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Fra stato di necessità ed (illecito) intervento economico: il terzo “bail out” della Grecia

Pasquale De Sena, Università Cattolica, Milano

Massimo Starita, Università di Palermo

1. Le conclusioni del vertice dei capi di governo dell’area euro del 12 luglio scorso sulla richiesta greca di sostegno finanziario europeo, a seguito del referendum di domenica 5 luglio, sono note a tutti. Forse meno note, ma facilmente accessibili, sono le informazioni relative ai due seguiti principali di tale vertice: a) la decisione del Consiglio dell’Unione europea, del 17 luglio, con cui si è disposta la concessione di un prestito “ponte” di 7 miliardi di euro (dando mandato alla Commissione, di concordarne con la Grecia “the specific economic policy conditions”: art. 2), sulla base del programma predisposto dalle Autorità greche (art. 3 della decisione), ed al fine di consentire di onorare gli impegni di queste ultime con il Fondo monetario internazionale e la Banca centrale europea b) la decisione del Consiglio dei governatori del MES, del medesimo giorno, con la quale si stabilisce di sostenere, in principio, la stabilità finanziaria greca, nella forma di un programma di prestito e sul presupposto di un Memorandum of Understanding (MoU), destinato ad essere negoziato dalla Grecia con le tre istituzioni a ciò preposte [la “troika”, formata dalla Banca centrale europea (BCE), dalla Commissione europea (CE) e dal Fondo monetario internazionale].

Le vicende cui si è appena fatto riferimento non potevano non riaccendere il dibattito sulla crisi greca, nel quadro più ampio delle prospettive di sviluppo dell’Unione monetaria nella sua attuale configurazione; prospettive, queste ultime, drammaticamente messe in discussione dall’eventualità – mai così concreta prima d’ora – di una fuoruscita della Grecia dall’area euro. Su tale dibattito, che ha occupato le prime pagine dei principali quotidiani del mondo per tutto il mese di luglio (per una rassegna, v. questo link), non è possibile, né opportuno, soffermarsi in una sede come questa. Due aspetti, da esso posti in luce, meritano tuttavia di essere richiamati. Ci riferiamo, da una parte, alla questione della insostenibilità del debito greco, alla luce delle condizioni generali del Paese; e, d’altra parte, alla intrusività, nella sovranità della Grecia, delle misure richieste – nelle concitate fasi di svolgimento del vertice del 12 luglio – in cambio della corresponsione dei finanziamenti necessari. Sull’ insostenibilità del debito greco nel corso dei prossimi anni e sull’inadeguatezza delle proposte europee, si è pronunciato, com’è noto, il Fondo monetario, sia tramite un Country Report (distribuito, con uno specifico allegato del 26 giugno, all’Executive Board del Fondo stesso il 10 luglio, e ai Ministri delle finanze dell’area euro, il giorno successivo: per le reazioni in ambito europeo, v. anche qui ), sia tramite un’intervista rilasciata dalla sua “managing director”, Christine Lagarde, il 17 luglio, sia nel contesto dei negoziati attualmente in corso ad Atene (v. anche qui); è poi appena il caso di aggiungere che l’opinione espressa, l’8 luglio scorso, dal Segretario statunitense al Tesoro è, anch’essa, perfettamente in linea con queste prese di posizione. Quanto all’intrusività delle misure richieste al Governo greco – anzitutto sotto il profilo della “sovranità fiscale” – è sufficiente qui riferirsi ad una intervista recentemente rilasciata dallo stesso Presidente della CE (in cui l’intrusività di tali misure è indirettamente – ma assai chiaramente – riconosciuta: v. infra, par. 4), nonché all’orientamento generale della discussione, svoltasi, ancora una volta, su alcune delle principali testate giornalistiche internazionali; discussione, quest’ultima, nell’ambito della quale si è più volte adombrata l’ipotesi (v., ad es., qui, qui, qui e qui) che il terzo “bail out” si sia tradotto, in realtà, nell’istituzione di una sorta di “protettorato” economico europeo sulla Grecia.

Ci sembra che entrambi i profili in questione – al di là delle loro complessità tecniche, e delle semplificazioni cui, proprio perciò, possono dar luogo – si prestino a qualche breve considerazione di carattere giuridico-internazionalistico. In altre parole, la questione della insostenibilità del debito estero greco spinge a svolgere qualche riflessione sulla prospettiva che la figura dello stato di necessità si trovi ad essere invocata, alla luce delle condizioni generali del Paese, in relazione ad un possibile (se non probabile), ulteriore inadempimento degli obblighi di restituzione del suddetto debito, specificamente derivanti dagli ultimi finanziamenti deliberati in sede europea (paragrafi 2 e 3). Inoltre, l’intrusività delle condizioni poste alla Grecia, e le stesse modalità del relativo processo di determinazione, richiedono, anch’esse, qualche riflessione sulla loro idoneità ad essere qualificate come un’interferenza internazionalmente illecita negli affari interni della Grecia (par. 4).

