diritto internazionale pubblico

Gaza e la lotta per il diritto internazionale

È stato prima di tutto per rispondere alla mia coscienza – non per il gusto di scandalizzare – che ho deciso di contrapporre un piccolo scritto a un appello per Gaza di grande successo, che si apre accennando a un “dovere intellettuale e morale” di denuncia. Il fatto che io abbia avvertito l’esigenza di giustificare la mia mancata adesione avrebbe potuto segnalare l’esistenza di un’intersezione tra il mio senso morale e quello dei miei “correligionari” – autori, banditori e firmatari dell’appello – e che il mio super-ego internazionalistico non è molto diverso dal loro, non è in dismissione e neppure in agostane panciolle. Ho insomma voluto esprimermi come membro di una comunità ma di questa comunità devo aver infranto una fondamentale regola, dato il tenore di alcune reazioni.

Mi riferisco soprattutto, ma non solo, alla splendida risposta di Marco Pertile, la quale – come cercherò di mostrare – fraintende ampiamente il senso del mio discorso e che, ciò nonostante – o proprio per questo? – ha strappato a un altro firmatario dell’appello, Gabriele Della Morte, un commosso “Marco, sei tutti noi”! (ibidem). Dopo l’iniziale sgomento di chi è deferito dinanzi a un folto schieramento di sopraccigli alzati, ho cercato di sfruttare l’occasione per meditare sui costrutti psicologici e identitari – e di riflesso teorici – all’origine del successo del documento che stavo per sottoscrivere e della “chiusura comunitaria” manifestata da alcuni firmatari di fronte alla mia critica.

La prima breve replica pervenuta a SIDIBlog “tronca e sopisce” imputandomi l’incapacità di intendere il documento secondo i canoni propri del genere letterario “appello”: nulla di cui discutere, dunque, a parte eventuali mises au point dottrinali. Marco Pertile si è in prima battuta lamentato della difficoltà di cogliere il “significato” dell’intervento, la cui oscurità lo avrebbe spinto a ricercare il mio reale movente per via indiziaria, un movente – secondo lui, la delusione per la “faziosità” dell’appello – che avrei celato dietro scuse non richieste, come sempre rivelatrici, e persino ricorrendo a ingannevoli asserzioni contrarie… non ho forse scritto che dell’appello ho apprezzato l’afflato politico e morale? Ebbene, avrei mentito. Mi si attribuisce, insomma, una certa disonestà intellettuale. E anche – mi pare – una tendenza a contrapporre considerazioni accademiche e astratte al coraggioso impegno che i firmatari hanno assunto di fronte alla tragedia, ergo una certa fiacchezza o abiezione morale, come quella di chi preferisce “restare sulla sponda del fiume a contemplare il passaggio dei cadaveri”, per citare le parole di Fabio Marcelli (all’accusa di essermi persino proposto come “apologeta” del potere contro il diritto ho già in parte replicato).

Credo di comprendere la causa di queste reazioni. Il momento in cui i giuristi decidono di impiegare il loro “capitale sociale” (mi appresto a sfruttare alcuni noti concetti della sociologia di Pierre Bourdieu) al di fuori del loro campo specifico – ossia a far valere, nella comunicazione con altri ambiti del sociale, tramite un appello per esempio, il loro stauts di esperti di una disciplina che tende a presentarsi, soprattutto agli occhi del profano, come istanza neutrale e come veicolo di giustizia (cfr. l’endiadi “diritto e giustizia” nel commento di Fabio Marcelli) – è il momento meno indicato per proporre loro una critica del diritto, perché in tal caso dissentire equivale a insinuare presso il pubblico che la “valuta” in cui è espresso l’investimento è a rischio di deprezzamento. E il dissenso apparirà tanto più incomprensibile – e reprensibile – se a formularlo è proprio un collega che, per quanto marginale (magari un semplice “Dott.”, delizioso esempio di violence symbolique), rischia di scalfire quella compattezza di convinzioni e di intenti che le sortite degli esperti in campo aperto richiedono (cfr. la “confessione” di alcuni dei firmatari della famosa lettera dei “teachers of international law” contro l’intervento angloamericano in Iraq, i quali avrebbero “finto” di condividere una semplificatoria sintesi dello ius ad bellum per ragioni politico-strategiche). Di qui il ricorso – credo del tutto spontaneo e innocente – a dispositivi retorici di sterilizzazione del dissenso “intracomunitario”.

