diritto dell'Unione europea

I migranti, la solidarietà e l’Europa senza qualità

Giuseppe Morgese, Università degli Studi di Bari Aldo Moro

Uno dei più bei romanzi (incompiuti) della prima metà del Novecento è l’“Uomo senza qualità” dello scrittore austriaco Robert Musil. Ambientato in un ipotetico Stato che ricorda l’impero austro-ungarico, negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, il romanzo narra le vicende di Ulrich Anders, studioso trentaduenne di materie scientifiche, che si definisce “senza qualità” non perché non ne possieda alcuna (ché, anzi, ne è ben dotato), ma per il fatto di non essere capace di metterle in pratica. Nonostante i suoi 32 anni, ampiamente adulto anche per i nostri tempi, infatti, il protagonista non riesce a tradurre in azioni concrete il proprio bagaglio culturale, alienandosi dal senso comune delle cose e rapportandosi in maniera superficiale con la realtà circostante.

Con riferimento alla questione dei migranti bisognosi di protezione internazionale, riteniamo che l’Unione europea si stia comportando come un novello Anders. Come già sottolineato nell’intervento di Favilli in questo Blog, i contrasti tra gli Stati sono infatti alla base dell’immobilismo dell’UE in occasione dei numerosi, ormai ciclici, naufragi dei barconi nel Mar Mediterraneo. È vero che, soprattutto dopo la tragedia di Lampedusa del 18 aprile 2015, la Commissione europea ha adottato alcune misure di solidarietà tra Stati per la gestione degli oneri derivanti dalle operazioni di ricerca e soccorso in mare e dalla prima accoglienza: costi che, com’è noto, gravano soprattutto su alcuni Paesi alle frontiere meridionali dell’Unione (Italia, Malta, Grecia). Tuttavia altrettanto vero è, per un verso, che i Paesi dell’Europa centrale e settentrionale sopportano la percentuale maggiore dell’immigrazione irregolare composta, com’è noto, dai c.d. overstayers (coloro che entrano in maniera regolare e poi si trattengono oltre il periodo di scadenza del loro titolo di ingresso o soggiorno), oltre a essere interessati dalla maggior parte delle domande di protezione internazionale (v. Cherubini, in questo Blog); per altro verso, che ben poco viene proposto in tema di solidarietà nei confronti dei migranti.

Si ricorda che, in occasione della riforma di Lisbona del 2007, gli Stati membri hanno voluto dotare l’Unione di una base giuridica appropriata per adottare atti improntati alla solidarietà. L’art. 80 TFUE afferma che «[l]e politiche dell’Unione [in materia di controlli alle frontiere, asilo e immigrazione] e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Ogniqualvolta necessario, gli atti dell’Unione adottati (…) contengono misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio». Come si può notare, la solidarietà declinata nei settori in esame non solo opera esclusivamente tra Stati membri ma ha anche natura facoltativa, essendo le relative misure condizionate al loro carattere necessario e appropriato. Se ciò è vero, nella migliore delle ipotesi, la scelta di adottarle ricade nella discrezionalità delle istituzioni legislative dell’Unione (ma v. anche le considerazioni di Gestri, p. 902 ss.) e va a esclusivo vantaggio degli Stati membri.

Nel settore della protezione internazionale, il maggiore ostacolo all’introduzione di siffatte misure deriva storicamente dalla circostanza per cui il Sistema europeo comune di asilo (SECA) è imperniato sul “sistema Dublino”: il regolamento (UE) n. 604/2013 (c.d. “Dublino III”), infatti, reca – in maniera non dissimile dagli atti che lo hanno preceduto – i criteri e i meccanismi per individuare lo Stato membro dell’UE ritenuto competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno qualunque degli Stati dell’Unione da parte di un cittadino di un Paese terzo o di un apolide. Tra questi criteri spicca quello dello “Stato di primo ingresso”, che radica la competenza in capo al Paese attraverso le cui frontiere il richiedente entra regolarmente o irregolarmente nel territorio dell’Unione europea. Dunque, il sistema prevede un criterio-base per la “determinazione” – e non invece di “(solidarietà ed) equa ripartizione” – della competenza statale talmente rigido e sbilanciato a sfavore dei Paesi posti alle frontiere esterne dell’Unione da rendere ancora più evidente il carattere facoltativo del principio espresso nell’art. 80 TFUE. Del resto, si rileva l’assenza nel SECA di meccanismi obbligatori per la redistribuzione dell’accoglienza (Caggiano, p. 51 ss.) e, più in generale, di misure improntate a una reale solidarietà proprio a causa dell’esistenza del sistema Dublino (Morgese 2014, p. 365 ss.). La qual cosa, giova sottolinearlo, spinge alcuni Stati a intraprendere comportamenti del tipo “beggar-thy-neighbor”: Malta spesso si sottrae ai propri obblighi di ricerca e salvataggio in mare, chiamando in causa la marina italiana; l’Italia e la Grecia, dal canto loro, non espletano in maniera costante le operazioni di rilevamento delle impronte digitali dei migranti che attraversano le loro frontiere, con la conseguente impossibilità di radicare in capo a loro la competenza di primo ingresso ai fini del sistema Dublino.