2. Una prima questione che si pone, nel considerare la prospettiva del ricorso alla figura dello stato di necessità, al fine di giustificare l’eventuale, ulteriore inadempimento di obblighi internazionali derivanti dall’enorme debito greco, concerne il foro in cui una simile causa di giustificazione potrebbe esser fatta valere. Al riguardo è facile rispondere che tale foro non potrebbe che essere la Corte di giustizia dell’Unione europea, sia con riferimento al prestito “ponte”, disposto dalla decisione del Consiglio dell’Unione del 17 luglio scorso, sia con riferimento alla decisione adottata, in pari data, dal Consiglio dei Governatori del MES (v. supra per entrambe). Nel caso del prestito “ponte”, venendo in rilievo una decisione del Consiglio dell’Unione europea, presa ai sensi dell’art. 122, c. 2, TFUE, l’eventuale inosservanza greca delle condizioni ivi fissate (e destinate a ricevere specificazione in un successivo MoU, nonché in un Loan Facility agreement) potrebbe dar luogo a una procedura d’infrazione, su iniziativa della Commissione o degli Stati membri (art. 258 TFUE). Pur non rientrando, invece, la decisione del Consiglio dei Governatori del MES nel diritto dell’Unione, la controversia nascente dalla eventuale, mancata restituzione dei finanziamenti erogati su questa base, ricadrebbe ugualmente nella competenza della Corte di giustizia, che deve pronunciarsi, in ultima istanza, ai sensi dell’articolo 37, c. 3 del Trattato istitutivo del MES – sull’applicazione e sull’interpretazione di quest’ultimo – nel caso in cui una decisione resa dal Consiglio dei governatori del MES sia oggetto di contestazione (art. 37, c. 2).

In modo ugualmente positivo può anche rispondersi alla questione se i principi di diritto internazionale in tema di stato di necessità siano destinati a trovare applicazione, da parte della Corte di giustizia, in entrambi i casi tracciati. A parte l’ovvia constatazione per cui il diritto internazionale, ivi compreso il diritto internazionale generale, vincola l’Unione (art. 5 TUE e, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, ad es.: Air Transport Association, punto 101; Racke, punti 45 e 46; Poulsen e Diva Navigation, punti 9 e 10), non ci pare – per quanto attiene al primo dei due casi in esame – che vi siano motivi per ritenere che l’applicazione dei principi in oggetto possa rivelarsi incompatibile con i meccanismi (di fondo) di funzionamento dell’Unione europea [la necessità era stata ricostruita come “principio generale del diritto pubblico”, da P. Lagrange, nelle conclusioni relative alla causa 7/61, Commissione c. Italia, nel cui ambito la stessa Commissione riconobbe, in principio, l’operatività dello stato di necessità nel diritto comunitario (ivi, p. 636), peraltro – giustamente – ritenuto inapplicabile nel caso concreto: sul punto, v. anche Gradoni, p. 227 s., cui si deve questa segnalazione]. Nessun ostacolo si frappone, poi, ad una simile prospettiva, neppure nel secondo caso, tanto più se si considera che il Trattato istitutivo del MES è un trattato internazionale, seppure concluso fra gli Stati membri dell’Unione dell’area euro, sulla base dell’articolo 136 TFUE (secondo considerando del preambolo di detto Trattato; in generale, v. anche la decisione Pringle).

3. Ciò premesso, su quali presupposti, ed entro quali limiti, potrebbe farsi valere lo stato di necessità, da parte greca, richiamandosi – alla luce delle condizioni generali del Paese – all’insostenibilità del debito, ora riconosciuta dallo stesso Fondo monetario internazionale? A questo proposito viene in rilievo la disciplina internazionalistica, ricavabile, non solo dall’articolo 25 del Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001, ma anche da qualche sviluppo successivo. Secondo il suddetto articolo, fermo restando che lo stato di necessità non può essere invocato nell’ipotesi in cui esso implichi la violazione di norme di jus cogens, tre sono le condizioni necessarie per farlo valere: 1) che non vi sia altro mezzo per proteggere un interesse essenziale da un pericolo grave ed imminente; 2) che non si pregiudichi così un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei confronti dei quali l’obbligo esista, ovvero della comunità internazionale nel suo complesso; 3) che lo Stato che lo invochi non abbia contribuito a creare la situazione di necessità.