A parte quelli già ricordarti, vale la pena citare l’appello di Marco Pertile ad accantonare i dubbi che tormentano ciascuno di noi, “per far suonare la propria voce assieme a quella di altri” (grassetto omesso), oppure l’evocazione di un uditorio perelmanniano presso cui vige un comune senso del ridicolo che fa piazza pulita delle opinioni strampalate o, infine, l’“invito” di Fabio Marcelli a contemplare l’ipotesi di “cambiare mestiere” (rivolto non al sottoscritto ma, in astratto, a chiunque perda la fede nel diritto internazionale). Oltre a ciò, se si vuole evitare il deprezzamento della valuta di cui dispone il giurista firmatario dell’appello – il diritto – allora torna utile negare che il dissenso riguardi il diritto in quanto tale, come fa Marco quando sorprendentemente insinua che le mie vere perplessità, chissà perché da me “criptate”, sarebbero di ordine politico – nel senso di “partigiano” – ed emergerebbero dal rifiuto di un documento giudicato troppo filopalestinese, mentre per me, in un certo senso, non lo è abbastanza (sul punto tornerò in fine), oppure quando mi attribuisce – in modo altrettanto inatteso – credenze sul diritto internazionale da me mai coltivate e facili da “ridicolizzare”, perlomeno al cospetto di un certo uditorio. Cominciamo da qui.

Marco Pertile contesta la mia presunta tendenza a presentare il diritto internazionale “come inadeguato perché necessariamente ambiguo” (corsivo mio). Poiché, come chiunque può verificare, nessuno dei miei argomenti poggia sull’idea secondo cui il diritto internazionale in generale o quello umanitario in particolare sarebbero affetti da indeterminatezza, mi è difficile comprendere il senso di questo addebito. Dato che ci siamo, però, azzardo un’ipotesi sulla sua origine: la “tesi dell’indeterminatezza” (da non confondere con la vaghezza), un tempo minoritario vessillo dei Critical Legal Studies, ha ormai raggiunto un tale livello di popolarità – e di sfilacciamento concettuale – da assurgere a idea dominante (certo non in Italia!) o perlomeno “incombente”, come una minaccia, per cui si tende ad ascriverla meccanicamente a chiunque abbozzi una critica del diritto. Ma non tutta la critica è… Crit! Per quanto mi riguarda, considero la tesi dell’indeterminatezza debilitante per qualsiasi politica del diritto autenticamente radicale, tanto che alcuni anni fa ho tentato di confutarla di fronte a una piccola platea di ferventi adepti (non ho mai ritenuto la relazione degna di essere pubblicata, ma ciò non significa che io abbia cambiato idea). Anche per me, come per Marco Pertile, esistono “casi chiari”, argomenti più persuasivi di altri, conclusioni difficilmente scalfibili. Il suo “Case against Israel”, efficace e documentato, mi convince pienamente. Altrettanto chiaro mi pare il “Case against Hamas” (e Marco lo riconosce). Solo che, nell’improbabile evenienza che si celebri un “processo parallelo” davanti alla Corte penale internazionale, i responsabili del lancio indiscriminato di razzi sarebbero condannati per direttissima, mentre gli architetti dell’operazione Protective Edge avrebbero dalla loro parte una temibile compagine di esperti di diritto umanitario, rispettatissimi e con una spiccata propensione alla logomachia. O potremmo idealmente estrometterli dall’uditorio perelmanniano da Marco vagheggiato quale garanzia suprema di obiettività?

