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Il diritto di cercare asilo ai tempi dell’Aquarius

Daniela Vitiello, Università degli Studi di Firenze

Il lungo peregrinare della nave Aquarius, sospinta dai nuovi venti politici che le hanno negato l’autorizzazione all’ingresso nelle acque interne italiane, è terminato nel porto di Valencia il 17 giugno scorso. La disponibilità offerta dal governo spagnolo all’ingresso dell’imbarcazione in uso alle organizzazioni non governative SOS Mediterranée e Medici senza frontiere ha temporaneamente disinnescato una crisi umanitaria, consentendo alle 629 persone a bordo di sbarcare in un luogo sicuro (per alcuni commenti v. qui, qui e qui).

Dalla ricostruzione dei fatti, come esposti dal Ministro dell’Interno italiano nella seduta pubblica del Senato del 13 giugno, emerge che l’Aquarius aveva raccolto a bordo i migranti salvati durante sei distinti interventi di search and rescue, avvenuti nelle acque prospicienti le coste libiche tra il 5 e il 9 giugno. In alcuni casi, l’operazione di salvataggio era stata condotta per mezzo di natanti italiani, che avevano poi disposto il trasferimento delle persone a bordo dell’Aquarius.

Il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto – organismo che funge da Italian Maritime Rescue Coordination Centre (I.M.R.C.C.) ai sensi della Convenzione di Amburgo del 1979 (v. il DPR 662/94) – aveva ricevuto le richieste di soccorso e provveduto a informare le autorità libiche, ritenute competenti per il coordinamento delle operazioni nella neo-istituita zona SAR libica. Nel silenzio dei libici, l’I.M.R.C.C. di Roma aveva assunto il coordinamento e chiesto a Malta di autorizzare lo sbarco dell’Aquarius, in quanto “luogo sicuro” più prossimo alle coordinate dell’imbarcazione.

Nel frattempo, il 10 giugno i Ministeri di Interno e Infrastrutture italiani disponevano la chiusura dei porti all’Aquarius, che restava in attesa di indicazioni su dove sbarcare, a 35 miglia nautiche dall’Italia e a 27 da Malta. L’11 giugno, mentre navi della Marina militare trasportavano nei porti siculi circa mille migranti soccorsi in mare, giungeva il diniego formale delle autorità maltesi all’ingresso dell’Aquarius nei propri porti, motivato dall’estraneità di Malta all’operazione SAR, avvenuta nella zona SAR libica e coordinata dall’Italia, oltre che dal ricorrente argomento dell’insostenibilità numerica dello sbarco per uno Stato così piccolo.

Dopo diciassette ore di stallo, in cui la sicurezza a bordo dell’Aquarius era stata garantita dalla fornitura di viveri e medicinali attraverso motovedette italiane, nella serata dell’11 giugno veniva formalizzata da parte spagnola l’offerta di un porto sicuro per l’Aquarius, che intraprendeva una lunga traversata, durata ben sei giorni, alla rotta di Valencia. A bordo, però, c’erano solo un centinaio di migranti, gli altri essendo stati tradotti sulle navi italiane Dattilo (Guardia costiera) e Orione (Marina militare), su espressa richiesta del comandante dell’Aquarius.

A dieci giorni di distanza, le reazioni politiche italiane ed europee all’operazione di soccorso condotta dalla nave Lifeline il 21 giugno (v. qui) mostrano che il caso Aquarius non può dirsi affatto chiuso. Il Consiglio europeo attualmente in corso rappresenta, quindi, una tappa cruciale nella ridefinizione degli indirizzi delle politiche europee di immigrazione e asilo, in un senso auspicabilmente coerente con un’equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri. Tale Consiglio offrirà, tra l’altro, l’occasione di un confronto europeo sulla proposta italo-francese di istituire punti di raccolta ed esame delle domande d’asilo nei paesi di origine (su cui v. già la dichiarazione del Commissario Avramopoulos sull’infattibilità, nell’UE, del “modello australiano”; sulle criticità sotto il profilo giuridico v. Liguori).

