Verso una maggiore effettività del legal aid in Europa?
Serena Quattrocolo, Università di Torino
1. Nella sentenza Konstantin Stefanov c. Bulgaria, del 27 ottobre 2015, l’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo (IV sez.) è stata portata, ancora una volta, sulla figura e sul ruolo del difensore nel processo penale. È noto, infatti, che nel catalogo di garanzie processuali penali, sancite dall’art. 6 §§ 2 e 3 CEDU – tutte egualmente rilevanti – il diritto dell’accusato all’assistenza difensiva riveste un carattere spesso strumentale rispetto alla effettiva fruibilità delle altre tutele ivi indicate. Proprio sotto tale angolazione, il tema è stato oggetto di importantissime pronunce dei Giudici di Strasburgo, non soltanto in relazione al basilare diritto di accesso al difensore – in particolare da parte dei soggetti privati della libertà personale (si pensi alla “storica” decisione nel caso Salduz c. Turchia e di alcune successive pronunce “collegate”, come Panovits v. Cipro e Dayanan c. Turchia) – ma anche alla necessaria effettività che deve accompagnare tale diritto. Proprio in questa prospettiva, il tema del patrocinio dei non abbienti era stato, fin qui, più volte oggetto di pronunce della Corte europea, tendenzialmente, però, sotto il profilo del rispetto dell’art. 6 § 3 lett. c CEDU. Nel caso qui segnalato, invece, la questione del corrispettivo del difensore del non abbiente è venuta in rilevo con riguardo al diritto del professionista di essere adeguatamente remunerato per le prestazioni offerte.
La comprensione dei fatti richiede, tuttavia, una doverosa premessa, che sottolinea l’eclatante assenza di armonizzazione tra gli ordinamenti del Consiglio d’Europa in relazione ad un profilo tanto fondamentale del sistema di garanzie difensive nel processo penale. Alla luce della norma convenzionale di riferimento (art. 6 § 3 lett. C CEDU: [right to] «to defend himself in person or through legal assistance of his own choosing or, if he has not sufficient means to pay for legal assistance, to be given it free when the interests of justice so require»), infatti, tre profili colpiscono particolarmente l’attenzione dell’operatore italiano. In primo luogo, in forza del testo riportato nell’ambito convenzionale, la difesa tecnica non riveste carattere necessario – paradigma che, invece, nel nostro ordinamento, la Corte costituzionale ha invariabilmente desunto dall’art. 24 Cost. (si veda già, C. Cost. 46/1957) – ed è astrattamente rinunciabile da parte dell’imputato. In secondo luogo, data tale premessa, l’assistenza del non abbiente non è incondizionatamente garantita, ma assicurata soltanto quando ritenuta necessaria ai fini degli interessi della giustizia. Da ultimo, nomina ex officio e beneficio del patrocinio a spese dello Stato si confondono in una previsione che sembra mescolare due istituti che nel nostro ordinamento sono ben distinti: la prima è una modalità di nomina del difensore – ex art. 97 c.p.p., che scatta ogniqualvolta l’indagato/imputato sia privo di un difensore di fiducia e la partecipazione di quest’ultimo all’atto sia necessaria – mentre la seconda è, semplicemente, una modalità di remunerazione, non di nomina, del professionista. All’interno di questa cornice si collocano i fatti oggetto della recente decisione europea.
2. Il ricorrente, cittadino bulgaro e avvocato ivi esercente la professione, era stato nominato ex officio come difensore di un imputato non abbiente, tratto a giudizio per reati puniti con pena detentiva elevata. Al momento della nomina, correttamente operata per il tramite del locale consiglio dell’ordine degli avvocati, la normativa nazionale rilevante era rappresentata da un intreccio di disposizioni. Per un verso, due articoli del previgente codice di procedura penale (sostituito poco dopo i fatti dal nuovo codice, entrato in vigore nel 2006), l’art. 70 e l’art. 269, disciplinavano, rispettivamente, i casi in cui l’autorità dovesse procedere alla nomina del difensore ex officio, e le ipotesi in cui il rinvio dell’udienza dovesse ritenersi imputabile alla condotta dilatoria di una parte, per questo sanzionabile con il versamento di una somma di denaro. Per altro verso, il § 44 della legge forense stabiliva che la remunerazione del difensore così incaricato dovesse essere determinata, sin dall’atto di nomina, non al di sotto del limite fissato da altro provvedimento, l’ordinanza (annuale) del Consiglio nazionale forense sulla retribuzione minima dei difensori, diversificata sulla base della distinzione, tra l’altro, fra giudizio ordinario e riti negoziali. Poiché il giudice del procedimento in cui il ricorrente era stato nominato escludeva di poter fissare anticipatamente il corrispettivo minimo delle prestazioni – prima del loro effettivo svolgimento – quest’ultimo si rifiutava di rappresentare l’assistito e abbandonava l’aula. L’autorità giudiziaria era costretta a rinviare l’udienza e infliggeva perciò al medesimo la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 269 del codice di procedura penale, che veniva poi confermata dalla Corte regionale, alla quale questi aveva proposto impugnazione. Ne seguiva il ricorso dell’avvocato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per lamentare l’illegittima privazione del proprio compenso professionale e l’altrettanto illegittima sanzione pecuniaria, in pretesa violazione dell’art. 1 prot. I CEDU e, in particolare, del diritto dei singoli al rispetto dei propri beni.
