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La Convenzione dell’Aja del 2 luglio 2019 sul riconoscimento delle sentenze straniere: una prima lettura

Pietro Franzina, Università degli Studi di Ferrara, e Antonio Leandro, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

1. Genesi e scopo della Convenzione

La ventiduesima Sessione diplomatica della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato si è chiusa, il 2 luglio 2019, con l’adozione della Convenzione sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni straniere in materia civile e commerciale, nota anche come Judgments Convention.

L’evento è significativo a più di un titolo. Lo è, da un lato, perché la Conferenza, dopo una pausa di dodici anni, è tornata a svolgere il più caratteristico dei suoi compiti, confermandosi capace di affiancare all’opera di manutenzione delle convenzioni esistenti un’azione propriamente normativa. L’adozione della convenzione è significativa, da un altro lato, perché con essa giunge a compimento uno dei progetti più ambiziosi che la Conferenza abbia mai perseguito: quello di dar vita ad un regime di applicazione generale, a vocazione universale, sulla circolazione internazionale delle sentenze.

Il nuovo strumento, in effetti, si propone di colmare un vuoto. Se si eccettua la Convenzione dell’Aja del 1° febbraio 1971 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere in materia civile e commerciale, subito rivelatasi un insuccesso, gli unici strumenti a carattere multilaterale recanti norme uniformi sull’efficacia delle sentenze straniere sono infatti degli strumenti relativi a materie particolari, come la Convenzione di Ginevra del 19 maggio 1956 sul contratto di trasporto internazionale di merci su strada (CMR), o degli strumenti di respiro regionale, come il Regolamento (UE) n. 1215/2012 del 20 dicembre 2012 sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (Bruxelles I bis) o la Convenzione di Lugano del 30 ottobre 2007, istitutiva di un regime “parallelo” a quello di Bruxelles.

Lo scopo della Judgments Convention, come si dice nel preambolo, è quello di facilitare la circolazione delle decisioni. L’idea, in sé non nuova, è che, per promuovere lo sviluppo delle relazioni a carattere transnazionale fra privati, è bene far sì che gli interessati possano far valere agevolmente i diritti loro spettanti in base a una decisione resa in un dato paese ovunque ciò si renda necessario. Possano, cioè, proiettare gli effetti della decisione in questione al di fuori del paese d’origine, senza limitazioni eccessive, e comunque a condizioni internazionalmente omogenee. E ciò vuoi per attuare il comando del giudice (tipicamente, in caso di condanna, per chiedere l’esecuzione forzata di quel comando nel paese in cui il debitore possiede dei beni aggredibili), vuoi per opporre il giudicato a chi in sostanza pretenda di riaprire, in un paese, una lite già risolta in un altro in via definitiva.

Si tratta, in fondo, del medesimo obiettivo che la Conferenza dell’Aja ha perseguito con la Convenzione del 30 giugno 2005 sugli accordi di elezione esclusiva del foro, attualmente in vigore nei rapporti fra l’Unione europea, il Messico, Singapore e pochi altri Stati. Le Convenzioni del 2005 e quella del 2019, del resto, sono legate da un rapporto assai stretto, costituendo, in sostanza, esiti distinti di un’unica impresa, lanciata ancora all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso (per maggiori informazioni sulle origini e le vicende del Judgments Project si veda qui). Come rileva il preambolo del più recente dei due testi, la Convenzione del 2019 e quella del 2005 sono in effetti strumenti complementari, concepiti per operare congiuntamente e caratterizzati, in funzione di ciò, da un linguaggio in larga parte comune.

2. Caratteri generali

La Convenzione del 2019 obbedisce, nel suo impianto, a uno schema del tutto tradizionale. In estrema sintesi, essa elenca, per un verso, le condizioni alle quali uno Stato contraente (lo Stato richiesto) ha l’obbligo di riconoscere, ed eventualmente dichiarare esecutive, le decisioni provenienti da un altro Stato contraente (lo Stato d’origine). Per un altro verso, la Convenzione indica le circostanze in presenza delle quali le autorità dello Stato richiesto sono autorizzate a negare il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione per la quale, altrimenti, sussisterebbe l’obbligo sopra indicato.