La mia “critica” al diritto umanitario – e a chi lo invoca con sapienza ma un po’ automaticamente – non ha nulla a che fare con la densità o la forza dei suoi precetti (credo, d’altra parte, che un diritto dei conflitti armati che non si avvalga di standard elastici sarebbe inconcepibile). Mi pare piuttosto che esso – l’ho già scritto replicando a un commento – non costituisca terreno d’elezione per chi lotta disperatamente avvalendosi di armi obsolete e di sistemi di informazione precari o inesistenti, per chi è costretto alla promiscuità con la popolazione civile e forse anche propenso – tragicamente – a sfruttarla per procrastinare indefinitamente la debellatio e per cercare un’improbabile vittoria passante per una radicalizzazione del conflitto. A chi impugna la matita blu attribuendomi un’inedita lettura del principio di distinzione “su base tecnologica”, posso rispondere con una domanda retorica: il diritto dei conflitti armati “premia” chi lancia a casaccio missili obsoleti o chi investe ingenti risorse nella predisposizione di sistemi d’arma “precisi” e micidiali? Se la risposta non è chiara, si possono cercare indizi sul sito Internet delle Forze armate israeliane, dove alta tecnologia militare e diritto umanitario si tengono a braccetto. Ciò detto, resta perfettamente legittimo e persino meritorio, ogni volta che deflagra il conflitto, tornare a consultare il nobile catechismo dello ius in bello, operare le opportune qualificazioni giuridiche e farsi testimoni delle più gravi infrazioni… ma tutto ciò, a parte sublimare un comprensibile desiderio di repressione, sin qui frustrato dalla latitanza degli organi ufficiali della giustizia penale internazionale, quale risultato concreto produce?

Per Marco Pertile, se l’inazione della Corte penale internazionale e del Consiglio di Sicurezza, inteso come potenziale artefice di meccanismi repressivi ad hoc, costringe gli esperti di diritto internazionale a un ruolo di supplenza, a reiterare rituali di accertamento “privati” o ad accontentarsi dell’ennesima commissione d’inchiesta (altro evidente succedaneo tribunalizio), la “responsabilità” non è da ascriversi al diritto internazionale bensì “alla politica e ai rapporti di forza che si sviluppano all’interno delle istituzioni”. Se la Corte e il Consiglio restano inerti, il diritto internazionale non ha colpa perché, osserva Marco, “non vieta a queste istituzioni di agire, i suoi principi, anzi, ne richiedono l’intervento”. Su queste basi, egli mi rimprovera di non aver compreso il rapporto – o piuttosto lo scisma da lui decretato! – tra diritto internazionale e politica. Credo che sarebbe più prudente affermare che i nostri modi di intendere tale rapporto sono diversi e incompatibili.

Quello di Marco si iscrive, a mio parere, nell’alveo della nobile tradizione dell’illuminismo giuridico, nella sua versione originaria sette-ottocentesca, che coniuga ottimismo normativo – il diritto è buono – e pessimismo potestativo: il potere, la politica, sono cattivi e rischiano in ogni momento, poiché operano nelle istituzioni, di corrompere l’immacolato “giure”. Perché, secondo Marco, il diritto umanitario è men che perfetto? Perché “talvolta il compromesso politico si riassume in norme vaghe” (corsivo mio). Il suo “positivismo” presenta evidenti tracce giusnaturalistiche; ed è normale, altrimenti come farebbe ad arginare l’infida potestas che il diritto positivo istituisce? Nell’ambito di una simile concezione il tema del quis judicabit è ovviamente soppresso. Meglio non pensarci, perché chiunque sia chiamato a decidere – Consiglio o Corte – rischia di inquinare la purezza (morale) del precetto giuridico con la politicità del suo agire. Marco ritiene che sia sempre possibile reperire un principio – nelle fonti non scritte, nei preamboli di patti, convenzioni e carte o altrove – che consente di qualificare come lecita o illecita la decisione politica di un organo internazionale. Il suo è un tentativo di “positivizzare” il sentimento morale che si rispecchia nelle vaghe teleologie (pace, sicurezza, giustizia) dei grands textes internazionalistici. In sintesi, il diritto serve per far la morale alla politica. Ed è quindi immune da ogni critica. Chi critica il diritto sbaglia destinatario: il mittente è pregato di rivolgersi alla politica. I giuristi che lanciano un appello hanno bisogno proprio di questo diritto “innocente”, che è la valuta pregiata della loro expertise.

