diritto dell'Unione europea

Il lato positivo: Commissione c. Polonia e l’inizio di una fase per la tutela dello stato di diritto nell’Unione Europea

Matteo Bonelli, Università degli Studi di Milano

Per un lungo periodo, le risposte dell’Unione europea alle cosiddette ‘crisi costituzionali’ sono state generalmente considerate insufficienti e inefficaci: le istituzioni non hanno saputo trovare risposte adeguate al consolidamento del potere nelle mani di Viktor Orban e Fidesz in Ungheria e alla ‘cattura’ dell’ordinamento giudiziario polacco da parte della maggioranza di governo. Solo negli ultimi mesi, con l’attivazione delle procedure dell’articolo 7(1) TUE, prima da parte della Commissione, nei confronti della Polonia, e poi da parte del Parlamento europeo, nei confronti dell’Ungheria, l’Unione ha finalmente dimostrato la volontà di prendere una posizione più decisa; ma anche queste iniziative hanno avuto un peso più significativo sul piano simbolico che su quello concreto, e non hanno prodotto un cambiamento sostanziale delle politiche dei due Stati membri.

Ci sono però finalmente notizie positive. La recente decisione della Corte di Giustizia nella procedura di infrazione riguardante parte delle riforme del sistema della Corte Suprema polacca dimostra come l’Unione europea possa essere incisiva, qualora agisca in modo deciso, puntuale e ben coordinato, sfruttando al pieno le possibilità previste dai Trattati, come già accaduto della pronuncia della Corte sul caso delle ‘foreste polacche’ e nelle due ordinanze cautelari che hanno preceduto la decisione finale nel caso della Corte Suprema. Nella sentenza del 24 giugno 2019, la Corte di Giustizia ha riscontrato una violazione dell’articolo 19 TUE rispetto a entrambi i profili contestati dalla Commissione: da un lato, la Corte ha concluso che la decisione di ridurre l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema lede il principio dell’inamovibilità del giudice; dall’altro, la facoltà accordata al Presidente della Repubblica di concedere ai giudici di continuare il loro mandato viola l’aspetto ‘esterno’ del principio di indipendenza dei giudici (sulla distinzione tra l’aspetto esterno e quello interno, si veda il caso Wilson).

L’intervento della Commissione e della Corte nel caso della Corte Suprema polacca, come si vedrà, ha già prodotto risultati concreti, e una serie di altre procedure già aperte offriranno nuove opportunità di tutelare lo stato di diritto in Polonia e nell’Unione. La nuova giurisprudenza sull’articolo 19 TUE, se inquadrata nel quadro complessivo dei recenti sforzi compiuti dalle istituzioni europee, potrebbe quindi segnare l’inizio di una nuova, più positiva, fase di tutela dei valori fondamentali europei.

Dopo aver sintetizzato la decisione della Corte di Giustizia, questo contributo riflette su due elementi in particolare: in primo luogo, sulla profonda differenza che intercorre tra la decisione in Commissione c. Polonia e quella precedente nel caso Commissione c. Ungheria anch’essa relativa al pensionamento anticipato di alcuni giudici nazionali; a seguire, sul fondamentale ruolo che l’articolo 19 TUE pare poter rivestire nella battaglia a tutela del ‘rule of law’ negli Stati membri. Una considerazione finale è poi dedicata alla necessità di intraprendere azioni politiche che supportino le procedure giuridiche di fronte alla Corte di Giustizia.

La decisione della Corte di Giustizia

La riforma del regime pensionistico dei giudici della Corte Suprema polacca si inserisce nel quadro delle riforme dell’ordinamento giudiziario, riguardanti anche il sistema delle corti ordinarie e il consiglio nazionale della magistratura, che Diritto e Giustizia, il partito di governo polacco, ha portato avanti tra il 2017 e il 2018. In particolare, le norme polacche contestate dalla Commissione avrebbero costretto al pensionamento anticipato ben ventisette degli allora settantadue giudici della Corte Suprema (il numero dei giudici è nel frattempo aumentato, a seguito di altre riforme del sistema che finiranno anch’esse di fronte alla CGUE), inclusa la Presidente della Corte. Per evitare il pensionamento e continuare il loro mandato, i giudici della Corte avrebbero dovuto presentare una richiesta al presidente della Repubblica, al quale si lasciava piena facoltà nel decidere se accogliere o meno tali domande.

