Stickydiritto dell'Unione europea

Nuova condanna per la Polonia: la legge che «imbavaglia» i giudici è incompatibile con il diritto dell’Unione

Silvia Giudici (Università degli Studi di Torino)

1. Il 5 giugno 2023, la Corte di giustizia è tornata ad esprimersi sul tema del rispetto dello stato di diritto in Polonia, valutando la compatibilità con il diritto dell’Unione delle riforme introdotte dalla cosiddetta «legge di modifica» del 2019, con la quale sono state emendate la legge sull’organizzazione degli organi giurisdizionali ordinari, la legge sulla Corte suprema e altre leggi sull’ordinamento giudiziario.

In breve, la sentenza Commissione c. Polonia (Indépendance et vie privée des juges) ha sancito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una serie di disposizioni della «legge di modifica» polacca di cui si dirà in seguito (per ulteriori commenti alla sentenza v. Pech 2023 e Taborowski e Filipek). La Corte ritiene che queste norme siano suscettibili di essere utilizzate per esercitare pressioni sugli organi giurisdizionali nazionali. Di conseguenza, i giudici polacchi sarebbero dissuasi dal valutare, anche per il tramite dello strumento del rinvio pregiudiziale, il rispetto dei requisiti derivanti dagli articoli 19 TUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che mirano a tutelare il diritto a un equo processo e richiedono che un singolo possa adire un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge. Inoltre, la Corte sostiene che la legge polacca non tuteli i diritti alla protezione dei dati e della vita privata di cui i giudici godono in virtù dell’applicazione della Carta e del Regolamento generale sulla protezione dei dati, cosiddetto GDPR (Regolamento 2016/679).

Questo contributo offre un sintetico quadro generale relativo all’adozione della legge contestata e alle vicende intercorse prima dell’emissione della sentenza, si sofferma poi su alcuni elementi chiave del ragionamento della Corte nella sentenza e propone infine alcuni spunti di riflessione più generali sul contrasto alla regressione nella tutela dello stato di diritto in Polonia.

2. Come si è detto, la causa C-204/21 si inserisce all’interno della più ampia e dibattuta questione del contrasto da parte dell’Unione alla crisi nella tutela dello stato di diritto in alcuni suoi Stati membri (in generale su tale azione di contrasto v., ad es., Rossi, Mastroianni, Rosanò e Villani, mentre per una ricostruzione critica della vicenda polacca v. Pech, Wachowiec e Mazur).

In particolare, la legge polacca sulla quale verte la sentenza, soprannominata in maniera sprezzante «legge bavaglio» dalla Presidente della Corte suprema polacca, che pure si è espressa in senso contrario a tale riforma, è stata adottata poco dopo la pronuncia nel caso A.K. c. Krajowa Rada Sądownictwa e CP e DO c. Sąd Najwyższy, con la quale la Corte di giustizia ha esplicitato i criteri sulla base dei quali un giudice nazionale è tenuto a valutare l’indipendenza e l’imparzialità degli organi giurisdizionali e ha indicato la disapplicazione delle disposizioni del diritto interno contrastanti, nel caso in cui tali requisiti non fossero soddisfatti. Come si vedrà meglio di seguito, le modifiche introdotte sono atte, di fatto, a impedire ai giudici polacchi di dare attuazione alla sentenza nel caso A.K. summenzionato (v. Festa, p. 159 ss).

La pronuncia qui in analisi è il risultato ultimo di una procedura di infrazione iniziata dalla Commissione nell’aprile 2020, sebbene il ricorso davanti alla Corte di giustizia sia stato presentato solo nell’aprile 2021. Già precedentemente, la Corte si era espressa, in particolar modo nella sentenza del 15 luglio 2021 Commissione c. Polonia (Régime disciplinaire des juges), nel senso di ritenere incompatibile con il diritto dell’Unione il regime disciplinare applicabile ai giudici polacchi. La stessa pronuncia aveva anche dichiarato che la sezione disciplinare della Corte suprema non offriva adeguate garanzie di indipendenza e imparzialità. La nuova pronuncia Commissione c. Polonia (Indépendance et vie privée des juges) riprende alcune statuizioni di detta sentenza e mette in luce come ulteriori aspetti del regime applicabile ai giudici polacchi non siano compatibili con i requisiti previsti dal diritto dell’Unione per garantire il rispetto dello stato di diritto.