Come opera, in concreto, questa concezione? Nella peculiare prospettiva che essa crea, una critica del diritto di veto (per esempio), ossia della norma internazionale che dà spazio e forma all’esercizio della politica di potenza in seno alle Nazioni Unite, è semplicemente inconcepibile; solo il concreto – e “politico” – esercizio di tale diritto è criticabile, se impedisce un esito conforme ai superiori principi della pace, della sicurezza, della giustizia. Ma chi detiene la competenza a esprimere un giudizio su tale conformità? E soprattutto: dove sono le procedure idonee a far valere l’eventuale responsabilità del Consiglio di Sicurezza per omesso intervento?

In modo del tutto analogo, l’appello pretende che il Consiglio deferisca la situazione in Palestina alla Corte penale internazionale, pena venir meno alle sue “responsabilità di mantenimento della pace e di perseguimento della giustizia”. E se il Consiglio ritenesse che la sua missione richiede di non consegnare il caso alla Corte? E se – supponendo che la Corte giunga a occuparsene per altre vie – il Consiglio decidesse di strapparglielo di mano, agendo ai sensi dell’art. 16 dello Statuto di Roma (e anche questo è diritto internazionale), allo scopo di prevenire il rischio, da esso percepito, di un aggravamento del conflitto? Tali decisioni potrebbero naturalmente suscitare critiche di ordine politico ma sarebbe perlomeno ingannevole asserirne il carattere “illecito”, ossia la loro non conformità a parametri normativi la cui autonomia rispetto al potere decisionale – costituito, non dimentichiamolo, dal diritto – è del tutto illusoria. E se il procuratore della Corte penale internazionale decidesse di continuare a… menare il can per l’Aja, come del resto fa da oltre 5 anni – includendo nel computo sia i tentennamenti di Moreno-Ocampo sia il curioso caso della Freedom Flottilla – si potrebbe ragionevolmente ritenerlo responsabile di un illecito continuo di natura omissiva? E quali sarebbero i meccanismi da innescare per produrre un accertamento della violazione, decurtando così il considerevole potere discrezionale del Procuratore? Ma questo è un problema che non può porsi un appello impegnato a celebrare un implicito culto della giustizia penale internazionale (il cui pessimo stato di salute è a mio avviso realisticamente diagnosticato nell’intervento di Pasquale De Sena).

Pasquale De Sena si è chiesto se nella presa di posizione di Marco Pertile – e in quella dei firmatari dell’appello – non si possano intravedere “tracce di una ‘lotta’ appassionata per l’affermazione del diritto internazionale”, forse riconducibile all’ideale tratteggiato nel famoso pamphlet di Rudolf von Jhering. Concordo solo in parte. Il loro è senza alcun dubbio un atteggiamento pugnace e appassionato: essi, come Shylock, la cui vicenda processuale è lungamente esaminata nel libello, “crave the law” (Il Mercante di Venezia, Atto IV, Scena I); sembrano tuttavia refrattari alla massima, coniata dal teorico de La lotta per il diritto, secondo cui “non deve accusarsi l’ingiustizia di usurpare il dominio del diritto, ma il diritto di permettere tale usurpazione” – l’opposto diametrale della concezione del nesso politica/diritto di Marco Pertile – oltre che estranei alla prospettiva, anch’essa cara a Jhering, per cui “la lotta per il diritto” deve talvolta convertirsi in “lotta contro il diritto” (lontano da casa ho potuto consultare solo questa edizione inglese; le citazioni sono tratte rispettivamente dalle pp. 70 e 88). In Jhering, inoltre, la lotta per il diritto è – come Pasquale ricorda – lotta dell’individuo o della nazione ispirati dal sentimento del proprio diritto, mentre chi firma un appello come quello qui discusso incita qualcun altro alla lotta e deve perciò guardarsi dalla sindrome della “mosca cocchiera”. È davvero responsabile – e politicamente sagace – incitare il Governo della Palestina a rivolgersi alla Corte penale internazionale, ossia ad affidarsi, costi quel che costi, alle cure di un’istituzione il cui comportamento è stato sin qui elusivo sino alla beffa? È nobile denunciare le pressioni esercitate da alcuni Stati affinché il Governo palestinese desista dal suo intento, certo, ma chi pagherà il prezzo delle ritorsioni che minacciano di abbattersi sul corpo già macilento dell’economia palestinese? Si è riflettuto abbastanza sulle possibili conseguenze del perseguimento di una soluzione internazionalpenalistica, molto probabilmente illusoria, oppure si è ritenuto di potersene esimere perché il diritto internazionale, tanto, è buono?

