diritto dell'Unione europea

L’accordo UE-Turchia: le criticità di un accordo a tutti i costi

Emanuela Roman, Università di Palermo

L’accordo di cooperazione in ambito migratorio tra Unione Europea (UE) e Turchia, definito nei sui principi il 7 marzo 2016, è stato confermato dal Consiglio europeo del 17-18 marzo 2016. Esso rappresenta l’ultimo, secondo alcuni disperato, tentativo europeo di fermare (o quantomeno ridurre drasticamente) il flusso di migranti e rifugiati, in maggioranza siriani, che continua a raggiungere l’Europa in numeri consistenti attraversando il Mar Egeo e percorrendo la rotta balcanica (più di 850.000 persone nel 2015). Quest’accordo si inserisce in un contesto di intensificata cooperazione tra UE e Turchia, finalizzata al controllo dell’immigrazione irregolare verso l’Europa e al supporto nella gestione della crisi siriana in Turchia. Gli incontri, i negoziati e gli accordi che si sono susseguiti a partire dal settembre 2015 non hanno però portato i risultati sperati. Di fronte al graduale deteriorarsi della situazione, quest’ultimo accordo deriva dunque dalla volontà di porre sul tavolo una soluzione radicale e risolutiva. Tale soluzione risulta però per molti aspetti controversa, sia dal punto di vista della sua conformità con il quadro giuridico internazionale ed europeo, sia relativamente alla sua praticabilità ed efficacia.

Durante il Consiglio europeo del 17-18 marzo, i leader europei hanno definito e concordato con il primo ministro turco Davutoğlu i termini di un accordo i cui principi fondamentali erano stati posti sul tavolo dieci giorni prima, in occasione del summit internazionale tra i capi di Stato e di governo dell’UE e la Turchia. In quell’occasione Turchia, Germania e Olanda avevano sorpreso gli altri leader europei presentando un piano inedito.

L’accordo del 7 marzo ha stabilito che:

  1. tutti i migranti che giungono sulle isole greche vengano ricondotti in Turchia, inclusi i potenziali richiedenti asilo (e tra loro, i rifugiati siriani); e
  2. per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano venga reinsediato dalla Turchia ad uno Stato Membro UE.

Si tratta di due principi nuovi alla cooperazione tra UE e Turchia, che fino ad ora (nel piano d’azione congiunto e nell’accordo del 29 novembre) si era limitata a prevedere il rimpatrio dei soli migranti irregolari che non hanno diritto alla protezione internazionale, sulla base del protocollo di riammissione bilaterale tra Grecia e Turchia (e, a partire dal 1° giugno 2016, dell’accordo di riammissione europeo). Tuttavia, l’estensione dell’obbligo della riammissione a tutti i migranti, inclusi richiedenti asilo e rifugiati, e il principio della riammissione in cambio del reinsediamento, non sono di per sé una novità. Essi rappresentano infatti il nucleo del cosiddetto ‘piano Samsom’ (dal nome del politico olandese che l’ha reso noto), un piano elaborato e promosso dal think tank European Stability Initiative (ESI) e appoggiato sia dal governo olandese, attualmente impegnato nel semestre di presidenza europea, che da quello tedesco (per un approfondimento critico sul piano Samsom, si vedano i relativi paragrafi in Peers e Roman 2016 e Roman et al. 2016).

La dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo, ha riconfermato i due principi introdotti il 7 marzo e ha stabilito i dettagli del nuovo piano. Il rimpatrio di tutti i nuovi migranti irregolari che giungono sulle isole greche dalla Turchia inizierà immediatamente, a partire dalla mezzanotte di domenica 20 marzo (anche se la Grecia avverte il giorno stesso di aver bisogno di più tempo). Prima di essere rimpatriati, tutti i migranti verranno registrati e potranno presentare domanda d’asilo sulle isole greche. Le domande d’asilo verranno esaminate individualmente dalle autorità greche conformemente alla Direttiva Procedure e con il supporto dell’UNHCR. Coloro i quali non faranno domanda d’asilo o la cui domanda sarà ritenuta inammissibile o infondata sulla base della suddetta direttiva saranno rimpatriati in Turchia. Per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano sarà reinsediato nell’UE, con un limite, però, di posti disponibili per il reinsediamento pari a 72.000 in totale per il 2016. Questo meccanismo è considerato una misura temporanea e straordinaria. Si prevede che una volta terminati, o considerevolmente ridotti, gli attraversamenti irregolari dalla Turchia alla Grecia, venga attivato un programma volontario di ammissione umanitaria di siriani dalla Turchia.

