dimostrare la sua centralità e prevalenza rispetto a ulteriori possibili fini che l’uccisione delle balene potrebbe concorrere a realizzare, i quali in ogni caso non giustificano il ricorso all’art. VIII.

Al fine poi di verificare che le misure concesse dal Giappone soddisfino i requisiti stabiliti dalla Convenzione, la Corte dichiara che il criterio di cui intende avvalersi è quello della ragionevolezza, che viene per la prima volta espressamente indicato come lo standard of review da utilizzare per valutare la conformità con il diritto internazionale del comportamento dallo Stato. L’applicazione di tale parametro comporta, a giudizio della Corte, di dover valutare due aspetti. In primo luogo, se le concessioni accordate dal Giappone siano funzionali allo svolgimento di ricerche di carattere scientifico ‒ concetto questo su cui peraltro la Corte non si pronuncia, ritenendo sufficienti le conclusioni raggiunte dagli esperti, ed in particolare del Comitato stabilito ai sensi dell’art. VIII (cfr. par. 127 della sentenza, in cui espressamente si dice che le attività oggetto del programma JARPA II rientrano nella definizione di ricerca scientifica). In secondo luogo, e soprattutto, se i metodi utilizzati per la cattura e lo sfruttamento delle balene, implicanti la morte dei cetacei, siano ragionevolmente commisurati e necessari al conseguimento degli obiettivi perseguiti (par. 67; par. 127 ss. della sentenza).

I parametri su cui si fonda il giudizio di ragionevolezza espresso dalla Corte riguardano essenzialmente il possibile utilizzo di metodi non letali ugualmente efficaci ai fini della ricerca (par. 144), criterio questo indicato nelle linee guida del Comitato, o la possibilità di ottenere lo stesso numero di informazioni e dati uccidendo una minore quantità di balene (par. 147 ss.). Al fine di verificare l’esistenza di tali condizioni la Corte si basa in larga misura sulle valutazioni espresse dagli esperti (dando apparentemente maggior peso a quelli nominati dall’Australia), per poi concludere, sulla scorta di ragionamenti non sempre convincenti, che: «the programme’s design and implementation are [not] reasonable in relation to achieving its stated objectives. The Court concludes that the special permits granted by Japan for the killing, taking and treating of whales in connection with JARPA II are not “for purposes of scientific research” pursuant to Article VIII, paragraph 1, of the Convention» (par. 227). In particolare la Corte si sofferma sui dati riguardanti il numero di balene catturate e uccise, rilevando una sproporzione rispetto alle finalità indicate dal programma. Essa arriva quindi a chiedersi, in via dubitativa, se il Giappone, come ritenuto dall’Australia, non intendesse in realtà perseguire finalità diverse da quelle dichiarate (par. 209), alludendo quindi a una possibile malafede dello Stato (par. 212; in senso conforme a questa lettura della sentenza si veda l’opinione dissenziente del giudice Yusuf, par. 54).

Al riguardo ci si chiede se questa affermazione, espressa in chiave dubitativa, non avrebbe dovuto essere piuttosto suffragata da «éléments particulièrement solides, que le débats n’ont pas fait apparaitre», onde dimostrare che il programma JARPA II era nella sostanza finalizzato a obiettivi diversi rispetto a quello della ricerca scientifica (par. 29 dell’opinione dissenziente del giudice Abraham; nel medesimo senso cfr. par. 22 della opinione dissenziente del giudice Owada). In altre parole ci si domanda se, in assenza di prove precise e concordanti del comportamento sleale di uno Stato, non valga il principio di carattere generale per cui è la buona fede a dover essere presunta (cfr. par. 21 dell’opinione Owada). Tale presunzione non ha in questo contesto carattere assoluto e può essere superata dalla dimostrazione che lo Stato ha consapevolmente aggirato gli obblighi internazionali che su di esso incombono, violando al contempo il fondamentale principio secondo cui «every treaty in force is binding upon the parties to it and must be performed by them in good faith» (art. 26 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati). Nella specie e ai fini dell’art. VIII della Convenzione, il rispetto del principio di buona fede comporta l’obbligo per lo Stato di determinare, secondo parametri oggettivi e facilmente verificabili, l’esistenza di un interesse scientifico rilevante e di accordare soltanto le concessioni aventi ad oggetto misure che siano funzionali alla sua realizzazione. Sulla base del regime previsto dalla Convenzione, la verifica dell’adempimento di tali obblighi viene anzitutto effettuata dal Comitato, che esprime pareri tecnici sui programmi che gli vengono notificati. Questa procedura implica, come correttamente sostenuto nella sentenza, seppure in una diversa prospettiva, un giudizio di ragionevolezza sul comportamento dello Stato.

