diritto internazionale pubblico

La sentenza Parrillo c. Italia e quello che la Corte (non) dice sullo status dell’embrione

Ludovica Poli, Università di Torino

Con la sentenza del 27 agosto 2015, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il divieto di donare embrioni alla scienza, ricavabile dall’art. 13 della L. 40/2004, non viola i diritti tutelati dagli articoli 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 1 del Protocollo 1. La Grande Camera ha così fatto salvo l’ultimo baluardo della normativa italiana in materia di fecondazione assistita, che la giurisprudenza interna (di merito e costituzionale) e la stessa Corte di Strasburgo negli anni hanno contribuito gradualmente a smantellare. (Per un riassunto degli interventi giurisprudenziali, vedi qui).

La ricorrente, Adelina Parrillo, ed il suo compagno, il regista Stefano Rollo, avevano fatto ricorso ad un trattamento di procreazione medicalmente assistita nel 2002, dunque prima dell’adozione della Legge 40/2004. Gli embrioni però non erano stati impiantati, ma erano stati sottoposti a crioconservazione. Dopo la morte del compagno (che ha perso la vita durante l’attentato di Nassiriya in Iraq, il 12 novembre 2003), la sig.ra Parrillo decideva di non procedere all’impianto e manifestava l’intenzione di donare gli embrioni alla ricerca scientifica. La donna otteneva però il rifiuto da parte della struttura sanitaria presso la quale gli embrioni erano conservati, in ragione del divieto contenuto nell’art. 13 della Legge 40/2004, che nel frattempo era entrata in vigore. Tale norma vieta infatti ogni sperimentazione sugli embrioni, disponendo, a titolo di sanzione penale, la reclusione da due a sei anni e la multa da 50.000 a 150.000 euro. Solo la ricerca clinica e sperimentale ‘con finalità terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione’ è consentita dal dettato normativo, a condizione che, per perseguire i medesimi scopi, non siano disponibili metodologie alternative.

Per la Corte europea, l’impossibilità di donare gli embrioni alla scienza non violerebbe il diritto alla vita privata della ricorrente (art. 8 CEDU), dal momento che il margine di apprezzamento degli Stati risulta essere in materia particolarmente ampio, né sarebbe riconducibile ad una violazione del diritto di cui all’art. 1 del Protocollo 1, in quanto l’embrione non può essere ricondotto alla nozione di ‘bene’, di cui a tale disposizione. E’ utile ricordare che, con la decisione del 28 maggio 2013, la Corte aveva escluso l’ammissibilità anche della doglianza relativa all’art. 10 CEDU, non ritenendo che la ricorrente potesse considerarsi vittima, ai sensi dell’art. 35 della Convenzione, di una violazione del diritto alla libertà di ricerca scientifica, quale elemento fondamentale della libertà di espressione. Riteneva infatti la Corte che tale doglianza riguardasse «a right vesting in the operators in the field, namely, researchers and other scientists, and not directly the applicant».

La lettura del testo della sentenza del 27 agosto 2015 rivela gli sforzi con cui la maggioranza ha tentato di mantenere una posizione neutra sulla controversa e sensibile questione di bioetica che si pone alla base del caso: lo status dell’embrione.
Come in altri casi, infatti, (A., B. e C. c. Irlanda e Vo c. Francia) la Grande Camera ha accuratamente sorvolato sulla questione di quando la vita abbia inizio. Si è trattato, qui ancor più che altrove, di un delicato esercizio di equilibrismo, da considerarsi in linea di massima riuscito, come confermano le opinioni dei giudici Pinto de Albuquerque e Dedov, che hanno sentito l’esigenza di assumere posizioni più nette sul tema, pur sposando in linea di massima la scelta adottata in sentenza. Certo è stata un’operazione complessa, stante la molteplicità di vedute sul punto, che ben emerge dal confronto, da una parte, dell’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Casadevall, Ziemele, Power-Forde, De Gaetano e Yudkivska – secondo i quali l’art. 8 CEDU non troverebbe applicazione nel caso di specie, non essendo in discussione il desiderio di genitorialità della ricorrente – e, dall’altra, dell’opinione dissenziente del giudice Sajò, unico componente della Grande Camera a ravvisare una violazione di tale disposizione e a considerare che la sentenza erroneamente manchi di tenere in debita considerazione «the important third-party interest in the health benefits arising from scientific discovery».