Per fornire un quadro più completo della vicenda, preme segnalare che, ancor prima dell’emissione della sentenza, la Commissione aveva richiesto e ottenuto l’applicazione di misure cautelari nei confronti della Polonia (ordinanza del 14 luglio 2021). Lo stesso giorno, la Corte Costituzionale polacca reagiva dichiarando che la Corte di giustizia non fosse competente ad adottare questa decisione (per un commento v. Polanski). A seguito di questa e di un’altra sentenza dell’ottobre 2021, la Commissione avviava una nuova procedura di infrazione. Al tempo stesso, la Polonia veniva condannata al pagamento di 1 000 000 euro al giorno per non aver posto in essere le misure provvisorie ordinate dalla Corte (ordinanza del 27 ottobre 2021). Ad aprile 2023, la Corte rilevava che la Polonia avesse adottato provvedimenti per adeguarsi alle pronunce, ma solo in maniera parziale, ottenendo così una riduzione dell’entità della penalità di mora (ordinanza del 21 aprile 2023).

3. Venendo ora alla sentenza in esame, a titolo preliminare, la Corte ribadisce la propria competenza a valutare la compatibilità della cosiddetta «legge di modifica» polacca con il diritto dell’Unione. Contrariamente a quanto sostenuto dal governo polacco, né il principio di attribuzione né l’articolo 4, par. 2, TUE, secondo cui l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, sono atti a escludere la giurisdizione della Corte (punto 63). La competenza nazionale nel definire il proprio assetto costituzionale trova, infatti, una limitazione nel rispetto degli obblighi di cui agli articoli 2 e 19 TUE. La sentenza pone inoltre in evidenza un contrasto tra le posizioni della Corte di giustizia e della Corte Costituzionale polacca. Secondo quest’ultima il giudice dell’Unione non sarebbe competente a valutare l’indipendenza degli organi giurisdizionali nazionali. La Corte di giustizia risponde ribadendo che il principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno richiede anche a una corte nazionale di simile rango di adeguarsi alle decisioni e all’interpretazione delle disposizioni di diritto dell’Unione dato da quest’ultimo (punto 79).

La prima questione affrontata nella sentenza riguarda le competenze attribuite alla sezione disciplinare della Corte suprema in merito all’adozione di un’ampia varietà di provvedimenti disciplinari diretti ai giudici polacchi, suscettibili di avere un forte impatto sulla vita professionale e privata di questi. Tra le misure contestate rientrano l’apertura di indagini penali nei confronti dei magistrati, la disposizione del loro arresto, la modifica in maniera peggiorativa della loro retribuzione e l’imposizione dell’obbligo a un pensionamento anticipato involontario. Il giudice dell’Unione ricorda che, ai sensi dell’articolo 19 TUE, è fondamentale evitare che i poteri sanzionatori di cui dispongono i membri della sezione disciplinare siano utilizzati per esercitare forme di influenza e controllo politico sui giudici nazionali. Di conseguenza, tale norma richiede la previsione di garanzie atte a evitare un uso indebito del sistema, da cui deriva la necessità di scongiurare il rischio che i provvedimenti disciplinari non siano adottati da un organo indipendente (punti 95-100). Riprendendo i propri precedenti sulla mancanza di indipendenza della sezione disciplinare, la Corte sancisce che tali assicurazioni non sono presenti nel regime disciplinare polacco, il quale si pone pertanto in violazione dell’articolo 19 TUE (punto 102).