Due parole, per finire, sulla rinuncia a proporre soluzioni alternative, da alcuni ritenuta “delegittimante”. Sul punto condivido in tutto e per tutto la riflessione di Pasquale De Sena. Recependo l’opinione espressa da Valeria Pinto in un bel libro sui nuovi dispositivi di valutazione della ricerca scientifica in Italia, aggiungerei che “non spetta d’ufficio a chi svolge un esercizio di critica presentare soluzioni, aggiustamenti di rotta, individuare correzioni e finalità alternative, anzi neppure in generale finalità oltre la prassi critica medesima” (Valutare e punire, pp. 16-17). Ciò premesso, il dissidio tra me e i firmatari dell’appello non è così grave da costringermi a mantenere un atteggiamento critico allo stato puro, per così dire. Del resto, stavo per firmare. Se l’appello fosse stato meno “istituzionale”, meno compiaciuto nel delineare soluzioni internazionalpubblicistiche pronte all’uso e nel dipingere soggetti desiderosi di intervenire se regolarmente chiamati in causa (la Corte penale internazionale), oppure pronti a scattare sulla molla di qualche obbligo internazionale (il Consiglio di Sicurezza, le Alte parti contraenti delle Convenzioni di Ginevra), se, invece di vendere illusioni con il marchio dell’expertise, fosse stato più sferzante, più politico – se, in pratica, avesse speso qualche parola sulla deludente condotta dei soggetti che chiama in causa – l’avrei firmato mettendo da parte ogni residua perplessità.

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3 Comments

  1. Pasquale De Sena
    Agosto 18, 2014 at 12:30 pm — Rispondi

    Tre osservazioni direttamente stimolate dal (secondo) post di Lorenzo Gradoni.

    La prima è, più che altro, una precisazione, e concerne l’affermazione secondo la quale il paradigma della “lotta per il diritto”, elaborato a suo tempo da Jhering, non sarebbe riferibile ai firmatari o ai sostenitori dell’appello, in quanto relativo alla lotta dell’individuo per i propri diritti, non a quella per i diritti altrui.

    Questo è vero (né, per la verità, mi era sfuggito). Vero è, però, come d’altronde si ricorda nel pezzo, che anche il liberale Jhering estendeva il paradigma a popoli o comunità, dunque ad enti collettivi. Ebbene, se si assume (a) che gli Stati stessi, in quanto enti esponenziali dei popoli, ovvero delle comunità sottostanti, rientrino fra codesti enti nella prospettiva di Jhering, e se si considera (b) che gli obblighi di diritto umanitario si configurano come obblighi “erga omnes”, non è implausibile sostenere che la “plaidoirie” di Pertile, e la stessa “Joint Declaration”, siano riconducibili a detto paradigma.

    Sulla prima delle due ipotesi appena tracciate [sub (a)] non avrei dubbi.

    A suffragio della seconda [sub (b)], si può far valere che è proprio in questo senso che si è pronunciata la Corte internazionale di giustizia nel Parere sul muro del 2004, affermando che dalla natura “erga omnes” dei suddetti obblighi, deriva la conseguenza del non riconoscimento della situazione illegale, prodotta, sul piano del diritto umanitario, dalla loro violazione (in quel caso, la costruzione del muro in Palestina, da parte di Israele) e di non contribuire al mantenimento di suddetta situazione (in stretta analogia con quanto previsto dall’art. 41, par. 2, del Progetto di articoli sulla responsabilità del 2001, e a prescindere dal significato attribuibile, “ex se”, all’articolo 1 delle quattro Convenzioni di Ginevra) . E’ evidente che tale conseguenza origina dalla titolarità, in capo agli “omnes”, dell’interesse giuridico a far rispettare siffatti obblighi . Letto in quest’ottica, l’appello ed i suoi sostenitori appaiono dunque tesi ad ottenere l’adozione, anche da parte degli Stati (enti esponenziali della rispettive comunità, e, nel contempo, unità di base della comunità internazionale chiamata in causa; punto 4 della parte “dispositiva” della “Joint Declaration”), di comportamenti idonei a far valere in concreto la titolarità di tale interesse, in quanto interesse “proprio” di detti Stati (oltre che diffuso nella “società civile”), pure dal punto di vista del paradigma della “lotta per il diritto”