La Commissione ha seguito con grande preoccupazione l’adozione della nuova normativa e deciso immediatamente di aprire, nel luglio 2018, una procedura di infrazione ai sensi dell’articolo 258 TFUE, basata, per la prima volta, su una presunta violazione dell’articolo 19 TUE, letto in combinazione con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali. Bruxelles ha poi condotto la procedura con grande rapidità: dopo il parere motivato dell’agosto 2018, la Commissione ha portato il caso di fronte alla Corte di Giustizia già in ottobre, chiedendo che la Corte si pronunciasse anche con provvedimenti provvisori, poi effettivamente adottati in due ordinanze dell’ottobre e dicembre 2018. Dopo le conclusioni dell’Avvocato Generale Tanchev, la decisione finale della Corte è arrivata nel giugno 2019.

Nella sua sentenza, la Corte di Giustizia inizia rigettando, sulla base della sua giurisprudenza costante in materia di procedure di infrazione (l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in base alla situazione esistente al termine della scadenza indicata nel parere motivato, e qualsiasi intervento successivo non può essere valutato dalla Corte) l’argomento presentato dal governo polacco sull’inammissibilità dell’azione a seguito delle sopravvenute modifiche alla legge sulla Corte Suprema, adottate nel dicembre 2018 (paragrafi 30 e 31). La Corte si sofferma poi sull’applicabilità e portata dell’articolo 19 TUE. Se, da un lato, la Corte ammette che l’organizzazione della giustizia sia una competenza nazionale (paragrafo 52), dall’altro, chiarisce che tale competenza deve essere esercitata in accordo con gli obblighi imposti dal diritto dell’Unione. Facendo ampi riferimenti ai recenti casi ASJP, Achmea e LM, nei quali la Corte di Giustizia ha contribuito a chiarire e parzialmente ridefinire la struttura del sistema giudiziario europeo, soprattutto con riferimento al ruolo dei giudici nazionali e del meccanismo del rinvio pregiudiziale, la Corte conferma l’obbligo di garantire ‘che gli organi facenti parte, in quanto «organo giurisdizionale» nel senso definito dal diritto dell’Unione, del suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva’ (paragrafo 55). Dal momento che la Corte Suprema polacca rientra senza dubbio tra le corti che possono essere chiamate ad applicare o interpretare il diritto dell’Unione, ‘è di primaria importanza preservare l’indipendenza di detto organo’ (paragrafo 57), e quindi le riforme che la riguardano possono essere valutate sulla base dell’articolo 19 TUE.

Come già anticipato, la Corte ha accettato entrambi gli argomenti presentati dalla Commissione. Per quanto riguarda il primo – la violazione del principio di inamovibilità del giudice – la Corte considera, in primo luogo, che la riforma del sistema della Corte suprema è ‘idonea a generare preoccupazioni legittime quanto al rispetto del principio di inamovibilità dei giudici’ (paragrafo 78), dal momento che costringe alcuni giudici a concludere il loro mandato prematuramente. Una misura di questo tipo, prosegue le Corte, potrebbe essere astrattamente giustificata solo se adottata per realizzare un obiettivo legittimo, se proporzionata rispetto all’obiettivo, e ‘purché non sia atta a suscitare legittimi dubbi nei singoli quanto all’impermeabilità dell’organo giurisdizionale interessato rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti’ (paragrafo 79). Secondo la Corte, però, la riforma polacca non rispetta nessuna di queste condizioni, e quindi viola il principio di indipendenza dei giudici affermato dall’articolo 19 TUE. Per notare uno dei passaggi più interessanti ed esplicitamente critici della situazione polacca, nel paragrafo 82, facendo riferimento anche al lavoro della Commissione di Venezia sul caso polacco (si veda in particolare il parere n. 904/2017) la Corte arriva a suggerire che le misure adottate delle autorità polacche non perseguissero davvero obiettivi in materia di politica dell’occupazione, come dichiarato dal governo polacco, ma puntassero ‘alla rimozione di un certo gruppo di giudici di tale organo giurisdizionale’.