Già prima della riforma di Lisbona, non apparivano particolarmente incisive le misure di solidarietà adottate in base al Programma di Tampere del 1999 (e cioè il Fondo europeo per i rifugiati, FER, e la direttiva n. 2001/55/CE sulla protezione temporanea  in caso di afflusso massiccio di sfollati) nonché quelle prefigurate nel Programma dell’Aja del 2004 e nel Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2008. Il successivo Programma di Stoccolma del 2009, nell’individuare tre macro-aree di sviluppo dell’azione in materia di asilo, dedicava la seconda a “responsabilità condivise e solidarietà tra Stati membri”: pur evidenziando la necessità di promuovere un’effettiva solidarietà con gli Stati sottoposti a particolari pressioni, la Commissione veniva semplicemente invitata a esaminare alcune possibilità di azione (tra cui un meccanismo di condivisione volontaria delle responsabilità e un migliore utilizzo della dotazione finanziaria) senza intaccare il funzionamento del sistema Dublino. Nel Piano d’azione del 2010 per l’attuazione del Programma di Stoccolma, la Commissione mostrava l’intenzione di approfondire la questione, pervenendo nel 2011 all’adozione di una comunicazione sul rafforzamento della solidarietà all’interno dell’UE in materia di asilo in cui proponeva di agire lungo quattro direttrici: miglioramento della cooperazione pratica e dell’assistenza tecnica, con il coinvolgimento dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (UESA) e dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne (Frontex); massimizzazione dell’utilizzo delle risorse del FER e, in prospettiva, del nuovo Fondo asilo, migrazione e integrazione (FAMI); ripartizione delle responsabilità, affiancando al sistema Dublino, in funzione correttiva, un meccanismo di ricollocazione interna dei beneficiari della protezione internazionale, un sistema di trattamento congiunto delle domande d’asilo e, al ricorrere delle condizioni, l’attivazione della procedura di cui alla ricordata direttiva 2001/55; infine, maggiore enfasi sulla fiducia reciproca tra Stati membri. Ciò nonostante, rimaneva ferma la volontà degli Stati membri – con l’ovvia esclusione di quelli direttamente interessati dagli ingressi irregolari – di non correggere i criteri stabiliti dal sistema Dublino alla luce del principio di solidarietà. Nelle conclusioni del Consiglio “Giustizia e affari interni” del marzo 2012, per esempio, veniva adottato un quadro comune in materia, composto di misure presenti e future, che non intaccavano (e anzi presupponevano) i criteri in vigore. Parimenti, in occasione della modifica del regolamento Dublino II, da un lato si confermava il criterio-base (che caratterizza, come detto, anche il regolamento Dublino III) e, dall’altro, non si dava sèguito alla proposta della Commissione di introdurre un procedimento di sospensione temporanea del sistema in casi di particolare pressione su alcuni Stati membri con limitate capacità di accoglienza e assorbimento.