Un quadro giuridico composito

In attesa di ulteriori sviluppi, l’affaire Aquarius merita la dovuta attenzione, soprattutto in ragione della complessità delle questioni giuridiche attorno alle quali è stata alquanto apoditticamente ricostruita, e difesa sino alle estreme conseguenze, la pretesa di chiusura dei porti italiani.

Come rilevato con immediata efficacia dalla Lettera aperta del Gruppo d’Interesse sul Diritto del mare della SIDI e dalla Dichiarazione dei Magistrati europei per la democrazia e la libertà (MEDEL), si tratta di questioni regolate da un insieme di norme internazionali sul diritto del mare, sul contrasto allo smuggling, sui diritti umani e sul diritto dei rifugiati, integrato e completato dal diritto dell’Unione europea e da quello nazionale.

I due perni di questo insieme normativo sono: l’obbligo consuetudinario di salvaguardia della vita umana in mare, codificato nell’articolo 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che si impone anche alle imbarcazioni private, e il divieto di sbarco in un luogo in cui le persone soccorse in mare corrano un rischio per la propria vita, incolumità e dignità.

Tuttavia, l’obbligo di sbarco in un “place of safety” (POS) è meramente enunciato nelle Convenzioni SAR e SOLAS, che però non ne chiariscono il contenuto precettivo (SAR, parr. 1.3.2 e 3.1.9; SOLAS, reg. V/33, par. 1-1; il riferimento è ai testi emendati nel 2004). Uno sforzo ermeneutico è, quindi, necessario al fine di rifuggire interpretazioni restrittive della nozione giuridica di POS, che risultino in contrasto con una lettura sistematica – e coerente con l’articolo 31, par. 3, lett. c), della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – di quel composito insieme di norme internazionali che regola le operazioni di ricerca e soccorso in mare. Ciò è tanto più necessario alla luce delle linee guida dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO) sul trattamento delle persone soccorse in mare e dei principi relativi alle procedure amministrative per lo sbarco che, pur non essendo vincolanti, svolgono una fondamentale funzione di parametro interpretativo, espressamente riconosciuta nelle Convenzioni SAR (par. 3.1.9) e SOLAS (reg. V/33, par. 1.1).

Da tali obblighi discendono due corollari: in primis, che la traversata delle persone soccorse in mare avvenga in condizioni di sicurezza e si concluda nel più breve tempo possibile; in secundis, che il luogo di sbarco possa essere qualificato, anche alla luce delle informazioni fornite dal capitano, come POS. A questi si aggiunge il dovere di leale cooperazione da parte di tutti gli attori statali coinvolti nell’operazione SAR, volto a evitare situazioni di stallo che, al contempo, aggravino la responsabilità del comandante che ha eseguito il salvataggio e comportino una deviazione significativa dalla rotta originaria dell’imbarcazione di soccorso. A tal fine, gli emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS, ratificati dall’Italia, ma non da Malta, tendono a rafforzare il coordinamento tra lo Stato responsabile per la zona SAR in cui è avvenuto il soccorso e gli Stati eventualmente designati (SAR, par. 3.1.9; linee guida IMO, parr. 2.4, 6.7, 6.12-6.17; principi IMO sulle procedure di sbarco, parr. 2.2 e 2.3).

Le regole sulla cooperazione nell’individuazione del POS devono essere interpretate in buona fede, ma possono incontrare un ostacolo nel potere sovrano degli Stati costieri di negare l’autorizzazione all’ingresso nelle proprie acque interne di navi straniere (art. 25, par. 2, UNCLOS). Vero è, però, che l’esercizio di tale potere deve avvenire nel rispetto delle norme UNCLOS e delle altre regole di diritto internazionale rilevanti (art. 2, par. 3, UNCLOS). Inoltre, un dovere di autorizzare l’ingresso nelle acque interne della nave di soccorso potrebbe ricavarsi dall’assenza di limitazione geografica dell’obbligo di salvaguardia della vita umana in mare (v. SAR, par. 2.1 e SOLAS, reg. V/1-1). Come convincentemente sostenuto (Ratcovich, 2015, p. 5-6), tale lettura trova conferma nel diritto di passaggio inoffensivo, quanto meno in rapporto ai casi in cui l’ingresso nelle acque interne si renda necessario per prestare assistenza a persone, imbarcazioni o aeromobili in distress (art. 18, par. 2, UNCLOS). Analogamente, dall’obbligo di salvaguardia della vita umana in mare è stata derivata un’eccezione alla regola generale di cui all’articolo 25 UNCLOS, volta a riconoscere un diritto di accesso al porto dell’imbarcazione in distress (Moreno-Lax, 2011, p. 219).