Il secondo punto sul quale si concentra l’attenzione della Corte è la scelta del governo polacco, poi approvata dal Parlamento, di considerare una serie di fattispecie come infrazioni disciplinari a carico dei giudici. In primo luogo, sarebbero ritenute tali «atti o omissioni idonei a ostacolare o compromettere seriamente il funzionamento di un’autorità giudiziaria», nonché gli «atti che mettono in discussione l’esistenza del rapporto di lavoro di un giudice, l’efficacia della nomina di un giudice o la legittimazione di un organo costituzionale della Repubblica di Polonia» (art. 72, par. 1, della legge sulla Corte suprema). In secondo luogo, sulla base dello stesso articolo, anche una «violazione manifesta e flagrante delle disposizioni di legge» sarebbe da classificarsi quale infrazione disciplinare. Quanto alla prima tipologia di infrazioni, l’aspetto che desta maggiore preoccupazione riguarda la formulazione in termini eccessivamente vaghi di dette condotte, che si prestano a far ritenere che un magistrato polacco commetta un’infrazione disciplinare ogni qualvolta esamini se un giudice o un organo giurisdizionale nazionale rispetti i requisiti che consentono di ritenerlo imparziale, indipendente e precostituito per legge, secondo quanto deriva dagli articoli 19 TUE e 47 della Carta (punto 137). Al contempo, la sentenza individua anche una violazione dell’articolo 267 TFUE da parte delle norme nazionali in parola, dal momento che queste permetterebbero di contestare un’infrazione disciplinare in capo a un magistrato polacco nel caso in cui questi sottoponga un quesito pregiudiziale alla Corte di giustizia riguardante l’indipendenza, l’imparzialità dei giudici, nonché la nozione di tribunale precostituito per legge (punto 153). Per quanto riguarda il tema delle infrazioni disciplinari a seguito di una violazione manifesta e flagrante di regole di diritto, nella sentenza, la Corte opera un riferimento ad una sua precedente pronuncia, riproponendo argomentazioni simili a quelle pocanzi esaminate e giungendo, di fatto, alla stessa conclusione elaborata relativamente alla prima tipologia di infrazioni.

Il tema dell’eccessiva vaghezza nella formulazione delle disposizioni della «legge di modifica» viene in rilievo anche quando la Corte esamina la terza questione, strettamente legata alla precedente. Con tale censura, la Commissione aveva contestato l’introduzione da parte delle nuove norme nazionali di un divieto a mettere in discussione la legittimità degli organi costituzionali e giurisdizionali dello Stato, nonché di accertare o valutare la legittimità della nomina di un giudice e dei poteri che ne derivano. Questi articoli proibirebbero ai magistrati nazionali di esaminare se il diritto a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge sia garantito, nonostante tale valutazione costituisca un obbligo ai sensi degli articoli 19 TUE e 47 della Carta (punti 226-227). In sostanza, se un giudice polacco desse attuazione ai doveri derivanti da queste disposizioni di diritto dell’Unione, si troverebbe in una situazione di contrasto con la normativa interna e rischierebbe di essere soggetto alle misure disciplinari di cui si è detto sopra. Secondo la Corte, le disposizioni esaminate violano altresì il principio del primato poiché ostacolano la disapplicazione da parte dei giudici polacchi delle norme nazionali contrastanti con quelle dell’Unione dotate di effetto diretto, tra le quali rientrano gli articoli summenzionati (punti 228-230).