In primo luogo, la Corte ha escluso l’ammissibilità (art. 35 §§ 3a e 4 CEDU) della prima doglianza, incentrata sulla pretesa illegittima privazione del corrispettivo professionale, poiché per libera scelta il difensore non ha prestato alcuna attività difensiva a favore dell’assistito, facendo venire meno il rapporto sinallagmatico tra compenso e prestazione. Ammissibile, invece, anche ai sensi del parametro di recente introduzione (art. 35 § 3b CEDU) del «pregiudizio significativo», la doglianza incentrata sull’imposizione della sanzione pecuniaria, il cui importo – sulla base di uno studio socio-economico bulgaro – è stato ritenuto dalla Corte di impatto rilevante sulla condizione patrimoniale del ricorrente. La questione, però, pur ammissibile, è stata ritenuta infondata. A fronte di un’apparente contraddizione normativa tra la previsione della legge forense che imponeva la fissazione del tetto minimo di retribuzione contestualmente alla nomina e la tariffa professionale, che stabiliva valori minimi differenziati con riguardo, ad esempio, ai riti negoziali, la Corte ha assunto una posizione netta. Stante la prevalenza della disposizione del codice di procedura, che contemplava, appunto, la conseguenza sanzionatoria per il comportamento eventualmente dilatorio delle parti, il ricorrente poteva facilmente prevedere le conseguenze in cui sarebbe incorso abbandonando la difesa, seppur come reazione a un atteggiamento del giudice procedente, non compatibile con il § 44 della legge forense. Posto che non spetta alla Corte, ma ai giudici nazionali, pronunciarsi sul rispetto dei presupposti per l’applicazione di una sanzione prevista dall’ordinamento interno, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato come nessuna questione relativa alla remunerazione del difensore nominato ex officio possa sovrapporsi al regolare svolgimento del procedimento. Le conseguenze in cui l’avvocato è incorso non sono da considerarsi arbitrarie, poiché conoscibili, chiare e prevedibili, essendo peraltro interesse della collettività l’ordinato e puntuale svolgimento dei procedimenti penali, senza ingiustificati ritardi. Tale interesse rappresenta, quindi, l’adeguato bilanciamento al sacrificio imposto al singolo tramite l’inflizione della sanzione (§ 55). E’ stata pertanto esclusa ogni violazione dell’art. 1 Prot. I CEDU.
3. Le conclusioni cui è giunta la Corte nel caso di specie non stupiscono, né sorprende – operata la iniziale premessa sub 1 – che il tema del legal aid sia stato affrontato sotto il profilo dell’art. 1 Prot. I. Appunto, la giurisprudenza della Corte europea è ricchissima di riferimenti alla necessità che il diritto di difesa garantito all’accusato dall’art. 6 CEDU sia effettivo e non virtuale. In questo senso, sin dalla risalente (e stigmatizzante: si richiama l’indimenticata reazione di A. Pizzorusso, Rossi di vergogna, anzi paonazzi, in FI 1980, IV, c. 150 ss.) pronuncia Artico c. Italia, la Corte ha ribadito l’obbligo dei legislatori interni, e il vincolo gravante sui giudici nazionali, di vigilare affinché l’assistenza difensiva, anche del non abbiente, sia sempre efficace (da ultimo ripresa, sotto questo profilo da Dvorski c. Croazia, § 111), fino a stabilire la responsabilità di uno Stato membro per il mancato intervento, imperativo, a favore di un imputato non adeguatamente assistito (Artico c. Italia, § 33: «Article 6 par. 3 (c) (art. 6-3-c) speaks of “assistance” and not of “nomination”. Again, mere nomination does not ensure effective assistance since the lawyer appointed for legal aid purposes may die, fall seriously ill, be prevented for a protracted period from acting or shirk his duties. If they are notified of the situation, the authorities must either replace him or cause him to fulfil his obligations»).