A ciò si aggiunge che lo Stato parte della Convenzione di Amburgo, nella cui zona di competenza avviene il soccorso, detiene la responsabilità principale (“primary responsibility”) per il coordinamento dell’operazione SAR, che deve concludersi con lo sbarco delle persone in un POS, previamente individuato in funzione delle specificità del caso di specie, in cooperazione con gli altri Stati a vario titolo coinvolti nell’operazione (SAR, parr. 3.1.9 e 3.1.6.4). Lo sbarco, dunque, non deve necessariamente avvenire in uno dei porti dello Stato che coordina l’operazione SAR, qualora vi sia un luogo sicuro più “idoneo” (il par. 2.3. dei principi IMO sulle procedure di sbarco afferma che lo Stato responsabile per il coordinamento dell’operazione SAR dovrebbe autorizzare l’ingresso della nave di soccorso solo nel caso in cui lo sbarco non possa essere rapidamente organizzato altrove).

Il nesso sbarco-accoglienza-asilo nell’UE e le responsabilità di Malta e Italia

Nella prassi, l’assenza di criteri gerarchici per la determinazione del POS, oltre all’asimmetria degli obblighi, discendente dalla loro collocazione all’interno di emendamenti alle Convenzioni SAR e SOLAS, possono complicare la “presa in carico” delle persone soccorse; anche perché, nella cornice giuridica del sistema comune europeo di asilo, allo sbarco segue la prima accoglienza e l’accesso delle persone bisognose di protezione internazionale alle procedure di determinazione dello status. Peraltro, la Corte di giustizia ha chiarito che l’incompetenza all’esame di una domanda d’asilo, ai sensi del regolamento di Dublino, non può essere addotta dallo Stato membro in cui il richiedente si trova nelle more della presa in carico da parte dello Stato membro competente, al fine di limitare gli obblighi in materia di condizioni minime di accoglienza (Cimade, punti 50, 61).

Il nesso sbarco-accoglienza-accesso all’asilo spiega la contesa tra Italia e Malta. Quest’ultimo Stato ha da sempre negato l’autorizzazione agli sbarchi di migranti soccorsi nella propria estesissima zona SAR, che ha “ereditato” dal Regno Unito, ma che non è in grado di controllare per ovvie ragioni di proporzione geografica (può ricordarsi, ad es., l’episodio della nave commerciale Salamis, riportato nel rapporto The “Left-to-die” Boat, par. 38; più in generale, sulla posizione di Malta rispetto alle Convenzioni SAR e SOLAS v. qui).

Al di là delle responsabilità di Malta, che devono essere valutate anche alla luce della sostanziale acquiescenza mostrata dalla gran parte degli Stati europei e, nel corso dell’ultimo quinquennio, anche dall’Italia, non pare peraltro in linea con le norme sopra richiamate la normalizzazione di una soluzione all’attuale querelle italo-maltese che preveda gli sbarchi in Spagna. Infatti, ciò implicherebbe una consistente deviazione di rotta delle imbarcazioni che svolgono, sempre più spesso in luogo degli Stati, una cruciale funzione nella salvaguardia della vita umana in mare e la cui “immobilizzazione”, attraverso viaggi troppo lunghi, comporterebbe l’impossibilità di stazionare nell’area operativa dei soccorsi.