Il quarto tema su cui si interroga la Corte riguarda l’attribuzione a un’unica sezione, la cosiddetta sezione straordinaria, facente parte della Corte Suprema polacca, della competenza a trattare le richieste di ricusazione di un giudice o di determinazione del tribunale davanti al quale il procedimento debba svolgersi, anche quando motivate da dubbi circa l’indipendenza di tale giudice. La normativa polacca non consente tuttavia nemmeno alla sezione straordinaria di pronunciarsi qualora la determinazione dell’indipendenza di un magistrato richieda la valutazione della legittimità della sua nomina. In riferimento a tale questione, preme soffermarsi brevemente sulla proposta formulata dall’Avvocato generale Collins nelle sue conclusioni. Questa censura è infatti l’unica nella quale egli propone una soluzione opposta a quella sostenuta poi dalla Corte, ritenendo che gli argomenti della Commissione non vadano accolti. Secondo le sue conclusioni, il diritto dell’Unione non vieta che una simile competenza sia attribuita in via esclusiva a un unico giudice, in quanto ciò non contrasterebbe con il principio di equivalenza e di effettività (punto 98). Qualora tale organo non risponda ai requisiti di cui agli articoli (art. 4, par. 1, del Regolamento 2020/2092)47 della Carta poiché non indipendente, il principio del primato permetterebbe di risolvere il problema attraverso la disapplicazione delle norme interne (punto 99). Allo stesso modo, l’Avvocato generale sostiene che la norma polacca non escluda la possibilità per le corti nazionali di sottoporre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia (punti 106-107). La Corte opera invece una valutazione di più ampio respiro, collegando questa censura a quanto rilevato precedentemente rispetto all’introduzione di nuove proibizioni e divieti, nonché ricordando che l’obiettivo cui tende la «legge di modifica» appare essere quello di scoraggiare i magistrati nazionali a dare applicazione al diritto dell’Unione. Nella sua sentenza, la Corte riscontra innanzitutto una violazione degli articoli 19 TUE e 47 della Carta poiché le norme nazionali impediscono a tutti gli organi giurisdizionali di verificare il rispetto delle garanzie richieste da queste disposizioni e limitano altresì la giurisdizione della sezione straordinaria (punti 285-286). La Corte specifica che, ai sensi del diritto dell’Unione, questo obbligo ha natura trasversale e si impone quindi a tutte le corti interne. In aggiunta, la normativa polacca è ritenuta essere incompatibile con il principio del primato, in quanto non è consentito a tali organi disapplicare le norme interne contrastanti con gli articoli summenzionati (punto 287), e con l’articolo 267 TFUE, dal momento che impedisce o quantomeno scoraggia tutti gli altri giudici a sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte (punto 290).

Infine, nell’ultima parte della sentenza, la Corte valuta l’obbligo istituito in capo ai giudici polacchi di fornire informazioni circa la propria appartenenza ad associazioni, enti senza scopo di lucro o partiti politici, ai fini di una loro pubblicazione on-line. Tale obbligo viene valutato alla luce del diritto al rispetto della vita privata e familiare e alla protezione dei dati personali (articoli 6 e 7 della Carta) e di alcune disposizioni del GDPR. Da un lato, l’obiettivo cui tende la modifica della normativa nazionale è, secondo quanto asserito dal governo polacco, tutelare la neutralità politica e l’imparzialità dei giudici e costituisce quindi una finalità di interesse generale idonea a giustificare la limitazione di alcuni diritti (punti 356-357). Dall’altro lato, la Corte ritiene che la misura non sia né adeguata a raggiungere tale scopo né proporzionata (punti 366 e 381). La sentenza sottolinea infatti come questa misura, anziché contribuire allo scopo perseguito, potrebbe incidere negativamente sui diritti dei giudici polacchi (punto 377) e, pertanto, sarebbe da considerarsi una violazione delle summenzionate norme del diritto dell’Unione.

I ragionamenti formulati nella sentenza sono la naturale prosecuzione di una giurisprudenza ormai consolidata. Questo senso di continuità è accresciuto dal fatto che l’approccio sistemico, il quale permette di tenere in considerazione il contesto nel quale le riforme sono state adottate, e l’enfasi posta sulle capacità di dissuasione e di influenza politica della legge in parola sono riscontrabili anche nella sentenza Commissione c. Polonia (Régime disciplinaire des juges) (v. Pech 2021). Al tempo stesso, è necessario evidenziare come la Corte espliciti a più riprese e tenga in considerazione nella formulazione dei suoi argomenti che l’obiettivo sotteso all’adozione della «legge bavaglio» è quello di limitare le possibilità per i giudici polacchi di dare applicazione alla sua giurisprudenza, attraverso una valutazione della legittimità degli organi giurisdizionali secondo quanto previsto dal diritto dell’Unione.

4. Da questa concisa ricostruzione dei principali profili giuridici di interesse della sentenza emerge come, ancora una volta, la procedura di infrazione si riveli essere uno strumento fondamentale nel contrasto alla regressione nella tutela dello stato di diritto (per alcune riflessioni sul contributo dato dai rimedi giurisdizionali al problema v. Scheppele, Gormley, Bonelli, e Coli). Tuttavia, la persistenza di questa problematica richiede di riflettere brevemente sulle possibili prospettive future nel contrasto alla crisi dello stato di diritto in Polonia.