Quanto alla prima delle condizioni qui sopra indicate, è sufficiente ricordare quel che si è verificato con riferimento alla rata di pagamento del debito greco nei confronti del FMI, in scadenza nel giugno scorso; rata che il governo greco aveva dichiarato, già in maggio, di non poter pagare, a fronte dell’esigenza primaria di corrispondere stipendi e pensioni (per bocca del suo Ministro degli interni; v. anche qui), ed in mancanza di sostegno esterno. Sarebbe insomma piuttosto difficile che una simile situazione, chiaramente configurabile come stato di necessità, … cambi di natura, ove essa dovesse riproporsi, nel prossimo futuro, relativamente agli obblighi di restituzione, appena assunti nei confronti dell’Unione e in corso di assunzione nei confronti del MES; e questo, tanto più alla luce delle chiare previsioni operate dal Fondo, in assenza di prospettive di riduzione (o, perlomeno, di allungamento) del debito complessivo della Grecia.

Altrettanto difficile ci pare poi affermare che, invocando lo stato di necessità, la Grecia sia in grado di pregiudicare tout court gli interessi essenziali dei soggetti nei confronti dei quali gli obblighi di restituzione sono diretti; soggetti, questi ultimi, che, in entrambi i casi qui considerati, perlomeno direttamente e formalmente, neppure sarebbero Stati, ma, piuttosto, l’Unione e il MES (sul configurarsi di quest’ultimo come organizzazione internazionale, v. Cafaro in Vellano e Adinolfi). Fermo restando che la valutazione in questione dipende dall’entità effettiva dell’eventuale inadempimento, oltre che da una serie di circostanze non pre-determinabili in astratto (ad es.: situazione economica internazionale, situazione economica degli Stati della zona euro, in rapporto alla loro esposizione con il MES, ecc.), non riteniamo che tale valutazione sia destinata a risolversi, in ipotesi, in un esito necessariamente negativo per la Grecia, ove il suddetto inadempimento riguardasse i 7 miliardi del “prestito ponte” a carico dell’Unione, e/o i 50 (previsti) a carico del MES (v. qui). Basti solo richiamare, a tacer d’altro (ci riferiamo all’ampio dibattito sulla reale destinazione dei 237 miliardi di euro sinora concessi alla Grecia, per il quale si vedano, ad es.: Blanchard, Mouzakis, Zingales, Zezza), la ridotta entità del prestito ponte, vista in rapporto al bilancio complessivo dell’Unione (su cui esso grava: v. qui per il 2015), nonché in rapporto agli obblighi di rimborso a carico degli Stati dell’area euro nei confronti degli Stati “non-euro” (punto 9 del preambolo della decisione 2015/1181, cit. supra); ed ancora, la (s)proporzione fra il finanziamento MES e la capacità complessiva di prestito di quest’ultimo (455 miliardi di euro), ovvero il suo complessivo stock di capitale (709 miliardi di euro).

Problemi più delicati sono viceversa destinati a porsi con riferimento alla terza condizione enunciata nell’articolo 25, in base alla quale la Grecia, al fine di invocare lo stato di necessità, dovrebbe dimostrare di non aver contribuito a provocarlo. E’ facile osservare, infatti, che lo stesso Fondo monetario, nei due documenti citati poco sopra, tende ad imputare la prospettiva dell’insostenibilità del debito greco, per gli anni a venire, proprio all’azione complessiva del Governo Tsipras; ed è altrettanto facile rilevare che il medesimo orientamento traspare chiaramente dagli esiti del vertice del 12 luglio scorso (supra), se si considera il rigore delle condizioni poste alla Grecia per la concessione dei finanziamenti da questa richiesti.

Malgrado quanto precede, non ci sembra che la possibilità d’invocare lo stato di necessità, per giustificare l’eventuale inadempimento degli obblighi di restituzione recentemente assunti dalla Grecia, sia da ritenersi completamente preclusa; al contrario, in favore di questa possibilità possono citarsi (perlomeno) tre circostanze. In primo luogo, va qui ricordato che, da più parti, si tende oramai a ritenere che la condizione in esame andrebbe superata con riferimento a crisi di carattere economico, giacché, altrimenti, essa finirebbe per rendere del tutto inoperante il principio dello stato di necessità in tali situazioni. E’ pressoché impossibile, infatti, che simili crisi non siano imputabili anche all’azione dello Stato che invochi, per l’appunto, uno stato di necessità (Tomuschat, Waibel, Pustorino).