Neanche la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, al di là del suo impatto mediatico, ha modificato i termini della questione. Nonostante una risoluzione del Parlamento europeo e l’istituzione della Task Force per il Mediterraneo (a opera del Consiglio “Giustizia e affari interni” del 7-8 ottobre), le conclusioni del Consiglio europeo del 24 e 25 ottobre 2013 si limitavano a evidenziare la necessità di intraprendere azioni decise per evitare nuove tragedie, rinviando al Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014 l’adozione degli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (v. Cottu). L’unico risultato positivo è stato l’avvio dell’operazione Mare Nostrum da parte dell’Italia, che in tredici mesi ha permesso di salvare più di 100.000 persone, di arrestare centinaia di scafisti e di sequestrare alcune navi; essa tuttavia ha comportato costi non indifferenti per le casse dello Stato italiano (circa 114 milioni di euro). Le richieste di condivisione di tali costi hanno portato alla chiusura dell’operazione Mare Nostrum e alla sua sostituzione con l’operazione Triton di Frontex (v. Caffio e Di Pascale). Essa all’inizio ha sofferto di significative limitazioni concernenti il finanziamento, gli scarsi mezzi a disposizione e il ristretto ambito di operatività, cui si è posto rimedio dopo la tragedia di Lampedusa dell’aprile 2015 (vedi qui).

Come si diceva, l’attuale Commissione ha abbandonato l’immobilismo dell’Esecutivo Barroso. Già prima della sua elezione, Juncker aveva presentato un piano in cinque punti sull’immigrazione in cui si sottolineava, tra l’altro, la necessità di maggiore solidarietà. Questa posizione è stata ribadita al momento della presentazione degli orientamenti politici della Commissione che si candidava a presiedere, sui quali Juncker ha ricevuto il voto favorevole del Parlamento europeo. Due giorni dopo la tragedia del 18 aprile 2015, la Commissione ha presentato un piano d’azione in dieci punti sulla migrazione, fatto proprio dal Consiglio europeo straordinario del 23 aprile. In quest’occasione gli Stati, oltre a ribadire il rafforzamento della presenza in mare, la lotta contro i trafficanti nel rispetto del diritto internazionale e la prevenzione dei flussi migratori illegali (quanto all’enfasi posta sulla dimensione repressiva e, più in generale, sul contrasto al traffico di migranti, v. le considerazioni espresse in questo Blog da De Vittor, Carella e Annoni), si sono impegnati a rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne (Favilli). Sulle conclusioni del Consiglio europeo, peraltro, si è espresso pochi giorni dopo il Parlamento europeo. L’ennesima tragedia a Lampedusa ha accelerato il lavori della Commissione e il 13 maggio scorso è stata presentata l’Agenda europea sulla migrazione. Nel documento – efficacemente illustrato da Cherubini – vengono prefigurate le linee d’azione che l’Esecutivo intende seguire a breve e a medio termine. Con specifico riguardo alla solidarietà, si propone di introdurre un meccanismo temporaneo di distribuzione dei richiedenti protezione internazionale (che potrebbe diventare permanente con una proposta da presentare entro la fine del 2015) e un programma di reinsediamento diretto a offrire 20.000 posti negli Stati UE per i rifugiati con evidente bisogno di protezione internazionale presenti al di fuori dell’UE (si noti che l’Agenda è accompagnata un utile glossario e da una tabella specifica).

Dando seguito all’Agenda, il 27 maggio 2015 la Commissione ha adottato i primi atti. Per quel che ci interessa, è stata anzitutto presentata una proposta di decisione del Consiglio relativa a un meccanismo provvisorio di ricollocazione europeo per assistere l’Italia e la Grecia (Paesi che, peraltro, beneficiano anche di piani di sostegno speciale in materia di asilo concordati con l’UESA: per quello italiano, v. Morgese 2015). Il meccanismo, che stabilisce una deroga temporanea e obbligatoria ai criteri di competenza del sistema Dublino, si basa come detto sull’art. 78, par. 3, TFUE, secondo cui «[q]ualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento europeo». Il meccanismo consentirà di ricollocare (cioè, trasferire) negli Stati membri, nei prossimi due anni, 40.000 richiedenti siriani ed eritrei arrivati in Italia (24.000) e in Grecia (16.000) dopo il 15 aprile 2015, o che arriveranno dopo l’adozione della decisione, pari a circa il 40% del totale di quelli aventi tale nazionalità. Il criterio di distribuzione per Stato membro tiene conto di alcuni parametri, quali la popolazione complessiva (40%), il PIL totale (40%), il numero di rifugiati già presenti sul territorio nazionale nel periodo 2010-2014 (10%) e il tasso di disoccupazione (10%). Si noti che detto meccanismo, che potrebbe essere adottato anche per Malta qualora si trovi nuovamente in condizioni emergenziali (com’è accaduto in passato con i progetti pilota EUREMA e EUREMA II), attribuisce ai Paesi “di ricollocazione” un sostegno finanziario di 6.000 euro per ogni richiedente trasferito nel loro territorio.