Relativamente al secondo profilo contestato dalla Commissione – la violazione del principio di indipendenza ‘esterna’ della Corte Suprema che deriva dall’assegnare al Presidente della Repubblica la facoltà di prolungare il mandato dei giudici della Corte – la valutazione dei giudici di Lussemburgo è ancora più semplice e allo stesso tempo incisiva. La Corte di Giustizia si concentra in particolare (paragrafo 113) sull’assenza di condizioni e procedure precise che illustrino come il Presidente della Repubblica possa e debba esercitare tale funzione. Anche l’intervento del Consiglio nazionale della magistratura, chiamato a esprimere un parere sulle possibili estensioni dei mandati, non è sufficiente a garantire un quadro di sufficiente obiettività. Anche su questo secondo punto, quindi, la Corte conclude affermando una violazione dell’Articolo 19 TUE.

Il caso polacco e il caso ungherese: similitudini e differenze

Come noto, la sentenza appena discussa non è il primo caso in cui la Corte di Giustizia è stata chiamata a decidere su misure nazionali di pensionamento anticipato dei giudici. Già nel 2012, la Corte si pronunciò, sempre nel quadro di una procedura di infrazione, su una serie di misure adottate dalle autorità ungheresi e legate alle riforme costituzionali approvate tra il 2011 e il 2012. Secondo la Corte, tali misure violavano la direttiva 2000/78 e in particolare il principio di non discriminazione sulla base dell’età. Questo precedente è anche citato nella decisione in Commissione c. Polonia del giugno 2019, al paragrafo 91: la Corte fa riferimento al caso ungherese per ricordare come l’assenza di misure transitorie non soddisfi il principio di proporzionalità.

Nonostante le somiglianze fattuali e i riferimenti, ci sono profonde differenze tra la prima e la seconda decisione, anche e soprattutto in materia di effettività dell’intervento europeo. In primo luogo, nel caso polacco, la violazione riscontrata è quella dell’Articolo 19 TUE, e dei principi di inamovibilità e indipendenza dei giudici ivi contenuti, e non la direttiva sulla parità di trattamento. Benché la preoccupazione alla base della procedura di infrazione sia quasi identica – evitare che le autorità nazionali possano espellere dall’ordinamento giudiziario giudici considerati scomodi e sostituirli con personale più controllabile – il risultato ottenuto è radicalmente diverso. Nel caso ungherese, le autorità ebbero l’opzione di rimediare alla violazione della direttiva semplicemente offrendo una compensazione monetaria ai giudici già pensionati (o in alternativa reintegrandoli nel sistema, ma senza garanzie che potessero ritornare alla posizione precedente). In quello polacco la richiesta europea è più incisiva e colpisce più in profondità le radici e il merito della riforma: la Polonia è infatti chiamata a garantire tout court l’indipendenza della Corte Suprema, garantendo che i giudici possano terminare i loro mandati senza ostacoli.