Le condizioni che qualificano una decisione come idonea al riconoscimento attengono, in particolare, alla sua provenienza. La Convenzione predispone a questo fine dei “filtri” giurisdizionali, o criteri di competenza internazionale, o indiretta. Di fatto, essa subordina la riconoscibilità di una sentenza alla circostanza che questa sia stata resa in un paese con cui la fattispecie presenta un collegamento che la stessa Convenzione considera congruo.

La Judgments Convention è, in questo senso, una convenzione “semplice”, non una convenzione “doppia”, come fu a suo tempo la convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 sul riconoscimento delle sentenze, strumento predecessore del citato regolamento Bruxelles I bis. A differenza dei regimi doppi, che coniugano l’unificazione delle norme sulla circolazione delle decisioni con l’introduzione di norme uniformi attributive della giurisdizione, la Convenzione del 2019 si limita ad assolvere la prima delle due funzioni, lasciando liberi gli Stati contraenti di tracciare come credono l’ambito della giurisdizione dei propri giudici. I filtri giurisdizionali di cui si serve la Judgments Convention possono, beninteso, influire in modo indiretto sulla fisionomia delle regole attributive della giurisdizione degli Stati contraenti: nella misura in cui consentono l’impiego di titoli di giurisdizione diversi da quelli che la Convenzione identifica come congrui, gli Stati contraente impediscono nei fatti alle decisioni dei propri giudici, ove basate su quei titoli, di beneficiare del regime di circolazione istituito dalla Convenzione. Ciò in effetti potrebbe indurre gli Stati contraenti ad allineare le proprie norme sulla giurisdizione ai filtri convenzionali, ma un simile sviluppo non è in alcun modo imposto dalla Convenzione.

Al contrario, la libertà di manovra che gli Stati contraenti conservano sul terreno della giurisdizione è in un certo senso amplificata dall’art. 15 della Convenzione, ai sensi del quale – salvo un’eccezione di cui si dirà oltre – nulla impedisce agli Stati contraenti di riconoscere una decisione proveniente da un altro Stato contraente anche quando questa non soddisfi i requisiti attinenti alla giurisdizione stabiliti dalla Convenzione stessa (o comunque non si conformi per qualche aspetto al regime uniforme), ove il riconoscimento sia possibile in forza delle pertinenti disposizioni dello Stato richiesto. In pratica, la Convenzione fornisce una serie di opportunità di circolazione delle sentenze fra gli Stati contraenti, senza pretendere che quelle opportunità siano le uniche possibili all’interno del suo campo di applicazione. L’impiego di titoli attributivi diversi da quelli contemplati dalla Convenzione non impedisce tout court la circolazione della decisione negli Stati contraenti, ma semplicemente priva tale decisione dei vantaggi insiti nella Convenzione, senza precludere (al di là del caso di cui si dirà) che stessa venga riconosciuta in quegli Stati per un’altra via.

La Judgments Convention si discosta, sotto questo aspetto, anche dalla Convenzione del 2005 sugli accordi di elezione del foro, di cui pure, come detto, rappresenta in generale il complemento. La Convenzione del 2005, strumento autenticamente doppio, impone, anzi, agli Stati che ne sono vincolati degli obblighi particolarmente stringenti sul terreno della giurisdizione. Occupandosi di accordi tesi ad investire i giudici di un certo Stato di una competenza esclusiva, la Convenzione del 2005 esige che il foro prorogato eserciti la giurisdizione così conferitagli, e contemporaneamente esige che i giudici di ogni altro Stato contraente si astengano dal prendere cognizione delle domande coperte dall’accordo delle parti. Solo le decisioni rese dal giudice eletto, del resto, circolano negli Stati contraenti in virtù di quella Convenzione.