Siffatto orientamento – e veniamo così alla seconda circostanza – oltre a ricollegarsi a una pronuncia resa nel 2006 da un Tribunale arbitrale ICSID, nel caso LG&E Energy Corp., LG&E Capital Corp., and LG&E International, Inc .v. Argentine Republic, in cui si riconobbe – con una certa larghezza – il ricorrere dello stato di necessità relativamente al “default” argentino del 2001 (par. 245 ss., spec., paragrafi 256 e 257), sembra poi trovare ulteriore conferma, perlomeno in una delle due decisioni, con le quali due Comitati ad-hoc, ugualmente costituiti in sede ICSID, hanno annullato, nel 2010, le sentenze Enron e Sempra (per le sentenze annullate, v. qui e qui). Nella decisione sul caso Sempra l’annullamento è avvenuto infatti sul presupposto che la disciplina consuetudinaria in tema di stato di necessità non fosse sovrapponibile a quella relativa allo stato d’emergenza, dettata dall’art. XI del BIT rilevante; e ciò, in ragione della (evidente) maggiore ampiezza della seconda rispetto alla prima – erroneamente ritenuta prevalente nella sentenza originaria – e per l’esigenza di applicare proprio la seconda alla controversia oggetto del giudizio (paragrafi 208-219; v. anche Savarese).

Last, but not least, la plausibilità dell’eventuale ricorso allo stato di necessità deriva dalle caratteristiche della situazione complessiva in cui potrebbe ritrovarsi la Grecia, malgrado il terzo “bail out” (o, forse, proprio in ragione delle condizioni cui esso è subordinato!). E’ piuttosto chiaro che l’insostenibilità del debito – preconizzata dal Fondo monetario ed imputata al Governo Tsipras – non potrebbe che inquadrarsi in una continuazione della gravissima recessione, in atto fin dal 2010, i cui drammatici risvolti sociali sono stati certificati, nel 2014, anche in uno specifico rapporto dell’esperto indipendente del Consiglio dei diritti umani sugli effetti del debito esterno. Ci pare allora assai difficile ipotizzare che l’azione condotta negli ultimi mesi dal Governo greco – indipendentemente dai suoi effetti sul piano specifico della futura sostenibilità del debito (a proposito dei quali, si v., peraltro, l’opinione fortemente critica di Krugman rispetto alla posizione del Fondo monetario) – costituisca un contributo determinante ad un probabile peggioramento della suddetta recessione; tale, cioè, da causare essa stessa un inadempimento degli obblighi di restituzione incombenti sulla Grecia. Riguardo a una simile prospettiva, ci sembra piuttosto che il contributo recente, da parte greca, alla terribile crisi del Paese – if any – sarebbe semmai qualificabile, secondo le parole usate dalla stessa Commissione del diritto internazionale nel commento all’articolo 25 del Progetto 2001, come “incidental or peripheral” (par. 20); dunque, come inidoneo a precludere il ricorso allo stato di necessità, anche ai sensi di questa disposizione. Ferme restando le pesanti responsabilità dei governi greci del primo decennio degli anni 2000 in ordine alle violazioni del Patto di stabilità e crescita verificatesi in quel periodo (responsabilità apertamente riconosciute dal Primo ministro Papandreou nell’ottobre 2009, e condivise con alcune banche internazionali), è fin troppo agevole sottolineare, infatti, che la crisi recessiva, e i suoi drammatici effetti sociali, sono riconducibili in larghissima misura alle politiche di austerità, praticate nel corso degli ultimi anni, in omaggio alle condizioni poste per i primi due “bail out”. Tale circostanza emerge, in termini inequivoci, dal rapporto di Cephas Lumina poc’anzi citato, ed è stata riconosciuta dallo stesso Fondo monetario, in un noto rapporto del giugno 2013 (adde, ancora, Krugman). Né alcun elemento di continuità rispetto alle persistenti violazioni di norme europee poco sopra accennate potrebbe ravvisarsi nelle politiche recenti del governo greco; basti solo pensare che le misure di austerità adottate a fronte dei due “bail out” precedenti sono state concretamente messe in opera dai governi succedutisi fra il 2011 e il 2014, i quali hanno uniformato i loro comportamenti alle condizioni poste dai creditori (v. ancora la circostanziata ricostruzione operata da Cephas Lumina – paragrafi 17-39 – nonché qui); e basti infine aggiungere che il governo Tsipras era stato eletto col mandato di superare tali politiche, proprio attraverso il tentativo di ottenere una rinegoziazione del debito esterno greco, ritenuto in grado di pregiudicare qualsiasi prospettiva di sviluppo del Paese, in un’ottica simile a quella adottata poi dallo stesso Fondo monetario (!), come si è più volte fatto rilevare.