Per quanto riguarda l’Italia, invece, una responsabilità per il trattamento degradante dei migranti soccorsi dall’Aquarius, conseguente alla prolungata permanenza in mare, in uno stato di incertezza sul porto di sbarco, potrebbe essere ricavata in relazione alle persone condotte a bordo delle navi Orione e Dattilo per concludere il viaggio in Spagna. La Corte di Strasburgo ha, infatti, affermato la giurisdizione extraterritoriale degli Stati parti della CEDU tanto nelle ipotesi di esercizio de jure dei poteri dello Stato della bandiera (v. Hirsi) quanto in quelle in cui è stata rilevata la sussistenza di un controllo effettivo sulle persone a bordo della nave (v. Medvedyev). Per quanto concerne i migranti a bordo di navi private di soccorso, come l’Aquarius, potrebbe essere richiamato il precedente nel caso Women on Waves, in cui la Corte ha presupposto la giurisdizione extraterritoriale portoghese in un caso di diniego di accesso alle acque territoriali, benché in quel caso fosse stata inviata dalle autorità portoghesi una nave militare per impedire l’ingresso della Borndiep in acque territoriali (par. 43). Al contempo, la giurisdizione dell’Italia in relazione alle eventuali violazioni dei diritti convenzionali, avvenute nell’ultima fase di navigazione dell’Aquarius, potrebbe essere affermata in ragione della circostanza che la nave di soccorso sia stata “scortata” a Valencia da due navi italiane.

D’altra parte, quandanche il mero coordinamento della missione di soccorso dovesse rivelarsi inidoneo a stabilire un sufficiente jurisdictional link alla luce del precedente in Al-Skeini (v. Gammeltoft-Hansen – Hathaway, 2015, pp. 268-269), il consolidamento di una prassi di chiusura dei porti, che lasci i migranti soccorsi in mare dalle ONG “in orbita” nel Mediterraneo, e i richiedenti asilo nell’impossibilità di cercare asilo, potrebbe indurre la Corte di Strasburgo ad adottare un’interpretazione evolutiva della nozione di giurisdizione, che consenta una più chiara ricostruzione delle responsabilità dello Stato che coordina a distanza un’operazione SAR condotta da attori privati.

La chiusura dei porti nell’ambito della strategia italiana di esternalizzazione delle frontiere

Lo sviluppo di una prassi di sistematica chiusura dei porti alle ONG potrebbe, quindi, indurre la Corte EDU ad adottare una interpretazione evolutiva della nozione di giurisdizione. Tanto più che la pretesa dell’attuale Ministro dell’Interno segna una discontinuità solo apparente con la precedente gestione del fenomeno migratorio via mare da parte italiana. Già un anno fa, infatti, l’ipotesi di chiusura dei porti era stata lanciata dall’Italia sul tavolo negoziale europeo a mo’ di minaccia recante l’ambizioso fine di ricompattare la latitante solidarietà europea nell’ambito dell’attuazione delle decisioni 1523 e 1601 sulla relocation (v. De Sena e De Vittor, in questo blog; sulla “crisi” della solidarietà europea nell’esperienza della relocation v. Favilli, 2018; sulla base giuridica di cui all’art. 78 TFUE, v. Adinolfi, Articolo 78, in Pocar – Baruffi (a cura di), Commentario breve ai Trattati dell’Unione Europea, 2014, pp. 480 ss.).

La solidarietà europea non ne usciva fortificata – né diverso effetto avrebbe sortito, di lì a poco, la pronuncia della Corte di Lussemburgo nel caso Slovacchia e Ungheria c. Consiglio (per un commento, v. Cherubini e Labayle, 2017). Tuttavia, la levata di scudi italiana veniva riassorbita nel rinnovato sostegno finanziario e istituzionale offerto dalla Commissione, e confermato dal Consiglio GAI di Tallinn, nonché dal successivo Vertice di Parigi, alla realizzazione dei punti chiave della strategia italiana di esternalizzazione delle frontiere.

In primo luogo, l’approfondimento della cooperazione Italia-Libia, con l’intento (inter alia) di offrire supporto al precario governo di Al Sarraj nella creazione di un centro di coordinamento e soccorso marittimo libico (sulle relative preoccupazioni manifestate dall’IMO, v. qui, pp. 2 e 12).