Quello che non convince pienamente nel ragionamento della Corte sono i parametri che essa utilizza per operare tale valutazione. Essa infatti, al fine di verificare se «the killing, taking and treating of whales in pursuance of JARPA II is for purposes of scientific research», alla luce del menzionato standard of review,  si chiede «whether the design and implementation of JARPA II are reasonable in relation to achieving the programme’s stated research objectives», utilizzando quindi come criterio di analisi il rapporto tra l’obiettivo scientifico dichiarato e i metodi utilizzati per realizzarlo (in senso critico sulle modalità seguite nell’applicare lo standard di ragionevolezza cfr. opinione Owada, par. 42). Questo giudizio implica, cosa che d’altra parte si evince dalla stessa sentenza, l’acquisizione, l’elaborazione e l’esame comparativo di informazioni e di dati di natura tecnico-scientifica, su cui il Comitato scientifico, nell’ambito delle sue competenze, si era già pronunciato ai sensi della Convenzione (sulla importanza del ruolo del Comitato a questo riguardo cfr. opinione Yusuf, par. 61). Tale compito non dovrebbe spettare, in via di principio, alla Corte, la quale, «as a court of law, [has] the power to interpret and apply the provisions of the Convention from a legal point of view» (par. 20 opinione Owada). Il giudizio di ragionevolezza avrebbe quindi probabilmente potuto basarsi sulla verifica dell’adempimento, da parte del Giappone, di tutti gli obblighi, anche e soprattutto di natura procedurale, specificamente preposti all’obiettivo di favorire e garantire il controllo sulla rispondenza delle autorizzazioni accordate dallo Stato con le finalità perseguite dalla Convenzione. Ci pare d’altronde che questo ragionamento sia in linea con la precedente giurisprudenza della Corte. Ad esempio nel caso Pulp Mills, relativo, latu sensu, alla conformità dello sfruttamento di risorse naturali con gli obblighi internazionali di protezione dell’ambiente ‒ come pare doversi certamente qualificare anche quello della tutela delle balene da sfruttamenti arbitrari od eccessivi ‒ essa aveva utilizzato, come parametro per valutare la correttezza del comportamento tenuto dallo Stato, l’espletamento da parte del medesimo di adempimenti di carattere evidentemente procedurale, quali la verifica preventiva dell’impatto ambientale di una determinata misura ai fini della sua autorizzazione (cfr. par. 177 sentenza Pulp Mills; sulla buona fede come standard of review e sulla rilevanza dell’adempimento di obblighi procedurali come parametro per verificare la ragionevolezza del comportamento dello Stato cfr. anche la dichiarazione del giudice Keith nel caso Djibouti).

Alla luce di queste riflessioni, è lecito chiedersi se l’applicazione di uno standard di ragionevolezza non comportasse (e forse in essa non si esaurisse) un’indagine approfondita sul corretto adempimento degli obblighi procedurali e di diligenza imposti dalla Convenzione, tenuto debitamente conto dalle linee guida e dei pareri espressi dalla IWC e dal Comitato Scientifico ‒ cui probabilmente la Corte avrebbe potuto riconoscere maggiore rilevanza, non tanto, giustamente, in termini di prassi successiva (cfr. par. 46 e 83 della sentenza), ma piuttosto in quanto norme di soft law in grado di orientare i comportamenti dello Stato e di verificarne, a posteriori, la correttezza ‒, piuttosto che risolversi in un’analisi di informazioni e dati tecnici, la cui interpretazione e valutazione da un punto di vista scientifico esula dalle competenze della Corte (cfr. su questo aspetto opinione Owada, par. 25).

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Chiara Ragni

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