Nell’ipotesi in cui un ricorso allo stato di necessità dovesse effettivamente verificarsi, ci sembra allora che il contributo dato dal Governo greco nel corso del 2015 all’aggravamento della situazione recessiva – ripetiamo, if any – potrebbe semmai rilevare “al fine di accrescere in misura corrispondente […] l’indennizzo previsto dall’articolo 26 del progetto della Commissione del diritto internazionale” (Pustorino, cit., supra, p. 423); indennizzo, quest’ultimo, stabilito con generale riferimento alle cause di esclusione dell’illecito. Ove una scelta del genere dovesse esser fatta dalla Grecia, ci pare poi che, proprio alla luce dei profili di coincidenza della posizione greca con quella del Fondo monetario, essa (scelta) potrebbe essere concordata, perlomeno sul piano quantitativo, col Fondo stesso e/o con gli altri soggetti creditori. In questo modo, tale scelta, non solo si porrebbe in linea con l’esigenza di attenuare l’inevitabile unilateralismo insito nel modo di operare dello stato di necessità (sulla quale, v. par. 15 del commento all’art. 25 del Progetto sulla responsabilità degli Stati), ma consentirebbe, a ben vedere, anche di aggirare gli ostacoli di carattere formale, fatti valere nel corso del negoziato, dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, rispetto alla prospettiva di un’eventuale ristrutturazione del debito. Indipendentemente dalla questione se l’articolo 125 del TFUE consenta una ristrutturazione del debito di un Paese membro (su cui, v. ad es., Gerner-Beuerle e McDonnell, in Rossi e Casolari; relativamente alla prassi del “bail out”, v., invece, già Tosato), la scelta di ricorrere allo stato di necessità potrebbe, insomma, condurre de facto a tale risultato, ove essa fosse, per l’appunto, previamente concertata, perlomeno sul piano quantitativo, “with other states or through international organizations” (par. 15, cit. supra).

4. Passiamo ora a considerare se il comportamento tenuto dagli Stati della zona euro nel corso della crisi del debito greco e, in particolare, nel corso della sua fase più recente, costituisca una forma d’intervento economico vietata dall’ordinamento internazionale. Più esattamente: si può pensare che, dal punto di vista dell’ordinamento internazionale, le condizioni poste alla Grecia da questi Stati nell’ambito di riunioni del cd. vertice dell’area euro (o, in certi casi, dalla Commissione per conto degli Stati stessi) siano idonee a violarne la sovranità economica ovvero, se si preferisce, a violare il diritto all’autodeterminazione del popolo greco (purché si intenda quest’ultima, come si suol dire, in senso negativo o “enfatico”)?

Al riguardo desta un certo interesse il fatto che in un’intervista rilasciata lo scorso 22 luglio ad alcuni giornali, il Presidente della CE, Juncker, abbia affermato che le proposte ultimative di accordo fatte alla Grecia tenevano conto della necessità di “lasciare a questa grande nazione uno spazio di autodeterminazione” (rif. supra, par. 1).

Il brano appena riportato solleva una serie di interrogativi. In primo luogo ci si può chiedere se la scelta di “lasciare” lo spazio di cui parla il Juncker sia stata dettata da ragioni di natura meramente politica o, invece, dall’esigenza di rispettare una norma giuridica. Se, poi, si dovesse accedere alla seconda ipotesi, se cioè si dovesse intendere quel riferimento di Juncker ad uno spazio di autodeterminazione del popolo greco come un limite giuridico che andrebbe rispettato pure nel caso di prestiti sottoposti a clausole di condizionalità, si aprirebbe il problema di capire meglio in cosa consista quello “spazio”, e di verificare, poi, se il potere di libera scelta politica ed economica, ancora considerato dall’ordinamento, come immune dalla coercizione economica altrui, sia stato poi davvero rispettato nel caso concreto.

Per impostare l’analisi, cominciamo col sottolineare che, se è unanimemente riconosciuta la liceità delle “semplici” misure di pressione economica, la questione se almeno certe ipotesi più gravi d’ingerenza siano idonee a fuoriuscire dalla categoria delle semplici “influenze”, e a costituire un intervento illecito, è stata oggetto di un lungo dibattito. Com’è noto, soprattutto negli anni ’60 e ’70, essa rivestì un rilievo centrale, in corrispondenza con la penetrazione nell’ordinamento internazionale di valori di giustizia economica di cui si erano fatti portatori i Paesi in via di sviluppo. Questa fase storica è infatti caratterizzata sia dall’emersione di nuove norme giuridiche che effettivamente riflettevano l’emergenza di tali valori – ad es., il principio della sovranità permanente sulle risorse naturali – sia dall’adozione, da parte dell’Assemblea generale dell’ONU, di risoluzioni e dichiarazioni di principi contenenti ambiziosi programmi di ristrutturazione delle relazioni economiche internazionali (in particolare il cd. Nuovo Ordine Economico Internazionale, NOEI).