In secondo luogo, l’adozione di un codice di condotta inteso a regolare (rectius, a limitare) l’operato delle ONG impegnate nella ricerca e nel soccorso dei migranti al largo delle coste libiche (v. in generale sull’esternalizzazione, Carella, in questo blog).

Questi sviluppi, rispetto ai quali l’effettiva chiusura del porto di Messina all’Aquarius può considerarsi un epilogo quasi necessario, hanno segnato una frattura giuridica e politica incolmabile con il precedente approccio italiano alle attività di ricerca e soccorso in mare (si pensi all’operazione Mare Nostrum, su cui v. Favilli, in questo blog; De Vittor, 2014). Al contempo, essi delineano un revival, opportunamente aggiornato, di antichi approcci tendenti ad aggirare le responsabilità italiane in materia di protezione internazionale (v. Scovazzi, La tutela della vita umana in mare, con particolare riferimento agli immigrati clandestini diretti verso l’Italia, in Rivista di diritto internazionale, 2005, p. 106 ss.) e a criminalizzare l’assistenza umanitaria prestata dalle ONG in mare, in funzione di deterrente delle partenze (si ricorda il celebre caso della nave Cap Anamur, dell’omonima ONG tedesca, cui nel 2004 l’allora Ministro dell’Interno negò l’autorizzazione all’approdo nel porto di Empedocle, nel tentativo di forzare le autorità maltesi ad assumere la responsabilità per i migranti a bordo; dopo un braccio di ferro durato alcuni giorni, l’imbarcazione fu autorizzata ad attraccare in Italia, per poi essere sequestrata, con l’arresto del comandante per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il processo, durato cinque anni, si concluse con una pronuncia di assoluzione perché il fatto non costituisce reato: v. qui e qui).

L’esternalizzazione basata sul modello dei “pull-backs

È, quindi, utile individuare gli elementi di novità nella politica italiana di esternalizzazione, partendo dalla cooperazione italiana con il governo libico di accordo nazionale. Tale cooperazione, fondata sul Memorandum del febbraio 2017, appare volta alla sperimentazione di un modello di delega integrale a un paese terzo della funzione di controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo centrale, il cui unico precedente europeo è rappresentato dall’attività di pattugliamento del Mediterraneo orientale da parte delle autorità di frontiera turche, in attuazione della Dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016 e della dichiarazione congiunta greco-turca resa al margine del vertice di Izmir dell’8 marzo 2016. Questo modello di esternalizzazione, basato sui c.d. “pull-backs”, rappresenta un’evoluzione di quello fondato sui c.d. “push-backs” e reiteratamente sanzionato dalla Corte di Strasburgo (v. da ultimo, ND e NT c. Spagna, par. 103 ss.). Esso mira a evitare che i migranti soccorsi o intercettati in mare ricadano nella giurisdizione de iure o de facto degli Stati europei e, in ultima analisi, a circoscrivere i casi in cui i centri di coordinamento degli Stati frontalieri dell’Unione debbano assumere la responsabilità per le operazioni SAR (in tal senso, deve interpretarsi il sostegno offerto dall’Italia all’istituzione di una zona SAR libica da parte di un governo che non controlla neppure l’intero territorio statale, su cui v. qui e qui, p. 18).