In merito alla doglianza relativa all’art. 8 CEDU, la maggioranza ha stabilito che il diritto di decidere della sorte dei propri embrioni è senza dubbio compreso nel concetto di vita privata, che di per sé è molto ampio ed include il diritto all’autodeterminazione (par. 142). I giudici chiariscono poi la ragione di questa posizione, riferendosi al legame esistente tra la persona che si sottopone al trattamento di fecondazione assistita e gli embrioni così concepiti. In particolare, tale legame si concretizza nel fatto che «the embryos contain the genetic material of the person in question and accordingly represent a constituent part of that person’s genetic material and biological identity». In questo primo passaggio, la Corte sembra in qualche modo ricondurre ad unità il genitore biologico e l’embrione, rappresentando quest’ultimo, appunto, parte integrante del materiale genetico e dell’identità biologica del primo.
Poi però, dopo aver ammesso che l’interferenza nel diritto ex art. 8 CEDU, rappresentata dalla proibizione di donare embrioni alla scienza, è prevista dalla legge, la Grande Camera riconosce che il divieto citato può essere ricondotto (testualmente, «may be linked») allo scopo di tutelare la morale e i diritti e le libertà di altri, «in the terms in which the concept is meant by the Government» (par. 167): ovvero, la protezione dell’«embryo’s potential for life» (par. 123). La portata di una simile affermazione è chiaramente percepita dai redattori della sentenza, che si affrettano a precisare, nel medesimo paragrafo, di non intendere operare alcun accertamento «as to wheter the word others extends to human embryos» (par. 167).
Sebbene in modo non del tutto lineare, l’argomentazione della Corte concede spazio alle tesi di ciascuna delle due parti: da un lato, riconosce il legame (quasi di appartenenza) sussistente tra il genitore e l’embrione, dall’altro, non dimentica la particolare condizione, meritevole di tutela, in cui versa quest’ultimo.
Concludendo sul punto, però, la Corte finisce per ridimensionare la centralità del diritto di decidere della sorte dei propri embrioni nell’alveo delle posizioni giuridiche soggettive tutelate dall’art. 8 CEDU. Innanzitutto, tale diritto appare in qualche modo ‘ridotto’ anche nella sua formulazione: non è più presentato come diritto della ricorrente di definire il destino di qualcosa che le appartiene, ma in termini più semplici, quale diritto di donare gli embrioni alla ricerca scientifica (par. 174). Soprattutto, però, la Grande Camera stabilisce che la pretesa sollevata dalla ricorrente non riguarda un aspetto essenziale della sua esistenza ed identità (par. 174), assumendo così una posizione che appare in contrasto con quanto affermato solo pochi paragrafi sopra. Il ridimensionamento che la Corte opera è funzionale (insieme all’assenza di consenso europeo in materia) all’individuazione dell’ampio margine di apprezzamento di cui gode lo Stato nel caso di specie (par. 175-176) e, dunque, al mancato riconoscimento di una violazione.