Innanzitutto, occorre domandarsi cosa possa succedere se la Polonia non adotterà le misure necessarie a dare attuazione alla sentenza. Questa eventualità è tutt’altro che remota, visto quanto avvenuto in occasione della vicenda riguardante le misure cautelari ordinate prima della sentenza del giugno 2023. Lascia ancora meno ben sperare il fatto che le autorità polacche abbiano reagito alla sentenza in commento comunicando la propria intenzione di non conformarsi alla pronuncia della Corte di giustizia (v. Pech 2023). In caso di mancato adeguamento alla sentenza, la Commissione potrebbe richiedere, ai sensi dell’articolo 260, par. 2, TFUE, l’avvio di una nuova procedura per ottenere l’imposizione di sanzioni pecuniarie. In via alternativa o complementare, una simile mancanza potrebbe costituire il presupposto per l’attivazione dei regimi di condizionalità previsti dal diritto dell’Unione. Le forti interazioni tra condanne della Corte di giustizia e ricorso a tali strumenti, di cui si dirà meglio in seguito, richiedono di soffermarsi brevemente sulle recenti vicende legate all’applicazione di tali regimi alla Polonia. In questo quadro, merita particolare attenzione il regolamento sulla condizionalità legata al rispetto dello stato di diritto (Regolamento 2020/2092, per un commento v., ad es., Casolari, Nascimbene, e Baraggia e Bonelli). Questo strumento prevede la riduzione, sospensione o terminazione dei pagamenti provenienti dalle risorse finanziarie dell’Unione e destinati a uno Stato membro, inclusi quelli volti a finanziare i Piani nazionali di ripresa e resilienza nel quadro del Next Generation EU, qualora vengano appurate violazioni del valore dello stato di diritto da parte di tale Stato, che sono suscettibili di pregiudicare «in modo sufficientemente diretto» la corretta gestione del bilancio e gli interessi finanziari dell’Unione (v. soprattutto artt. 3, 4 e 5 del Regolamento 2020/2092). Ad oggi, tali misure sono state introdotte solo nei confronti dell’Ungheria, bloccando i finanziamenti richiesti nel suo Piano nazionale di ripresa e resilienza. Al contrario, l’approvazione del Piano polacco è avvenuta nel giugno 2022, sebbene la Commissione abbia subordinato l’esborso dei fondi previsti al raggiungimento di alcuni risultati, che sono stati negoziati con il governo. Tra questi obiettivi spiccano quelli legati alla modifica del regime disciplinare dei magistrati, necessari a garantire la compatibilità del diritto polacco con la giurisprudenza della Corte di giustizia. La scelta operata dalla Commissione, spinta anche dalla necessità di riconoscere il supporto dato dalla Polonia all’Ucraina a seguito dell’invasione russa (v. Jaraczewski 2022a), è stata aspramente criticata in dottrina (v. Grimaldi e Gioia, Alemanno e Pech 2022), nonché dal Parlamento europeo. Allo stesso modo, le riforme introdotte successivamente sono state ritenute meramente di facciata e aventi come unico scopo ottenere l’accesso al sostegno finanziario richiesto (v. Jaraczewski 2022b). Pur non utilizzando il tramite del regolamento 2020/2092, nell’ultimo anno, sono stati comunque bloccati una serie di finanziamenti che la Polonia avrebbe dovuto ricevere attraverso altri meccanismi di condizionalità previsti dal diritto dell’Unione (v. Scheppele e Morijn). Si nota tuttavia una discrasia tra le decisioni della Corte e l’approccio della Commissione nell’applicazione del regolamento sulla condizionalità legata allo stato di diritto. Da un lato, la Corte ribadisce l’incompatibilità con il diritto dell’Unione del tentativo della Polonia di limitare l’indipendenza dei magistrati, come evidenziato da ultimo nella sentenza qui commentata. Dall’altro lato, la Commissione è ancora reticente nell’applicare questo meccanismo quale reazione alle violazioni dello stato di diritto poste in evidenza dalla Corte.

In questo senso, tale scelta diventa sempre più difficile da motivare a fronte di una evidente ed esplicita mancanza di volontà da parte del governo polacco di conformarsi ai valori fondamentali su cui si fonda l’architettura dell’Unione.

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