3. Ambito di applicazione

La Convenzione tratta dell’efficacia, in uno Stato contraente, delle decisioni (solo quelle espressive di un’attività giurisdizionale di cognizione, esclusi dunque i provvedimenti cautelari) rese dalle autorità di un altro Stato contraente in materia civile o commerciale (sono peraltro assimilate alle decisioni, per la spendita dei relativi effetti esecutivi, le transazioni giudiziarie, ove ricorrano le condizioni previste a questo scopo). La Convenzione non indica come debbano essere intesi gli aggettivi “civile” e “commerciale”, salvo chiarire che esulano dalla sua sfera materiale i provvedimenti in materia tributaria, doganale ed amministrativa. È peraltro pacifico, come emerge del resto dalla bozza di relazione esplicativa preparata da Francisco Garcimartín Alférez e Geneviève Saumier, che le predette espressioni, come in genere le formule tecnico-giuridiche usate nella Convenzione, vadano ricostruite in chiave autonoma, e non come un rinvio alle nozioni di un particolare sistema giuridico nazionale. D’altronde, l’art. 20 impone di interpretare la Convenzione tenendo conto del suo carattere internazionale e della necessità di promuoverne un’applicazione uniforme.

Di fatto, il campo di applicazione materiale della Convenzione è circoscritto alle pronunce rese da autorità statali in ordine a cause di natura privatistica. Da qui l’esclusione dell’arbitrato, esplicitata all’art. 2, par. 3, e l’affermazione, all’art. 2, par. 5, che la Convenzione non incide in alcun modo sui privilegi e le immunità spettanti agli Stati e alle organizzazioni internazionali. La natura pubblicistica delle fattispecie per le quali sussistono quei privilegi e quelle immunità colloca le relative sentenze al di fuori dei confini del regime uniforme, ma la precisazione è apparsa nondimeno opportuna.

La Convenzione, in realtà, non abbraccia per intero la materia civile e commerciale, così intesa. L’art. 2, par. 2, fornisce anzi una lunga lista di materie escluse. Alcune riflettono il carattere politicamente sensibile degli interessi di cui trattano le decisioni relative a taluni segmenti del diritto privato, come le decisioni in materia di stato e capacità e in materia successoria o in generale le decisioni in materia familiare: l’esclusione di tali decisioni dal campo di applicazione della Convenzione rispecchia la diffusa percezione della necessità di elaborare, per il riconoscimento delle pronunce riguardanti quei settori, delle regole speciali, adeguate ai valori materiali in gioco. Di fatto, la Judgments Convention interessa essenzialmente la circolazione delle decisioni relative a rapporti privatistici di natura patrimoniale, siano essi di indole contrattuale, extracontrattuale o reale.

Anche in questo contesto, tuttavia, l’applicabilità della Convenzione risulta limitato. Le decisioni in materia fallimentare, latamente intesa, sono escluse dal regime uniforme, e così pure, fra le altre, le decisioni concernenti la validità e lo scioglimento di persone giuridiche e altri enti, e quelle concernenti le iscrizioni e trascrizioni in pubblici registri. Sono altresì escluse, perché oggetto (almeno in parte) di strumenti pattizi particolari, spesso recanti norme speciali sul riconoscimento, le decisioni relative al trasporto di merci e passeggeri, quelle riguardanti l’inquinamento marino e quelle relative alla responsabilità nascente da incidenti nucleari.

Tra le materie escluse figura anche la proprietà intellettuale. L’inclusione delle decisioni in quest’ambito nella sfera della Judgments Convention ha formato l’oggetto di discussione sino alla fase conclusiva del negoziato, quando è apparsa chiara l’indisponibilità degli Stati contrari all’inclusione a considerare, su questo terreno, qualsiasi soluzione di compromesso.

Una sorte diversa è toccata ad un’altra materia sensibile, quella delle decisioni in materia di concorrenza. Nel corso della Sessione diplomatica, le posizioni di chiusura assunte da un numero non piccolo di Stati non hanno impedito l’accoglimento di una soluzione di cauta inclusione, trasfusa nell’art., 2, par. 1, lett. p), onde la Convenzione si applica alle decisioni relative ad una lista di questioni di diritto antitrust, a condizione che si tratti di decisioni provenienti dal paese in cui si sono prodotti tanto la condotta di cui trattasi quanto i suoi effetti.