La differenza non si deve solo alla diversa base giuridica delle due procedure, ma anche alle misure adottate prima del giudizio finale della Corte di Giustizia e in generale alla rapidità e decisione con cui la Commissione ha condotto la fase pre-contenziosa. In primo luogo e come già anticipato, la Commissione ha agito ai sensi dell’articolo 258 TFUE con molta prontezza, ancora prima che la legge polacca entrasse formalmente in vigore. Ha poi condotto la procedura con rapidità e portato il caso di fronte alla Corte di Giustizia in meno di tre mesi dall’apertura della procedura. In quel momento ha poi compiuto una scelta fondamentale: presentare alla Corte una richiesta di provvedimenti provvisori ex Articolo 279 TFUE, al fine di evitare una situazione di fait accompli nella quale i giudici della Corte Suprema fossero già stati rimpiazzati da altro personale. A sua volta, la Corte di Giustizia ha supportato la Commissione attraverso le due ordinanze di ottobre e dicembre, chiedendo alle autorità polacche di restaurare la situazione precedente all’entrata in vigore della riforma, consentendo quindi ai giudici di continuare a esercitare le proprie funzioni.

Ancora prima della sentenza finale della Corte di Giustizia, le due ordinanze avevano di fatto già costretto la Polonia a modificare le norme contestate. La Corte Suprema stessa aveva concesso ai suoi giudici di continuare il proprio mandato, e poi, con una legge del dicembre 2018, il parlamento polacco aveva modificato il regime legislativo in conformità con l’ordinanza della Corte di Giustizia. In tal senso, la sentenza del giugno 2019 non fa altro che confermare in via definitiva la situazione che si era già venuta a creare grazie agli interventi precedenti. Per concludere: se nel caso ungherese l’intervento europeo non era di fatto riuscito a garantire l’indipendenza dell’ordinamento giudiziario, ma aveva semplicemente accertato una violazione di norme di diritto secondario europeo, nel caso polacco, almeno per quanto riguarda la Corte Suprema, la Commissione e la Corte di Giustizia sono riuscite a realizzare l’obiettivo di proteggere i giudici polacchi e in ultimo il ruolo della Corte Suprema come corte di diritto europeo.

Un nuovo strumento: l’articolo 19 TUE

La decisione della Corte di Giustizia sottolinea l’importanza dell’articolo 19(1) TUE come strumento di tutela dello stato di diritto nell’Unione europea. Al secondo paragrafo, la norma afferma che “Gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. Introdotto dal Trattato di Lisbona, l’articolo 19 non appariva un radicale cambiamento del sistema, ma essenzialmente una conferma della giurisprudenza della Corte di Giustizia (da Simmenthal in avanti) sul ruolo delle corti nazionali nel sistema giuridico europeo.

L’innovativa interpretazione – sia per quanto riguarda il campo di applicazione, sia relativamente al contenuto sostanziale della norma – offerta dalla CGUE nel caso dei ‘giudici portoghesi’ (ASJP) ha però cambiato lo scenario. Grazie all’articolo 19, la Corte di Giustizia ha oggi la possibilità di valutare la compatibilità con il diritto europeo di qualsiasi norma nazionale che vada potenzialmente a interferire con l’indipendenza di quelle corti nazionali chiamate ad applicare e interpretare il diritto dell’Unione. Come è evidente, questa rappresenta una significativa estensione del mandato della Corte e apre nuove strade per garantire l’indipendenza delle corti e quindi lo stato di diritto nell’Unione. Dopo aver affermato il principio in due casi precedenti (dopo ASJP, in Escribano Vindel), nei quali però la Corte concludeva che le norme nazionali in questione non violassero i requisiti posti dall’articolo 19, nella sentenza Commissione c. Polonia la Corte ha compiuto il passo successivo, accertando per la prima volta una violazione di tale norma. In tal senso, la sentenza della Corte serve a dare concreta manifestazione al potenziale dell’articolo 19.