In altri termini, l’aspirazione degli Stati membri frontalieri, apertamente incoraggiati dall’Unione europea, è quella di aggirare le responsabilità derivanti dal divieto di refoulement e di espulsioni collettive, impedendo ai migranti e ai rifugiati l’attraversamento di un confine internazionale, che è – come noto – condizione necessaria per l’attivazione della protezione che scaturisce tanto dal diritto di Ginevra quanto dalla giurisprudenza della Corte EDU. Il problema è che questa aspirazione cozza vistosamente con l’oggetto e con lo scopo del sistema comune europeo di asilo fondato sugli articoli 78 e 80 TFUE, oltre che sul combinato disposto degli articoli 18, 19 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Tale considerazione dovrebbe incoraggiare la Corte di giustizia – nello stallo della riforma legislativa del sistema comune europeo di asilo – a limitare il proprio self-restraint nella ricostruzione dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione rispetto alla delicata questione del diritto di cercare asilo (in tal senso v., pur con i dovuti distinguo, Qurbani, punti 24-28, e X e X, punti 42-49). Occorrere, in particolare, riconoscere che il viaggio e l’arrivo spontaneo dei richiedenti asilo costituiscono elementi imprescindibili per garantire l’effettività del diritto stesso e che le intese tra Stati membri e paesi terzi volte a impedire le partenze svuotano di qualsivoglia effetto utile il sistema comune europeo di asilo. D’altra parte, se è vero che il protocollo n. 23 sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia di attraversamento delle frontiere esterne, allegato al Trattato di Lisbona, limita espressamente la pre-emption in questo ambito materiale di competenza concorrente, è pur vero che la competenza statale deve essere esercitata in ogni caso nel rispetto del diritto dell’Unione e degli altri accordi internazionali pertinenti.

Eppure, la pervicace retorica del “paese terzo sicuro” ha sinora (e incredibilmente) funzionato da scudo rispetto all’accertamento delle responsabilità dell’Italia e della Grecia per la conclusione di accordi implicanti una delega crescente di responsabilità per il controllo dei flussi in transito verso l’Europa a paesi terzi che non sono parti della Convenzione di Ginevra e della CEDU, come la Libia, o che l’hanno ratificate con riserva, come la Turchia (sulla responsabilità degli Stati europei, v. De Vittor, 2018). La presunzione di sicurezza posta alla base di questi modelli non rientra, naturalmente, tra le presunzioni di sicurezza dei paesi terzi che gli Stati UE possono rendere operanti nell’ambito dell’esame delle domande di protezione internazionale, ai sensi della direttiva procedure (sul punto v. Favilli, 2018). Si tratta piuttosto di una presunzione priva di base giuridica nel diritto UE, operante in via di prassi – e in maniera necessariamente assoluta e indiscriminata – prima che i migranti e i rifugiati in distress entrino in acque internazionali, al fine di giustificare quella che non può che apparire come una forma di refoulement by proxy o di macroscopica lesione del diritto di cercare asilo, ossia di intraprendere la fuga da persecuzioni, tortura, guerra e vessazioni.

La criminalizzazione della solidarietà in mare

 L’obiettivo del contenimento delle partenze spiega l’altro punto chiave della strategia italiana di esternalizzazione, ovvero il condizionamento imposto alle ONG operanti nel Mediterraneo attraverso l’adozione di un Codice di condotta. La solerzia delle ONG nella ricerca e nel soccorso dei migranti a ridosso delle acque libiche può rappresentare un insormontabile ostacolo alla realizzazione dei pull-backs. Per quanto l’Italia continui a foraggiare l’alleato libico, inviando navi ed esperti, e finanziando programmi di formazione e assistenza, l’azione delle ONG finisce sistematicamente per ricondurre i migranti entro la giurisdizione italiana, ristabilendo il nesso funzionale tra salvataggio, accoglienza e radicamento della competenza all’esame della domanda d’asilo che discende dall’applicazione, inter alia, del famigerato regolamento di Dublino (su cui v. Di Filippo, 2018). Di qui la necessità di imporre, alle ONG impegnate nella ricerca e soccorso a largo delle acque libiche, la sottoscrizione di un documento largamente ricognitivo del diritto internazionale vigente (e in buona sostanza sovrapponibile al codice frutto di attività di auto-regolazione delle ONG stesse), ma in cui l’enfasi è posta sull’obbligo di non entrare nelle acque territoriali libiche, di non “intralciare” l’attività SAR della guardia costiera libica, di non inviare segnalazioni luminose volte a rendere nota la propria posizione alle imbarcazioni dei migranti – a parte la larvata minaccia di “misure” in caso di mancata sottoscrizione.