L’obbligo di garantire diritti effettivi per gli accusati, si incrocia evidentemente con quello di assicurare agli individui presenti sul proprio territorio il diritto alla proprietà, nelle tre componenti che congiuntamente costituiscono il tessuto dell’art. 1 Prot. 1 Cedu (come ricorda la sentenza qui in commento, al § 53: pacifico godimento dei propri beni; presupposti tassativi a cui l’eventuale spossessamento è sottoposto; condizioni per l’interferenza del potere statuale, a garanzia del rispetto dell’interesse collettivo nello sfruttamento della proprietà privata da parte dei singoli). È ormai ben noto, infatti, che una delle principali cause dell’inefficienza dei sistemi di legal aid nel contesto europeo (pur molto variegato), è proprio quella della insufficiente remunerazione dei professionisti che – su base volontaria o meno – vengono chiamati a rappresentare e difendere i non abbienti (v., tra gli altri, Cape, Namoradze, Smith, Sponken, Effective Criminal Defence in Europe, 591 s.). Il tema è stato recentemente portato alla ribalta dalle maggiori organizzazioni internazionali di avvocati penalisti, in occasione dei lunghi lavori preparatori poi sfociati nell’approvazione della Direttiva UE 2013/48, in materia di diritto dell’accusato e del sospettato di accedere all’assistenza difensiva. Infatti, la bozza originariamente elaborata dalla Commissione, riferendosi alla lettera c della Roadmap per il potenziamento dei diritti difensivi, conteneva anche disposizioni attinenti al patrocinio dei non abbienti. Già in quell’occasione, la reazione dei professionisti (si veda la posizione espressa dal CCBE, a favore della netta separazione delle due tematiche, in modo da garantire al legal aid una disciplina completa ed articolata), aveva messo in luce l’importanza di intervenire anche sul profilo della retribuzione delle prestazioni di legal aid, al fine di garantire ai cittadini un servizio effettivo ed efficiente. Efficienza ed effettività della garanzia sembrano, del resto, essere i profili che più marcatamente caratterizzano tanto la raccomandazione adottata dalla Commissione in materia nel 2013, nonché la proposta di direttiva attinente proprio al provisional legal aid (definito dall’art. 3 della stessa bozza come assistenza difensiva a carico dello Stato richiesto per i soggetti attinti da un provvedimento limitativo della libertà – anche un mandato d’arresto europeo – in attesa della decisione definitiva sull’ammissione al beneficio). Il documento recentemente diffuso dal LEAP (Legal Experts Advisory Panel) congiuntamente a Fair Trials International proprio come reazione alla predetta proposta (pubblicato il 13.5.2015, v. specialmente pagg. 13 s.), sottolinea l’importanza di introdurre nel testo dell’approvanda direttiva sia un riferimento a tutte le spese e a tutte le incombenze che il difensore del non abbiente deve concretamente affrontare, sia la previsione di meccanismi correttivi per adeguare la retribuzione minima del legal aid all’effettiva complessità di ogni singolo caso. Del resto, l’importanza di un adeguato meccanismo di finanziamento del patrocinio dei non abbienti è universalmente avvertito ed è stato anche recentemente ribadito dalla risoluzione 67/187 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con cui sono stati adottati i Principi fondamentali e linee guida in materia di accesso al legal aid nei sistemi di giustizia penale (20.12.2012). Nel principio n. 2 si afferma che i sistemi di patrocinio dei non abbienti debbono essere «accessible, effective, sustainable and credible» e che, allo scopo, gli Stati debbono «allocate the necessary human and financial resources to the legal aid system». Nelle linee guida, poi, al punto 12, si stabilisce a chiare lettere che le spese anticipate dallo Stato debbono coprire tutta la gamma delle prestazioni difensive e che i «payments should be timely».
4. Alla luce di queste considerazioni pare verosimile attendersi che nel futuro prossimo la Corte possa accogliere doglianze vertenti sulla incompatibilità di certe situazioni concrete con l’art. 1 prot. I CEDU: diversamente da quanto accaduto nel caso di specie, infatti, laddove la prestazione da parte del difensore del non abbiente sia stata comunque realizzata, ma l’autorità giudiziaria si sia rifiutata di liquidarne il corrispettivo nei termini stabiliti dalla legge, oppure quando, a causa del ritardo dell’amministrazione erariale, la somma liquidata a favore del professionista non sia mai stata corrisposta, o versata con irragionevole ritardo, la Corte potrebbe ritenere effettivamente violato il parametro convenzionale, soprattutto sotto il primo dei profili enunciati nell’art. 1. Anche nella prospettiva dell’auspicabile approvazione della proposta di direttiva in materia di legal aid, la Corte europea rimarrà attenta guardiana del rispetto dei parametri convenzionali – dell’equo processo e della tutela del diritto di proprietà – in tutti i casi in cui l’eventuale, timida, armonizzazione operata dalla direttiva dovesse mostrare il fianco. Per un verso, infatti, occorrerà riscontrare se e come gli auspici del LEAP saranno accolti e integrati nel testo attualmente sotto esame. Per altro verso, poi, le stesse premesse da cui prende le mosse il ricordato documento riconoscono l’estrema differenziazione dei sistemi nazionali di patrocinio per i non abbienti, escludendo a priori spazi significativi di armonizzazione a livello di legislazione interna, pur attraverso una direttiva specificamente dedicata alla questione. Sembra difficile, quindi, che la Corte di Strasburgo, sempre più vittima del suo successo, possa sottrarsi all’onere di intervenire anche su questo complementare, ma non secondario, aspetto dell’effettività dei diritti difensivi nel processo penale.
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