Va poi aggiunto un elemento ulteriore. Nel suo ricorso, la Commissione aveva contestato le norme polacche anche con riferimento all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, che sancisce il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. La Corte, come affermato anche dall’Avvocato Generale Tanchev (paragrafi da 52 a 60, e poi 65-67), ha valutato le norme nazionali solo sulla base dell’articolo 19 TUE (paragrafo 59). Ciò conferma quanto già suggerito nella sentenza sui giudici portoghesi in merito al diverso campo di applicazione dell’Articolo 19 e della Carta: in breve, il primo si applica anche a situazioni non coperte dalla seconda. Più in generale, la portata dell’art. 19 sembra essere più ampia di qualsiasi altra previsione di diritto dell’Unione, ad eccezione solo degli articoli 2 e 7 TUE che restano indifferenti a qualsiasi distinzione tra situazioni regolate dal diritto UE e non. Tuttavia, la diversa applicabilità degli articoli 19 e 47 non produce una differenza significativa a livello sostanziale, dal momento che la Corte ha allineato il contenuto delle due norme, affermando che l’articolo 19 stesso obbliga gli Stati membri a garantire l’indipendenza della corte nazionali, benché il testo della disposizione non faccia alcun riferimento esplicito a tale principio.

I prossimi passaggi

La procedura di infrazione sul pre-pensionamento dei giudici della Corte Suprema è forse l’iniziativa più simbolicamente rilevante intrapresa dalla Commissione, ma certo non l’unica. Proprio nelle ultime settimane, l’Avvocato Generale Tanchev ha pubblicato le sue conclusioni in un’altra procedura di infrazione Commissione c. Polonia, che riguarda la riforma del regime delle corti ordinarie, suggerendo anche in questo caso che sussista una violazione dell’articolo 19 TUE. Va poi sottolineato che le stesse corti polacche si sono dimostrate estremamente attive, operando una serie di rinvii pregiudiziali alla Corte di Giustizia su vari aspetti delle riforme dell’ordinamento giudiziario, anch’essi incentrati sull’articolo 19 TUE. Di nuovo, l’Avvocato Generale Tanchev si è espresso sui primi rinvii pregiudiziali proprio pochi giorni dopo la sentenza della Corte, concludendo che le norme polacche in questione siano anch’esse incompatibili con l’Articolo 19. Infine, una nuova procedura di infrazione sul regime disciplinare e la nuova camera separata della Corte Suprema è stata attivata negli ultimi mesi.

Una considerazione finale. Con la decisione in Commissione c. Polonia, la Corte di Giustizia ha dimostrato di poter dare un contributo fondamentale alla battaglia a tutela dello stato di diritto nel caso polacco. In aggiunta agli altri casi appena menzionati, la Corte sarà anche chiamata nei prossimi mesi a pronunciarsi su alcuni significativi casi che riguardano l’Ungheria, inclusa una procedura di infrazione sulla ‘Legge sull’Insegnamento Superiore’ che ha di fatto costretto la Central European University a trasferire parte dei suoi corsi da Budapest a Vienna. È però difficile pensare che la via giurisdizionale possa, da sola, risolvere le crisi costituzionali in atto nei due paesi. In fondo, la pur fondamentale decisone sulla Corte Suprema affronta solo uno dei diversi profili critici delle riforme polacche, e necessariamente non può arrivare a coprire le radici profonde della crisi costituzionale, ma solo una sua manifestazione specifica. Gli sforzi politici della Commissione, del Consiglio e del Parlamento, anche tramite le procedure dell’articolo 7, restano egualmente necessari. Come anche confermato dall’Avvocato Generale Tanchev nelle sue conclusioni nel caso discusso in questo contributo ‘l’articolo 7 TUE e l’articolo 258 TFUE istituiscono procedure separate e possono essere invocati simultaneamente’ (paragrafo 50), e questo è perfettamente logico, dal momento che i due meccanismi svolgono funzioni diverse – accertare una violazione, o un rischio di violazione, grave e persistente dei valori fondamentali dell’Unione, per quanto riguarda l’articolo 7, o di una violazione di uno specifico obbligo derivante dai trattati, nella procedura di infrazione – e hanno quindi in ultimo natura complementare. Dopo i successi in Lussemburgo, pare quindi fondamentale rinforzare la pressione politica tra Bruxelles e Strasburgo.

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Matteo Bonelli

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