Era peraltro difficile ricostruire le situazioni in cui la mera influenza economica si trasformasse in intervento illecito. Non mancavano, tuttavia, sforzi in tal senso. Secondo un’opinione, in particolare, non era da escludere la possibilità che il diritto internazionale si proponesse “di rendere immediatamente illecito il comportamento di “intervento” di uno Stato, circoscrivendo in modo “dettagliato” la fattispecie rilevante, in ragione del grado elevato di coercizione e di pressione sulla libertà di un altro Stato che tale comportamento pone o è idoneo oggettivamente a porre in essere”. (Picone, RDI, 1980)

Nella nuova fase storica, iniziata con la presidenza Reagan e proseguita con il crollo del blocco sovietico, i mezzi di pressione economica sugli Stati a disposizione tanto degli operatori economici privati, come degli altri Stati, crescono, per effetto della diffusione globale di idee neo-liberiste. Le pretese legate al cd. diritto allo sviluppo sono progressivamente abbandonate e gli Stati in via di sviluppo ricorrono direttamente al mercato, al Fondo monetario, o ad accordi bilaterali per finanziarsi. La concessione dei prestiti a questi Paesi, così come del resto, in un secondo momento, le risposte alla cd. crisi del debito sovrano, sono inserite, com’è noto, in politiche di condizionalità economica di stampo, per l’appunto, neo-liberista.

In questo mutato contesto, le difficoltà legate alla individuazione di forme di intervento illecito, già presenti, come notato, nel corso dei decenni precedenti, aumentano inevitabilmente. Le pressioni economiche che si realizzano nelle politiche di condizionalità sembrano espressione di un nuovo, più vasto spazio di libertà economica degli Stati, delle Organizzazioni internazionali e dei privati a scapito della “sovranità economica” degli Stati che le subiscono.

La questione, tuttavia, resta ed assume, anzi, proprio in ragione degli accennati sviluppi, un valore drammatico. Si tratta, infatti, di capire se i concetti di “sovranità economica” e di “autodeterminazione economica”, o alcuni aspetti ad essi riconducibili, siano sopravvissuti ai cambiamenti dei valori di riferimento ed al connesso fallimento del NOEI, o se, invece, tale fallimento li abbia completamente travolti (sulla parabola discendente del NOEI v. Sacerdoti). Si capisce bene che la seconda prospettiva ci restituirebbe l’immagine di un ordinamento – per così dire – “appiattito” su un modello di relazioni economiche internazionali interamente governate dalla logica del “mercato” e dei rapporti di forza sul piano finanziario. In una simile prospettiva, della sovranità o dell’autodeterminazione economica ben poco resterebbe, se non l’aspetto formale, consistente nella “libertà” di accettare o meno le misure economiche proposte dai creditori.

La sentenza Nicaragua, che, letta a distanza di trent’anni, sembra fare da cerniera alle due fasi storiche cui prima si accennava – sentenza nella quale la CIG ha affermato che semplici misure di pressione economica non sono vietate dal principio di non-intervento (par. 245) – lascia intatta la questione di sapere se altri, più gravi, comportamenti possano dar vita ad un’illecita coercizione economica. Il carattere ancora aperto della problematica è testimoniato, del resto dalle parole usate nella decima edizione del manuale di Conforti, nel quale si afferma che “qualora queste misure siano contemporaneamente e sistematicamente prese, ed inoltre abbiano come unico scopo quello di influire sulle scelte dello Stato straniero (non siano anche dirette cioè a reagire a comportamenti illeciti dello Stato straniero medesimo), esse devono considerarsi come vietate” (ivi, p. 268). Non mancano, inoltre, autori che, già riguardo alle rigide politiche di condizionalità del Fondo monetario degli anni ’90, hanno immaginato la possibilità di considerarle in violazione del principio di non intervento nelle scelte politiche degli Stati che ne chiedevano il sostegno finanziario (v. ad es., nel 1998, Meng).