    Ciò spiega perché – a differenza di Lorenzo Gradoni – resto dell’idea che, perlomeno in astratto, l’ascrivibilità di Pertile e degli estensori della “Joint Declaration” a siffatto paradigma sia un’ipotesi proponibile, anche a prescindere dalle ulteriori matrici “cosmopolitiche”, che pure sono presenti nell’impostazione di detto documento e dei suoi sostenitori. Né questa conclusione mi sembra necessariamente contraddittoria con l’osservazione, proposta nel mio primo intervento, a proposito della tendenza israeliana ad adottare comportamenti lesivi del diritto umanitario in un’ottica di reciprocità rispetto alla controparte, dunque, in radicale contrasto con il carattere oggettivo del modo di essere degli obblighi in materia. Mi pare infatti che quest’ultima circostanza riguardi un aspetto diverso del modo di funzionare degli obblighi in questione (=la tendenza a violarli, ad opera delle parti di un conflitto, sui quali primariamente incombono), il cui ricorrere non esclude necessariamente l’ipotesi sub (b), qui messa in rilievo.

    Passo alla seconda osservazione, per dire che è, invece, in concreto, che ho alcuni dubbi riguardo all’applicazione del paradigma di Jhering nel caso di specie. Non si tratta tanto della dimenticanza – da parte dei firmatari dell’appello – dell’obbligo di lottare contro un diritto ingiusto, cui pure si allude nel libro di Jhering. Si tratta, piuttosto, di un’altra circostanza, la quale emerge con una certa evidenza, se si tiene presente l’interpretazione che del pensiero di Jhering è stata data da un altro pensatore liberale, quale Benedetto Croce, fra le due guerre. Nella prefazione alla traduzione italiana della “Lotta per il diritto” (coraggiosamente pubblicata da Laterza nel 1935, per iniziativa dello stesso Croce), quest’ultimo, in un passo piuttosto noto, osservava: “Un alto concetto informa questo scritto di Jhering: la necessità di asserire e difendere il proprio diritto con sacrificio dei propri interessi individuali. Vale a dire, non soltanto perché l’utile maggiore è da preferire al minore, il duraturo al momentaneo e labile, il fondamentale all’occasionale, ma innanzi tutto per il
    dovere morale, che comanda di mantenere saldo l’ordinamento giuridico,
    condizione della vita sociale e umana”. Ora, è piuttosto evidente – con riferimento all’appello “de quo”, ma anche a molti appelli di analogo genere – che “la necessità di asserire e difendere il proprio diritto con sacrificio dei propri interessi individuali […]”è una situazione che concerne, in realtà, solo alcuni dei firmatari; e cioè, coloro che, sia pure in forme diverse, sono già impegnati sul campo, in difesa dei diritti fatti valere.
    Solo per questi (fra cui senz’altro Marcelli e Meloni, forse anche Pertile) mi pare infatti che si possa parlare di un “sacrificio dei propri interessi individuali”, tale da rendere possibile ricondurre la loro posizione al paradigma della “lotta per il diritto”.
    Con ciò, naturalmente, non è mia intenzione destituire di senso, né sminuire il significato dell’adesione, a questo e ad altri appelli, effettuata dagli “altri”: cioè, da coloro che non si ritrovino nella suddetta situazione. Voglio solo sottolineare che siffatto significato, per gli “altri”, non risulta probabilmente ascrivibile alla sfera etica della “lotta per il diritto”, ma, piuttosto, essenzialmente alla sfera dell’azione politica, in difesa delle popolazioni civili colpite.

    E’ proprio qui, allora, che termina il mio disaccordo con Lorenzo Gradoni. Dubito fortemente, proprio come lui, che, dal punto di vista politico, siffatto modo di intervenire, da parte di giuristi, sia dotato di particolare efficacia. Dubito, insomma, in una situazione come quella in esame, che un appello al rispetto del diritto abbia una portata politica realmente significativa. Ma per questo, mi permetto di rinviare ai ragionamenti svolti nel mio (primo) post, oltre alle argomentazioni addotte da Lorenzo Gradoni stesso in quello sovrastante.