Pur necessariamente prendendo una decisione sul merito, la Corte non tocca direttamente la delicata questione bioetica di fondo: tuttavia, una lettura più attenta rivela la posizione della maggioranza sul tema, che traspare dal testo della sentenza, più di quanto non fosse intenzione dei redattori.
Vi è infatti un passaggio in cui la Grande Camera prende apertamente posizione a favore della tesi governativa, sebbene avesse inizialmente escluso di doversi occupare di una questione sollevata dalla ricorrente a sostegno delle proprie argomentazioni. Nello specifico, la sig.ra Parrillo aveva sottolineato l’incoerenza dell’ordinamento che, a fronte del divieto di cui si dice, consente l’aborto e, soprattutto, l’utilizzo di cellule staminali di origine embrionale ricavate da embrioni distrutti all’estero.
Sul punto la Corte ha correttamente esordito rammentando che non rientra nei sui compiti la revisione della coerenza dell’ordinamento in astratto, ma solo un’analisi delle eventuali contraddizioni che possano avere un impatto negativo sulla posizione soggettiva dell’individuo che propone il ricorso (par. 191). In effetti, il caso in esame è molto diverso da quello all’origine della sentenza Costa e Pavan, in cui la Corte ha fondato l’accertamento della violazione proprio sulla contraddittorietà del nostro sistema legislativo che, pur vietando la selezione e l’impianto di embrioni non affetti dalla malattia ereditaria di cui i genitori siano portatori sani, consente l’aborto terapeutico nel caso in cui le medesime patologie vengano riscontrate nel feto attraverso tecniche di diagnosi pre-natale.
Pur avendo dunque escluso la rilevanza della questione per il caso in esame, la maggioranza non ha omesso di convenire esplicitamente con il governo su un punto chiave dell’argomentazione di quest’ultimo, ovvero che la distruzione deliberata di un embrione non sarebbe comparabile con l’utilizzo di cellule ottenute attraverso la distruzione, avvenuta all’estero, di embrioni ad uno stadio più prematuro (par. 194).
Si tratta di un obiter dictum che conferma quanto già emerso in Costa e Pavan e anzi compie un passo ulteriore: esiste cioè per la Corte una «gradation dans le processus de procréation» (Hervieu), che consente non solo di distinguere l’embrione, prima dell’impianto, dal feto, ma – evidentemente – anche tra embrioni a diversi stati di sviluppo.

La ricerca di una soluzione di compromesso tra le posizioni delle parti a prima vista sembrerebbe riuscita con successo anche nella parte in cui la Grande Camera dichiara l’inammissibilità della doglianza relativa al diritto garantito dall’art. 1 del Protocollo 1.
Le tesi sostenute dalle parti erano, com’è ovvio, diametralmente opposte. La ricorrente sosteneva infatti che gli embrioni non potessero considerarsi ‘individui’, poiché, non essendo stati impiantati, non erano destinati a divenire feti e quindi a nascere, mentre il governo affermava che gli embrioni non potessero identificarsi come ‘cose’, considerato che nell’ordinamento italiano essi sono ritenuti soggetti di diritto, meritevoli del rispetto della dignità umana.
Sul punto i giudici hanno escluso, all’unanimità, che l’embrione possa essere descritto come ‘bene’ ai sensi dell’art. 1 del Protocollo 1, disposizione che notoriamente implica un significato patrimoniale. Tuttavia essi hanno avuto cura di giungere ad una posizione così netta, preannunciando di non volersi esprimere sulla problematica questione di quando la vita abbia inizio, anche considerato il fatto che nel caso di specie non era in discussione l’applicazione dell’art. 2 CEDU. La Corte ha dunque tentato di assumere una posizione la più neutra possibile rispetto alla questione di fondo. Tuttavia non può negarsi che la scelta operata dalla maggioranza – che, se non ha accolto l’interpretazione del governo, ha però escluso a chiare lettere quella della ricorrente – sia di grande impatto. Certo, forse non poteva avvenire diversamente: quale che sia la posizione di ciascuno sulla necessità di dare la precedenza alla tutela della vita ‘potenziale’ di un embrione o, viceversa, alla speranza di cura di tanti malati, la qualificazione dell’embrione quale ‘bene’, oggetto di diritto di proprietà di altri, è decisamente una forzatura.

Sicuramente questa decisione lascia insoddisfatti tutti coloro che rivestono grandi speranze nella ricerca scientifica per la cura di malattie molto gravi. In realtà la questione è ancora aperta, dal momento che la Corte Costituzionale è chiamata, a seguito dell’ordinanza del Tribunale di Firenze del 7 dicembre 2012, ad esprimersi sulla questione di legittimità costituzionale del divieto di cui si dice, in relazione agli art. 9, 32 e 33 primo comma della Costituzione. Il giudice delle leggi non potrà che prendere una posizione più esplicita sulla questione bioetica di fondo. Questa volta, anzi, i termini del confronto saranno più completi: non più la sola pretesa individuale di disporre dei propri embrioni per contribuire alla scienza, ma la necessità di trovare un bilanciamento tra un ‘potenziale’ diritto alla vita e allo sviluppo dell’embrione (in particolare, nel caso in cui sia malato o non più impiegabile per fini procreativi), con il diritto alla ricerca scientifica collegato alla tutela della salute individuale e collettiva.

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