Tra le ONG che non hanno sottoscritto il Codice, in effetti, troviamo curiosamente proprio le due implicate nel caso Aquarius, oltre a Jugend Rettet (la cui imbarcazione Iuventa è sotto sequestro da circa un anno; per un’analisi della relativa vicenda giudiziaria v. Saccucci, 2018; v. anche la richiesta di archiviazione del procedimento a carico di ignoti che trae origine dalle operazioni SAR condotte dalla nave di soccorso Golfo Azzurro nel maggio 2017). Si noti che quanto precede non sta certo a significare che il volontariato privato, impegnato nell’esercizio di una funzione pubblica, come quella della ricerca e del soccorso in mare, non debba essere assoggettato a regole certe, volte a garantire la trasparenza dell’attività condotta e a consentire la reazione dell’ordinamento alla violazione delle norme che regolano l’esercizio dei medesimi poteri da parte dell’autorità pubblica. Anzi, l’accountability è nell’interesse delle stesse ONG, nella misura in cui consente di sgomberare il campo da qualsiasi dubbio circa la possibilità di associazione a delinquere tra le ONG e i trafficanti.

Tuttavia, anche alla luce dei risultati raggiunti dall’indagine conoscitiva del Senato sull’impatto delle attività delle ONG sul controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo, occorre respingere con decisione le tesi portate avanti da una certa parte della magistratura e della politica italiana. Esse appaiono particolarmente perniciose in ragione della logica che vi sottende e che presuppone una “radicale inversione del paradigma valoriale” dello stato di diritto (De Vittor, in questo blog), per cui lo smuggling diviene di fatto un reato accessorio alla migrazione irregolare, il cui contrasto finisce per prevalere persino sugli obblighi del comandante di salvaguardare la vita umana in mare (v. gli artt. 489-490 del codice della navigazione).

Per contro, le prese di posizione di altra parte della magistratura italiana in relazione, rispettivamente, alla repressione del reato di smuggling e alla criminalizzazione dell’attività di ricerca e soccorso, condotta dalle ONG nel Mediterraneo, dovrebbero essere valorizzate. Per quanto attiene al primo profilo, si segnala la decisione del giudice Modica del 7 settembre 2017, in cui l’esimente dello stato di necessità (art. 54 del codice penale) è stata applicata al caso di migranti divenuti “scafisti involontari” perché costretti dietro minaccia dell’organizzazione criminale di stanza in Africa a prendere il timone dell’imbarcazione destinata a trasportare i migranti in Italia (sul diverso profilo del ricorso allo stato di necessità, nella giurisprudenza della Cassazione, per l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei facilitatori, v. Annoni, in questo blog).

Per quanto attiene, invece, alla criminalizzazione dell’attività SAR condotta dalle ONG, è particolarmente interessante ai nostri fini l’ordinanza adottata l’11 maggio 2018 dal Tribunale di Ragusa (est. Manenti), che ha confermato il dissequestro della nave Open Arms della ONG spagnola Proactiva, che era ferma da un anno nel porto di Pozzallo (per un’analisi v. De Vittor, in corso di stampa, DUDI, 2/2018). Il GIP ha motivato la propria decisione sottolineando che, nel rendersi responsabile di un’azione di soccorso di migranti nella zona SAR libica, l’Open Arms avrebbe agito in ottemperanza all’esimente dello stato di necessità, la situazione di distress scaturendo non già da un pericolo attuale per la vita delle persone a bordo, bensì dal rischio che i migranti fossero ricondotti in un luogo non sicuro – ovvero, in Libia, ove le condizioni nei campi di detenzione degli stranieri sono state qualificate dalla Corte d’assise di Milano come tortura (v. qui).

Al netto delle questioni preliminari sulla dubbia soggettività internazionale della Libia di Al Sarraj, tali considerazioni inducono, in ogni caso, a negare effettività alla zona SAR libica, nella misura in cui la Libia non è in grado di rispettare gli obblighi internazionali che discendono dalla Convenzione SAR, ovvero di provvedere all’identificazione sul proprio territorio di un POS per i migranti raccolti in mare. E quandanche la Libia istituisse un proprio centro di coordinamento dei soccorsi al fine di richiedere l’autorizzazione allo sbarco in POS di altri Stati parti della Convenzione SAR (circostanza che peraltro vanificherebbe la ratio dei pull-backs), ciò non potrebbe ritenersi conforme agli obblighi pattizi assunti, data la documentata aggressività della guardia costiera libica. Infatti, la stessa imbarcazione su cui i migranti in distress sono tradotti deve costituire (seppur temporaneamente) un luogo sicuro, ovvero un POS “temporaneo” (v. amplius, Papanicolopulu, 2016, p. 500).