Questo piano presenta una serie di criticità che meritano di essere attentamente analizzate.

Espulsioni collettive e refoulement

L’accordo del 7 marzo prevedeva di «far rientrare tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche». Esso ha fatto subito insorgere ONG, organizzazioni internazionali e numerosi accademici, che hanno rilevato come dietro ad una formulazione così vaga si nascondesse il rischio di espulsioni collettive, proibite dall’art. 4 del Protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e dall’art. 19, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (CDF), nonché il rischio di una violazione del principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati e ribadito dall’art. 3 CEDU e dall’art. 19, par. 2 CDF.

Per quanto riguarda le espulsioni collettive, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha stabilito che l’espulsione di un gruppo di stranieri possa avvenire solo dopo una valutazione ragionevole e oggettiva del caso individuale di ciascun straniero del gruppo. Il principio di non-refoulement prevede, inoltre, che nessuno possa essere espulso verso uno Stato dove rischia di essere perseguitato o di essere sottoposto a tortura o altre pene o trattamenti inumani o degradanti. I paesi europei hanno quindi l’obbligo di verificare, anche qui caso per caso, che l’espulsione di uno straniero verso la Turchia avvenga nel rispetto di questo principio (che peraltro si applica non solo ai richiedenti asilo ma a tutti i migranti). Solo se la Turchia può essere considerata un Paese terzo sicuro (punto che approfondiamo in seguito), non si ha violazione del principio di non-refoulement. Pertanto, l’applicazione dell’accordo UE-Turchia dovrà necessariamente rispettare il divieto di espulsioni collettive e il principio di non-refoulement e dovrà prevedere procedure per l’esame individuale del caso di ogni migrante e richiedente che approderà sulle isole greche.

Rassicurazioni a riguardo sono giunte dalla Commissione europea in una comunicazione del 16 marzo (accolta positivamente anche dal Segretario Generale del Consiglio d’Europa) e sono state poi incluse in maniera esplicita nel testo della dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo. Sarà certamente da valutare se e come questi impegni formali verranno messi in pratica.

Principio dell’‘uno per uno’

Un aspetto molto controverso del piano è il principio in base al quale per ogni siriano riammesso in Turchia, un altro siriano sarà reinsediato in Europa. Questo meccanismo dell’‘uno per uno’ contrasta con i principi fondamentali del diritto d’asilo e della tutela dei diritti umani a livello internazionale ed europeo, dove le circostanze individuali di ogni singola persona rappresentano l’elemento chiave. Manca, ad esempio, un riferimento alla necessità di considerare le specifiche vulnerabilità dei migranti che approdano sulle isole greche, tra i quali, come noto, vi sono numerosi minori non accompagnati, neonati, donne, anziani, famiglie, disabili, vittime di violenza. Un meccanismo che punisce un rifugiato di guerra siriano perché tenta di raggiungere l’Europa e al contempo ne premia un altro perché non ha fatto il tentativo, oltre ad essere moralmente discutibile perché fondato sulla distinzione ‘rifugiato buono’ vs ‘rifugiato cattivo’, è incompatibile con le basi stesse del diritto d’asilo. Un rifugiato non può essere criminalizzato per ingresso irregolare nel Paese in cui cerca rifugio e il suo diritto alla protezione internazionale non può essere subordinato alle modalità (legali o non) con cui entra in un Paese.