Le brevi riflessioni che precedono ci permettono di affrontare la questione che ci siamo posti all’inizio, se cioè sia possibile ravvisare nella politica assunta dagli Stati della zona euro nei riguardi della crisi del debito greco una violazione del principio di non intervento. È bene tenere presente che le misure di cui si discute consistono nella deliberazione delle condizioni per l’accesso al credito. Tali misure ci sembrano presentare le seguenti caratteristiche fondamentali: a) Unilateralità. Anche se formalizzate dopo negoziati con la Grecia, le misure in esame sono state sostanzialmente già decise dal Consiglio dei governatori del MES (e, sulla base del mandato da quest’ultimo conferitole, dalla Commissione europea), ovvero dai vertici degli Stati dell’area euro. I margini di negoziazione con lo Stato membro che fa richiesta di assistenza sono evidentemente contenuti in una cornice già definita, in parte dai principi su cui si fonda il MES (oltre che il mandato conferito alla Commissione europea dal Consiglio dei governatori, ai sensi dell’art. 5, par. 6, lett. g) del Trattato istitutivo), in parte dalle conferenti disposizioni del TFUE (art. 122 ss.); b) Idoneità a produrre effetti giuridici. Anche prima della formale accettazione da parte del destinatario, le proposte ultimative, e cioè gli atti contenenti le condizioni finali per l’erogazione dei prestiti (e le massime concessioni possibili a quello Stato) producono effetti nella sfera giuridica dello Stato che ne fa richiesta. Nel procedimento che conduce alla concessione del prestito, la decisione circa le condizioni ha la funzione specifica di indicare quali comportamenti deve tenere lo Stato che ha richiesto il prestito per potervi accedere, con la conseguenza che tali comportamenti sembrano rientrare – già prima della conclusione di un formale accordo – nella figura dell’onere (v. infra, con particolare riferimento all’evoluzione recente della crisi greca); c) Carattere pervasivo. Le misure indicate nei vertici degli Stati della zona euro, destinate poi ad essere cristallizzate nei MoU, sono capillari e spaziano in ambiti molto diversi tra loro; lette nel loro insieme, esse comportano, insomma, l’adozione di un vero e proprio programma politico di governo del Paese.

Una prima possibilità, in linea con la prospettiva indicata in astratto da Conforti, ci sembra allora quella di considerare la gestione della crisi del debito greco nel suo insieme, a partire dai due primi accordi di salvataggio del 2010 e sino all’ultima fase, (culminata nelle conclusioni del vertice del 12 luglio scorso: supra), come contrastante con il principio di non intervento. Entrambi i presupposti indicati dalla suddetta opinione sembrerebbero rinvenibili nell’azione condotta dagli Stati della zona euro: tanto il carattere sistematico delle pressioni economiche, quanto lo scopo d’influire sulle scelte di politica economica del Paese destinatario. Da tale punto di vista, in particolare, si potrebbe notare che, se è vero che lo scopo del prestito è quello di salvaguardare la stabilità della zona euro, le modalità secondo le quali l’obiettivo in questione è realizzato potrebbero nondimeno configurare una sorta di “protettorato” economico sullo Stato che ne è beneficiario (ancora supra, par. 1).

Un ostacolo rispetto ad una conclusione di questo genere è costituito peraltro dalla circostanza che nel quadro dei diversi “bail out”, le pressioni economiche, per quanto profonde e costanti, sono state sempre accettate dal governo greco. Quest’ultima circostanza spinge, in particolare, a ridimensionare il carattere “unilaterale” delle proposte, prima sottolineato, potendosi (forse) sostenere che anche tali proposte risultino in qualche modo accettate, già con la ratifica del MES (v. artt. 12 ss. del Trattato istitutivo,); e ciò, a meno di non voler ritenere che il consenso greco sia, sin dall’inizio della crisi, inidoneo a legittimare l’ingerenza, in ragione della gravità della situazione economica in cui fu prestato. Ma chiunque vede le difficoltà che solleva la dimostrazione di una simile tesi.

Esiste peraltro una seconda, possibile ricostruzione, la quale, a nostro avviso, supera, perlomeno in parte, le difficoltà che incontra la precedente in relazione al caso in esame. Essa consiste nel ritenere che soltanto l’ultimo segmento di questa politica -concretatosi nella dichiarazione del vertice degli Stati dell’area euro, più volte ricordata – costituisca una violazione del principio di non intervento. Ciò, in ragione di due elementi: a) il primo è costituito dall’accentuato “unilateralismo” di tale dichiarazione, dal momento che le condizioni per l’accesso al prestito, in essa formalizzate, devono essere adempiute prima della concessione del prestito e della firma di nuovi MoU; b) il secondo è costituito dall’aggravarsi dell’emergenza economica in Grecia; emergenza definita – già prima delle vicende di luglio – dal Primo ministro greco e dallo stesso Presidente della Commissione come situazione di “emergenza umanitaria”, nella quale, dunque, l’accesso al finanziamento esterno si configura come una necessità.