La Commissione ha adottato anche una raccomandazione in cui propone un programma di reinsediamento europeo. A differenza della ricollocazione, che si rivolge a richiedenti già presenti sul territorio degli Stati membri, il reinsediamento mira a selezionare, in collaborazione con l’Alto commissariato per i rifugiati, persone con evidente bisogno di protezione internazionale situati in Paesi extra-UE di prima accoglienza per trasferirli negli Stati membri dell’Unione. Nel 2012 era stato adottato un programma comune di reinsediamento mediante una modifica del FER (poi confermato con l’istituzione del FAMI), che prevedeva una partecipazione degli Stati membri su base volontaria; a tale programma hanno partecipato solo alcuni Stati, mentre l’Italia ha scelto di adottare misure di reinsediamento specifiche e quantitativamente impalpabili (vedi qui). Anche nella raccomandazione in esame la Commissione si limita a invitare gli Stati – e non potrebbe essere diversamente, essendo la raccomandazione un atto non vincolante – a reinsediare 20.000 persone provenienti da Paesi non-UE (cifra in linea con le richieste dell’Alto commissariato), in un periodo di due anni, sulla base di criteri di distribuzione che tengono conto del PIL, della popolazione, del tasso di disoccupazione e del numero passato di richiedenti asilo e di rifugiati reinsediati, oltre che degli sforzi già compiuti in precedenza (all’Italia spetterebbe il 9,94%, pari a 1.989 beneficiari). Per gli Stati che aderiscono al programma, è previsto un sostegno finanziario di 50 milioni di euro per il periodo 2015-2016.

Ciò posto, è il caso di trarre alcune conclusioni che interessano l’Italia. Anzitutto, non è detto che il meccanismo di ricollocazione riesca a vedere la luce, perlomeno nella versione proposta il 27 maggio scorso. Da un lato, infatti, i Paesi nei cui confronti le regole dell’Unione in materia di asilo e immigrazione si applicano in maniera differenziata – Regno Unito, Irlanda, Danimarca – non sono interessati dalla ripartizione; dall’altro lato, per calcolo opportunistico, si registra la contrarietà di Ungheria, Spagna, Finlandia, Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia, Slovacchia e Repubblica ceca (leggi qui); dall’altro lato ancora, Francia e Germania hanno chiesto di rivedere i criteri di ripartizione utilizzati (leggi qui). Con queste premesse, il negoziato in sede di Consiglio “Giustizia e affari interni” (convocato per il 15 e 16 giugno) si preannuncia aspro e dall’esito incerto. In secondo luogo, non è detto che in futuro il meccanismo di ricollocazione vada a sicuro vantaggio dell’Italia: i dati dell’Alto commissariato mostrano che le domande di protezione internazionale presentate nei Paesi meridionali dell’UE (Portogallo, Spagna, Italia, Malta, Grecia, Cipro), seppur crescenti dal 2011 al 2014, sono in termini assoluti di gran lunga inferiori rispetto a quelle presentate nell’intera Unione. Dunque, nonostante l’Italia sia il Paese meridionale dell’UE in cui annualmente vengono presentate più domande dal 2011 a oggi (per un quadro dal 1990, vedi qui il quaderno statistico della Commissione nazionale per il diritto di asilo), e al netto del fatto che la decisione del 27 maggio la esclude dalla ripartizione in quanto Paese beneficiario del sistema temporaneo, il coefficiente percentuale individuato dalla Commissione nell’Agenda del 13 maggio in futuro potrebbe penalizzarla; senza contare che, comunque, il meccanismo temporaneo qui ricordato interessa solo una parte dei richiedenti in Italia. In terzo luogo, la medaglia ha anche il suo rovescio, dato che la proposta di decisione chiede all’Italia (e alla Grecia) di predisporre ulteriori misure per rafforzare, tra l’altro, il rilevamento delle impronte digitali (anche in base alla proposta di best practices del 27 maggio scorso), pena la sospensione dei vantaggi derivanti dalla ricollocazione. In quarto luogo, il programma di reinsediamento non va a vantaggio dell’Italia, in quanto il coefficiente percentuale stabilito nella raccomandazione del 27 giugno la penalizza rispetto ad altri Stati membri che, in passato, hanno reinsediato di più. Se tutto ciò è vero, a noi sembra che in Italia la retorica anti-immigrati e le allarmistiche notizie di stampa, complice una classe politica non sempre all’altezza delle sfide poste dalla migrazione, abbiano ottenuto un risultato ambivalente e a tratti paradossale: se, per un verso, è da considerarsi in maniera positiva il generale rafforzamento dell’operazione Triton – che, non a caso, interviene sulla vera “emergenza” (se così si può dire) dell’Italia, e cioè i costi delle attività di ricerca e soccorso in mare nonché della prima accoglienza –, non altrettanto si può dire delle misure di ricollocazione e reinsediamento le quali, almeno nel caso del secondo strumento, comporteranno un aggravio dell’accoglienza nel nostro Paese.