Discriminazione sulla base della nazionalità

Nella misura in cui questo meccanismo si applica ai soli siriani, esso risulta in palese contrasto con il divieto di discriminazione sulla base del Paese d’origine, sancito dall’art. 3 della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. L’accordo prevede, infatti, che tutti i richiedenti asilo vengano riammessi in Turchia, ma che solo i siriani possano essere reinsediati in Europa. Solo i siriani avrebbero quindi la possibilità di beneficiare della protezione internazionale in un Paese europeo (attraverso il reinsediamento), mentre tutti gli altri potenziali beneficiari sarebbero costretti a restare in Turchia, dove, come vedremo in seguito, le procedure sono inadeguate e gli standard di protezione insufficienti.

La questione è particolarmente grave se consideriamo che una parte consistente dei migranti che sbarcano in Grecia sono afghani ed iracheni (dall’inizio dell’anno, rispettivamente il 26% e il 17% degli arrivi) a cui si aggiungono iraniani, pachistani, eritrei e somali in percentuali minori. Come noto, la maggior parte di loro ha fondati motivi per richiedere (e vedersi riconosciuto) lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione. In Turchia, invece, (come spiegato nel prossimo paragrafo) queste persone non hanno diritto né allo status di rifugiato, né alla protezione temporanea di cui beneficiano i siriani. Oltre a non rientrare nel meccanismo del reinsediamento ‘uno per uno’, sembra che queste persone non potranno beneficiare nemmeno dell’assistenza finanziaria promessa dall’UE, che, stando al testo della dichiarazione del 18 marzo, è mirata a «progetti per le persone oggetto di protezione temporanea», ovvero i siriani. È legittimo chiedersi quali saranno le condizioni di vita e le prospettive per gli afghani, gli iracheni e tutti gli altri richiedenti asilo non siriani ‘intrappolati’ in Turchia.

Il concetto di Paese terzo sicuro

Anche se le dichiarazioni del 7 e del 18 marzo non vi fanno esplicito riferimento, la possibilità di rimandare i richiedenti asilo in Turchia si fonda sul riconoscimento, da parte della Grecia, della Turchia come Paese terzo sicuro. La Direttiva Procedure prevede all’art. 33, par. 2, lettera (c) che uno Stato Membro possa giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile se un Paese non-UE è considerato Paese terzo sicuro per il richiedente. L’art. 38, par. 1, della stessa Direttiva elenca una serie di criteri che il Paese deve rispettare per essere considerato Paese terzo sicuro:

  1. non sussistono minacce alla vita e alla libertà del richiedente per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;
  2. non sussiste il rischio di danno grave (definito dall’art. 15 della Direttiva Qualifiche come: pena di morte; tortura o trattamento inumano o degradante; o minaccia grave alla vita del richiedente derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato);
  3. il principio di non-refoulement è rispettato;
  4. esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e di ottenere protezione in conformità con la Convenzione di Ginevra.

L’art. 38, par. 2, stabilisce anche una serie di garanzie procedurali. La sicurezza di un Paese terzo va sempre esaminata caso per caso per verificare se il concetto è applicabile alle circostanze individuali del richiedente in questione. Al richiedente deve inoltre essere garantito il diritto di impugnare l’applicazione del concetto di Paese terzo sicuro sulla base del fatto che quel Paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico.

Può dunque la Turchia essere considerata un Paese terzo sicuro, sulla base dei criteri stabiliti dalla Direttiva Procedure?

Innanzitutto, la Turchia ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo Protocollo del 1967, ma mantiene una limitazione geografica per i richiedenti non europei, in base alla quale riconosce lo status di rifugiato come definito dalla Convenzione solo a chi proviene da un Paese membro del Consiglio d’Europa. Sebbene la legge sugli stranieri e sulla protezione internazionale adottata nel 2013 preveda la possibilità di riconoscere lo status di ‘rifugiato condizionato’ a chi proviene da un Paese non europeo, questo status permette di risiedere solo temporaneamente in Turchia e garantisce un set limitato di diritti. Inoltre, nonostante le recenti riforme, i richiedenti asilo in Turchia affrontano i problemi di un sistema ancora ampiamente non funzionante, in cui mancano le strutture di accoglienza e le garanzie procedurali minime, come documentato dal rapporto AIDA sulla Turchia.