  2. Lorenzo Gradoni
    Agosto 23, 2014 at 10:23 am — Rispondi

    È stimolante la prospettiva – in fondo poco importa se autenticamente jheringhiana – di una lotta ingaggiata da individui o gruppi di individui per il diritto internazionale, di fronte a violazioni di obblighi erga omnes, che “turbano la coscienza dell’umanità” (Marco Pertile), soprattutto in situazioni in cui i principali soggetti dell’ordinamento, gli Stati, titolari di poteri di attuazione di tali obblighi (secondo la nota e complessa ricostruzione di Paolo Picone), preferiscono tenersi in disparte, intenti ad annodare fili negoziali se non proprio indifferenti, anche quando un loro intervento è espressamente contemplato e finanche richiesto dal diritto internazionale.

    A me pare che questa prospettiva possa in qualche modo riallacciarsi al discorso sulla tragica simmetria dei comportamenti illeciti di Hamas e delle Forze armate israeliane, svolto da Pasquale De Sena in questo Blog alcuni giorni fa (http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1019) e da lui brevemente ripreso qui sopra; una simmetria in cui Pasquale scorge un’inquietante reciprocità negativa estranea al carattere teoricamente oggettivo degli obblighi che il diritto internazionale umanitario esprime.

    La questione che si pone a questo proposito è nota ma è tutt’altro che risolta: si può pretendere che un belligerante si immoli sull’altare del rispetto di tale diritto – secondo una sorta di deontologismo assoluto – mentre l’avversario cerca di debellarlo calpestandone i principi? La pretesa è sensata nella misura in cui ci si può attendere che, ai sensi dell’art. 1 comune alle Convenzioni di Ginevra, le (altre) parti contraenti s’impegnino “a rispettare e a far rispettare” il diritto umanitario “in ogni circostanza” e in particolare al fine di reprimere le sue più gravi violazioni.

    In altre parole – e ancora una volta in chiave dubitativa – la preservazione del carattere oggettivo degli obblighi di diritto umanitario, come forse quello di qualsiasi altro obbligo erga omnes, non ha per necessario complemento la concreta disponibilità degli Stati, agenti individualmente o collettivamente, a farsi carico delle azioni necessarie ad attuare tali obblighi, senza che l’onere del loro rispetto ricada interamente sulle spalle di chi per primo ne subisce la violazione? E qual è, in termini più generali, lo stato di salute degli obblighi erga omnes dal punto di vista della loro concreta attuazione? Mi sembra, sulla scorta delle osservazioni di Pasquale, che le modalità del conflitto israelo-palestinese pongano anche questo problema.

    • Agosto 23, 2014 at 2:30 pm — Rispondi

      Lorenzo Gradoni ha colto perfettamente i punti centrali del mio intervento, ponendo (e ponendosi) questioni importanti.

      Ha senza dubbio ragione nell’osservare che c’è una potenziale contraddizione fra il comportamento degli Stati, e quello di individui, e gruppi di individui, in relazione alla vicenda in esame. Aggiungendo, con ciò, qualcosa di nuovo allo spunto proposto dal sottoscritto, che non ci aveva pensato più di tanto (in quanto … “simmetricamente” impegnato a considerare la sua obiezione su Jhering).

      Non solo: con notevole chiarezza ed efficacia, esprime il senso più autentico – e di carattere generale – dell’ipotesi concernente l’evanescenza del carattere oggettivo degli obblighi derivanti dal diritto internazionale umanitario, cui allude, a mio avviso, la vicenda di Gaza.

      Lo ringrazio davvero per questo; e cioè, per aver preso sul serio i miei ragionamenti e le questioni poste. Tal è, a mio avviso, il senso di un autentico dibattito scientifico (che può aver luogo anche fra giuristi e filosofi, io credo).

      Una proposta per gli Amici di SIDIBlog: che ne direste di pensare ad “organizzare” gli spunti sinora emersi, ai fini di un dibattito pubblico, aperto a chiunque, e volto a svilupparli ulteriormente, da tenersi in una qualsiasi Università italiana? Per quanto mi riguarda, sono a disposizione.

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