Se queste considerazioni offrono una chiave di lettura efficace della possibile risposta giuridica alle pretese dell’attuale Ministro dell’Interno, di ritirare le navi della Marina militare dalla zona SAR italiana, per lasciare più agio alle autorità libiche nello svolgimento del proprio “lavoro”, esse al contempo re-invertono il paradigma valoriale, rimettendo al centro la sicurezza umana in mare, in luogo della sicurezza delle frontiere. In tal senso, sono pienamente coerenti con la normativa dell’Unione rilevante nell’ambito della parallela attività di pattugliamento congiunto coordinata dall’Agenzia Frontex (v. il regolamento sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne n. 656/2014, cons. 8 e 14, art. 2, par. 12, art. 4, art. 9, art. 10, e il nuovo regolamento istitutivo dell’Agenzia n. 2016/1624, cons. 45-47, art. 4, lett. b), art. 16, par. 3, lett. j)).

Il ruolo dell’Agenzia della Guardia di frontiera e costiera europea

Quest’ultimo richiamo consente di introdurre il terzo punto chiave della strategia italiana di contenimento dei flussi. Si tratta della c.d. “regionalizzazione” dell’accoglienza dei migranti soccorsi in mare nell’ambito delle operazioni marittime coordinate dall’Agenzia della Guardia di frontiera e costiera europea (Frontex), con il conseguente superamento dell’automatismo dello sbarco in Italia (che era la regola dal 2014, nell’ambito della precedente operazione Triton).

Dalle scarne informazioni rese note da Frontex emerge, infatti, che nel piano operativo di Themis, l’operazione marittima lanciata a febbraio 2018 nel Mediterraneo centrale, l’Italia continua a essere qualificata come “Stato membro ospitante”, ma viene espunto l’obbligo di sbarco in Italia dei migranti soccorsi in mare nell’ambito delle attività interdittive dell’immigrazione irregolare condotte dalle navi degli Stati membri partecipanti. Di conseguenza, l’individuazione del POS nelle operazioni di search and rescue condotte nel Mediterraneo centrale dagli Stati membri dell’Unione, sotto l’egida di Frontex, dovrà essere operata di volta in volta dal centro di coordinamento del soccorso competente, considerando la prossimità al punto in cui è avvenuto il salvataggio.

In questi casi, eventuali situazioni di stallo dovranno essere risolte alla luce delle disposizioni del regolamento sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne, che stabilisce con chiarezza l’obbligo di specificare, nel piano operativo dell’operazione marittima, i dettagli relativi alla cooperazione tra gli Stati membri partecipanti all’operazione SAR con il centro di coordinamento del soccorso competente per l’individuazione di un luogo sicuro, come pure il diritto di accesso ai porti dello Stato membro che ospita l’operazione marittima da parte dell’imbarcazione di soccorso, in assenza di altre situazioni praticabili (regolamento 656/2014, art. 10). Inoltre, la cooperazione inter-statale, all’interno della cornice delle operazioni marittime coordinate da Frontex, dovrà a fortiori essere rispettosa del principio di solidarietà e del dovere di più stretta collaborazione tra Istituzioni e Stati membri, come interpretato dalla Corte di giustizia (v. Commissione c. Svezia, punto 73).

Alla luce di tali considerazioni, il rafforzamento di Frontex, auspicato dagli Stati membri al fine di rendere sempre più impermeabili le frontiere esterne dell’Unione, potrebbe divenire il cavallo di Troia delle politiche di esternalizzazione – purché, s’intende, l’esercizio del controllo giurisdizionale e democratico sull’attività dell’Agenzia e degli Stati membri coinvolti nelle operazioni congiunte sia reso possibile ed effettivo.

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