In questo contesto i siriani rappresentano un caso specifico. Inizialmente accolti come ‘ospiti’, a partire dall’ottobre 2014 sono soggetti ad un regime speciale di protezione temporanea che evita loro di dover passare attraverso la procedura regolare. Tuttavia, anche i profughi siriani possono risiedere nel Paese solo temporaneamente e i loro diritti sono limitati, in particolare per quanto riguarda l’accesso all’educazione (si veda ad esempio il rapporto di Human Rights Watch) e al lavoro (nonostante il governo turco abbia recentemente cercato di prendere delle misure per facilitarne l’integrazione economica). Risulta quindi evidente che nessun richiedente protezione proveniente da un Paese non europeo (siriani inclusi) può richiedere e vedersi riconosciuto in Turchia lo status di rifugiato in senso pieno, così come definito dalla Convenzione di Ginevra, come invece richiede la lettera (e) dell’art. 38, par. 1, Direttiva Procedure.

In secondo luogo, nonostante la Turchia riconosca nella sua legislazione il principio di non-refoulement e si impegni formalmente a rispettarlo, molteplici episodi di respingimenti sono stati documentati nel corso degli anni ‘90 e 2000. Anche recentemente, ONG locali e internazionali (tra cui Human Rights Watch e Amnesty International) hanno denunciato numerosi episodi di respingimenti, deportazioni, detenzioni arbitrarie e violenza fisica ai danni di siriani, iracheni e afghani che cercavano di entrare in Turchia o di arrivare in Grecia. Se anche si potesse affermare che il principio di non-refoulement è rispettato nella maggior parte dei casi, non si può affermare che lo sia in tutti i casi e in maniera generalizzata, come vuole la lettera (c) dell’art. 38, par. 1, Direttiva Procedure.

Infine, in Turchia i migranti e richiedenti si trovano ad affrontare una serie di ostacoli che aumentano il rischio di danno grave, in contraddizione con il requisito alla lettera (b) dell’art. 38, par. 1, Direttiva Procedure. La Turchia ha alle proprie spalle una storia di torture e trattamenti inumani o degradanti ai danni di migranti e richiedenti nei centri di detenzione. Numerosi episodi vengono riportati dalle ONG locali e internazionali e anche la Corte EDU ha riconosciuto in vari casi la violazione dell’art. 3 CEDU (tra gli altri, Abdolkhani e Karimnia c. Turchia e il recente SA c. Turchia). Inoltre, con riferimento al danno grave dovuto alla violenza indiscriminata, il conflitto interno tra il governo turco e i ribelli curdi che si è andato intensificando nel corso dell’ultimo anno, può rappresentare una minaccia per la sicurezza e la vita dei richiedenti e rifugiati che vivono nel Sudest del Paese. Per queste ragioni, non sembra che la Turchia possieda i requisiti per poter essere considerata un Paese terzo sicuro. La questione, tuttavia, non sembra rivestire particolare rilievo nemmeno nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, stando alla recente sentenza nel caso Mirza c. Ungheria, in cui la Corte ha confermato la possibilità per uno Stato membro di applicare il concetto di Paese terzo sicuro (nel caso in questione si trattava della Serbia) anche nell’ambito di una procedura Dublino.

Problemi procedurali e di applicazione pratica dell’accordo

Oltre alle questioni sostanziali, anche alcuni aspetti procedurali dell’accordo appaiono critici, tanto da mettere in dubbio la possibilità di una sua piena ed effettiva attuazione. Il governo greco domenica 20 marzo ha (comprensibilmente) chiesto più tempo per organizzare le operazioni; ma basterà? Ci si interroga in particolare su come riusciranno le autorità greche a registrare ed esaminare un numero presumibilmente molto elevato di domande d’asilo in tempi molto brevi, garantendo al contempo il rispetto della normativa internazionale ed europea, come promette la dichiarazione del 18 marzo. Conformemente alla Direttiva Procedure, ogni domanda dovrà essere valutata individualmente e l’applicazione del concetto di Paese terzo sicuro andrà considerata tenendo conto delle circostanze particolari di ciascun caso.