Queste due circostanze, unitamente alle altre circostanze prima ricordate, comuni a tutte le clausole di condizionalità, renderebbero possibile riportare al concetto di coercion (contrainte) quanto meno quest’ultima fase dell’intervento economico. A tal riguardo si può del resto sottolineare che la Commissione del diritto internazionale, pur pronunciandosi ad un diverso fine – e cioè, allo scopo di delineare figura della coercion (contrainte), prevista dall’articolo 18 del Progetto sulla responsabilità degli Stati (cit. supra) – ha definito il comportamento coercitivo come quel comportamento che si riveli in grado di condizionare la volontà dello Stato che lo subisca fino al punto di ” […] giving it no effective choice but to comply with the wishes of the coercing State” (par. 2; per un’impostazione analoga, relativa al caso della coercion esercitata proprio tramite la concessione di un “essential loan”, da parte di un’organizzazione finanziaria internazionale, v. anche il par. 28 del Terzo rapporto sulla Responsabilità delle organizzazioni internazionali).

Ci pare interessante sottolineare, infine, che l’ipotesi per ultima abbozzata permetterebbe di risolvere, più agevolmente della prima ipotesi, il problema dell’imputazione della violazione del principio di non intervento nel senso dell’attribuzione agli Stati della zona euro. Nella prima ipotesi, infatti, gli Stati membri agiscono, almeno in parte, all’interno del MES e dell’Unione europea, con la conseguenza che la loro responsabilità potrebbe scattare solo se si dimostrasse, in linea con quanto stabilito dall’art. 60 del Progetto di articoli sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali, che essi abbiano inteso aggirare gli obblighi internazionali a loro carico, avvalendosi delle competenze attribuite alle suddette organizzazioni (per una discussione di questa ipotesi in relazione ai prestiti del Fondo e della Banca mondiale, v. De Sena). Nella seconda proposta ricostruttiva, invece, la responsabilità degli Stati in questione deriverebbe dal comportamento tenuto già al di fuori degli organi del MES e dell’Unione, poiché, come si è visto, le richieste ultimative risultano definite in una dichiarazione resa in un vertice degli Stati dell’area euro. E’ appena il caso di aggiungere che quest’ultima circostanza è in linea con la più generale tendenza degli Stati membri dell’Unione ad avvalersi del meccanismo dei vertici e delle dichiarazioni nel quadro della politica economica (a proposito dell’azione del Consiglio europeo, v. Starita).

5. Dunque, a stare a quanto precede, vi è qualche motivo per ritenere che la posizione di Stati fortemente indebitati verso l’esterno – fra i quali la Grecia – potrebbe esser fatta valere, sul piano giuridico, anche al di là del ricorso allo stato di necessità (paragrafi 2 e 3) per giustificare un eventuale inadempimento di obblighi di restituzione; e cioè, anche in virtù dell’operare del principio del non intervento, con riferimento alle modalità di determinazione delle condizioni di concessione dei finanziamenti volta a volta rilevanti. Diciamo potrebbe, perché, pur sembrandoci ciò vero in astratto, resta piuttosto difficile, nelle presenti condizioni storiche, che le garanzie offerte dall’ordinamento internazionale a questo scopo (si pensi, per esempio, a un eventuale ricorso, da parte greca, alla Corte internazionale di giustizia o a un arbitrato internazionale) finiscano per essere azionate in concreto. Se è vero, insomma, che tale ordinamento non si mostra ancora del tutto “appiattito” su un modello di relazioni economiche internazionali governate dalla logica del “mercato” e dei rapporti di forza sul piano finanziario, è altresì chiaro che il contesto complessivo in cui il suddetto principio è destinato ad operare è ben diverso da quello in cui esso è maturato (supra, in questo paragrafo); e non vi è chi non veda che in un simile contesto i margini effettividi carattere politico ed economico – per farlo valere sono, a dir poco, assai ristretti. Ritornando in chiusura sul caso della Grecia, un maggiore ottimismo si può … mestamente esprimere riguardo alle prospettive di operatività della figura dello stato di necessità, per le considerazioni che abbiamo cercato di sviluppare poco sopra (paragrafi 2 e 3). Ben altro oggetto ha il … pessimismo che da siffatte considerazioni potrebbe, a ben vedere, sprigionarsi, investendo niente di meno che … le future prospettive dell’integrazione europea nell’area euro. Ma di queste ultime, non tema il lettore, non abbiamo alcuna intenzione di occuparci.

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Pasquale De Sena e Massimo Starita

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