Ma alcune conclusioni possono essere tratte anche con riguardo all’Unione europea. Se, per un verso, non si sa ancora se le misure suesposte saranno effettivamente messe in pratica, per altro verso non ci pare fuori luogo sottolineare il loro “corto respiro” essendo improntate alla logica dell’emergenza di breve periodo. A noi invece sembra che l’unica strategia efficace sia quella a lungo termine, che prevede un approccio “a monte” mediante significativi interventi nei Paesi di origine e di transito dei migranti (come peraltro sottolineato anche dal Comitato delle Regioni: leggi qui). C’è da dire che nell’Agenda del 13 maggio si prevedono alcune iniziative in collaborazione con tali Paesi, al fine di impedire gli attraversamenti del Mediterraneo. Tra queste, spicca la creazione e il rafforzamento dei programmi di sviluppo e dei programmi di protezione regionale soprattutto nell’Africa settentrionale, nel Corno d’Africa e in Medio Oriente, aree di maggiore provenienza o transito dei richiedenti protezione nell’Unione, alla luce delle esperienze già sperimentate in passato (di cui si dà conto in Morgese 2014, p. 394 ss.): tuttavia, il finanziamento a disposizione è di soli 30 milioni di euro nel 2015-2016, cui associare ulteriori contributi a carico degli Stati membri. Quanto invece alla prospettiva di elevare la migrazione a «componente specifica delle missioni di politica di sicurezza e di difesa comune già in corso» in alcuni Paesi terzi (Agenda, p. 6), non vengono fornite ulteriori indicazioni e si rinvia a un vertice da tenersi in autunno a Malta. Infine, in un prospettiva più ampia, l’Agenda per un verso ribadisce la necessità di affrontare le cause della migrazione irregolare e forzata nei Paesi terzi mediante i partenariati con i Paesi di origine e di transito già esistenti (processi di Rabat, Khartoum, Budapest, Praga; dialogo UE-Africa su migrazione e mobilità: per una panoramica della cooperazione con l’Africa, leggi qui) e da avviare; per altro verso, mette in evidenza la dotazione riservata dal bilancio UE alla cooperazione esterna – e in particolare a quella allo sviluppo – di 96,8 miliardi di euro per gli anni 2014-2020; per altro verso ancora, l’Agenda ricorda la contribuzione dell’Unione a favore dei rifugiati (200 milioni di euro in aiuti allo sviluppo per progetti in corso e oltre 1 miliardo in fondi di assistenza umanitaria destinati ai rifugiati e agli sfollati interni dall’inizio del 2014), in vista di un suo rafforzamento: ad esempio, vedi qui il recente intervento a favore dei rifugiati siriani in Libano, Turchia, Giordania e Iraq.

Tutte queste misure a lungo termine – se effettivamente attuate – potrebbero indirizzare l’Europa sulla strada della vera solidarietà, quella cioè che opera nei confronti dell’accoglienza dei richiedenti protezione, persone che attraversano deserti e mari nella prospettiva del miglioramento della propria condizione e di quella dei loro cari (in argomento v. anche le considerazioni di Castellaneta), e solo in un secondo momento a favore di Stati membri – come anche l’Italia – che si sono sinora dimostrati per tanti versi “micragnosi”. Del resto, solo così l’Europa potrebbe mostrare quelle “qualità” di cui al momento appare priva.

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