Inoltre, in base all’art. 46 della stessa direttiva, nel caso in cui la sua domanda d’asilo venga dichiarata inammissibile, il richiedente ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi a un giudice (par. 1) e ha diritto a rimanere nel territorio dello Stato membro in attesa dell’esito del ricorso, peraltro in maniera automatica se la decisione di inammissibilità si basa sul concetto di Paese terzo sicuro (parr. 5 e 6). Riusciranno le autorità giudiziarie greche a decidere in tempi ragionevoli la mole di ricorsi che presumibilmente seguiranno le decisioni di inammissibilità? E dove saranno ‘ospitati’ tutti i richiedenti durante il periodo di tempo che l’intera procedura richiederà, visto che non potranno essere espulsi fino all’esito del ricorso? Inoltre, come si riuscirà a garantire che queste persone non lascino il Paese mentre la procedura è in corso?

Va ricordato che il sistema di asilo greco è un sistema debole, che presenta gravi carenze strutturali che limitano la possibilità dei richiedenti di avere accesso alla procedura di asilo e a strutture di accoglienza adeguate. Nonostante le riforme e i miglioramenti degli ultimi anni, le autorità amministrative e giudiziarie greche faticano a gestire le domande e i ricorsi arretrati. Queste carenze sistemiche, rilevate dalla Corte EDU nel caso MSS c. Belgio e Grecia e dalla Corte di giustizia dell’UE nel caso NS e ME c. Regno Unito e Irlanda, hanno determinato a partire dal 2011 la sospensione dei trasferimenti Dublino verso la Grecia. Da questo stesso sistema di asilo, l’UE si aspetta oggi uno sforzo eccezionale per garantire l’attuazione di un piano che, dal punto di vista procedurale, è estremamente complesso, nelle sue diverse fasi (identificazione/registrazione, esame della domanda, accoglienza/detenzione, ricorso, rimpatrio).

L’UE ha più volte affermato che «la Grecia non verrà lasciata sola» in questo sforzo. Le conclusioni del Consiglio del 17-18 marzo prevedono esplicitamente un rafforzamento del supporto operativo, logistico e finanziario che l’UE (attraverso le agenzie EASO e Frontex) e gli Stati membri (con uomini e mezzi propri) si impegnano a garantire alle autorità greche per dare piena attuazione all’accordo con la Turchia. La rapida adozione del Regolamento sulla fornitura di sostegno di emergenza all’interno dell’Unione (Regolamento UE 2016/369 del 15 marzo 2016) è un ulteriore segnale importante in questa direzione. Evidentemente la questione è considerata cruciale anche dalla Commissione e dai leader europei. E lo è, se si considera che il sostegno finora fornito alla Grecia, un sostegno tutt’altro che limitato, non è comunque stato sufficiente a rendere il sistema di asilo greco funzionante ed autosufficiente.

Un’ultima considerazione, alla luce della sentenza MSS c. Belgio e Grecia citata sopra. In quel caso la Corte EDU ha condannato la Grecia per trattamento inumano o degradante (violazione dell’art. 3 CEDU) a causa delle condizioni in cui il ricorrente si è trovato a vivere nel Paese dopo essere uscito dal centro di detenzione in cui era trattenuto (e dove già aveva sofferto un trattamento inumano o degradante). Confrontando le condizioni di vita dei richiedenti in Grecia con quelle dei richiedenti e rifugiati in Turchia, viene da chiedersi se le seconde non siano altrettanto inadeguate. Sembra dunque verosimile attendersi da parte della Corte EDU conclusioni analoghe nei confronti della Turchia, qualora, come probabile, la Corte venga interpellata da richiedenti asilo ospitati nel territorio turco.

La ratio e i numeri dell’accordo

Più in generale, è il principio fondamentale su cui il piano si basa che sembra racchiudere un’evidente contraddizione. Il meccanismo dell’‘uno per uno’ comporta che il reinsediamento di un siriano dipenda direttamente dal fatto che un altro siriano abbia prima raggiunto la Grecia per vie illegali. È palese la contraddizione tra lo scopo dichiarato dell’accordo UE-Turchia, ovvero fermare l’immigrazione irregolare e combattere il traffico di esseri umani, e rendere proprio l’immigrazione irregolare condizione necessaria al reinsediamento.

Stando alla logica intrinsecamente contraddittoria del piano, per ottenere più reinsediamenti, è necessario che il maggior numero di persone possibile si affidi ai trafficanti e attraversi il Mar Egeo sui gommoni, esattamente il contrario di ciò che l’accordo si propone di ottenere. Ma ridurre il flusso di migrazione irregolare significherebbe anche ridurre i numeri del reinsediamento, un risultato auspicato forse dagli Stati membri, ma sicuramente non dai siriani in Turchia, che quindi sarebbero spinti a fare l’esatto contrario. Sono forse anche queste contraddizioni ad aver spinto i leader europei ad introdurre nella dichiarazione del 18 marzo sia un tetto massimo al numero dei reinsediamenti, sia la possibilità di attivare un piano volontario di ammissione (sulla base della raccomandazione della Commissione del 15 dicembre 2015) se e quando gli attraversamenti irregolari cesseranno o saranno drasticamente ridotti.

La seconda contraddizione su cui si fonda il piano riguarda i suoi numeri. Sia nella dichiarazione del 7 marzo che nelle conclusioni del 17-18 marzo gli Stati membri hanno chiaramente ribadito che l’accordo UE-Turchia non avrebbe comportato per loro nuovi impegni in termini di reinsediamento e ricollocazione. Pertanto, la Commissione ha giocato con i numeri che aveva a disposizione. Per l’anno corrente, è stato fissato un numero massimo di 72.000 posti disponibili per il reinsediamento, utilizzando i rimanenti 18.000 posti destinati al reinsediamento dalla decisione del Consiglio GAI del 20 luglio 2015 e i 54.000 posti supplementari finora inutilizzati (originariamente destinati alla ricollocazione dall’Ungheria) previsti dal piano per la ricollocazione deciso il 22 settembre 2015.

Tuttavia, in base ai dati dell’UNHCR, la media degli arrivi sulle isole greche nel mese di febbraio 2016 è stata di circa 2.000 persone al giorno. Nello stesso mese, i siriani hanno rappresentato il 52% degli arrivi. Possiamo quindi dedurre che nell’ultimo periodo circa 1.000 siriani arrivano ogni giorno sulle isole greche (in netto calo rispetto al periodo agosto-dicembre 2015). Se per ognuno di loro un siriano verrà reinsediato in Europa, i 72.000 posti messi a disposizione basteranno per poco più di due mesi (72 giorni), dunque, ai ritmi attuali, i posti messi a disposizione basteranno solo fino ai primi di giugno. Presumibilmente i leader europei si aspettano fin da subito una netta riduzione degli arrivi giornalieri, ma anche alla luce della contraddizione intrinseca all’accordo descritta sopra, questo non sembra così probabile.

Infine, poiché il piano si applica solo ai nuovi arrivi, non è chiaro cosa accadrà ai 45.000 migranti e rifugiati che, dalla chiusura della rotta balcanica sancita il 7 marzo, sono bloccati in Grecia (più di 12.000 solo nel campo di Idomeni). Forse, per chi tra loro ha nazionalità siriana o eritrea, si cercherà di far funzionare il piano di ricollocazione deciso a settembre, la cui applicazione si è dimostrata finora molto difficoltosa. Per tutti gli altri, afghani ed iracheni in primis, rimane l’incognita.

Questo problema, come gli altri analizzati in questo contributo, andranno presto rivalutati alla prova dei fatti. In particolare, è nostro compito vigilare sulle modalità di implementazione dell’accordo e sulla conformità di queste con la normativa internazionale ed europea. Già a partire da oggi.

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