Le difficoltà incontrate nel negoziato nel pervenire a soluzioni ampiamente condivise quanto alla delimitazione della sfera materiale della Convenzione trovano riscontrano nell’art. 18. Vi si prevede che gli Stati che abbiano un “forte interesse” a non applicare la Convenzione ad un segmento particolare della materia civile o commerciale possano emettere una dichiarazione in questo senso, assicurandosi che la loro portata non sia “più ampia del necessario”. La dichiarazione resa a questo titolo – in pratica, una specie particolare di riserva – esenta lo Stato dichiarante dall’obbligo di applicare la Convenzione alle decisioni comprese nella materia indicata, ed esenta al contempo gli altri Stati dal medesimo obbligo quando si tratti di decisioni relative a tale materia provenienti dallo Stato dichiarante.

La Convenzione chiarisce, all’art. 8, come debbano essere trattate, ai fini del regime pattizio, le decisioni che, pur pronunciandosi su una questione compresa nella sfera applicativa della Convenzione, trattino anche questioni estranee ad essa. L’art. 8, par. 1, stabilisce che, per il capo della decisione che ha statuito in una materia esclusa, la Convenzione è priva di effetti. Per contro, ai sensi dell’art. 8, par. 2, gli Stati contraenti possono negare il riconoscimento e l’esecuzione di una statuizione in sé comprese nella sfera materiale della Convenzione se, e nella misura in cui, questa si basi su una decisione concernente una materia esclusa. La soluzione accolta nel testo finale rispecchia le preoccupazioni espresse dagli Stati riluttanti a ricondurre sotto la Convenzione le decisioni relative ad alcune materie sensibili, e in particolare la proprietà intellettuale. Le esclusioni decise all’art. 2 ne escono rafforzate. Varie ipotesi di compromesso sono state prospettate nella fase finale del negoziato con l’obiettivo di assicurare il riconoscimento delle decisioni basate su una statuizione relativa a una materia esclusa (specie sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 8, par. 3, della Convenzione del 2005), ma su nessuna di tali ipotesi è risultato possibile coagulare il consenso degli Stati coinvolti nelle trattative.

4. I c.d. filtri giurisdizionali

La Convenzione, come si è osservato, reca disposizioni sulla c.d. competenza internazionale del giudice d’origine, o competenza indiretta. Essa delinea così, in modo uniforme, un classico requisito per il riconoscimento e l’esecuzione che assume importanza in contesti caratterizzati da un grado di mutua fiducia inferiore a quella che, per esempio, permea la cooperazione giudiziaria civile europea.

Invero, la molteplicità, la varietà e la diversa ispirazione dei principi posti a fondamento dell’esercizio della giurisdizione in ciascuno Stato avrebbero potuto scoraggiare l’inserimento di criteri uniformi sulla competenza indiretta ovvero ostacolare l’individuazione di principi comuni. Si pensi, ad esempio, al ruolo del forum (non) conveniens, ignoto a – o addirittura proibito in – molti ordinamenti, oppure alla obbligatorietà della presentazione di una domanda riconvenzionale per non incorrere nella decadenza dall’azione, anch’essa non comune a livello globale.

Il testo esprime un cauto sentimento di equivalenza nei confronti dei suddetti principi con il risultato che il rispetto, talvolta molto circostanziato, di un solo tra i fattori di collegamento tra controversia e Stato d’origine indicati nell’art. 5 consente alla sentenza di circolare.

A tal proposito, possono rilevare fattori di vario genere. L’art. 5, par. 1, utilizza alternativamente: la residenza abituale della parte avverso la quale il riconoscimento e l’esecuzione sono richiesti o la sua sede principale di affari in concorso con la circostanza che la controversia sia insorta dallo svolgimento di tali affari; la presenza di una succursale, di un’agenzia o di una dipendenza del convenuto unita alla circostanza che la controversia sia insorta dalle attività svolte da tali sedi secondarie; il luogo di esecuzione dell’obbligazione contrattuale dedotta in giudizio (luogo individuato dalle parti o dalla lex contractus, sempreché vi sia un legame reale tra le attività del convenuto e lo Stato d’origine); la presenza dell’immobile in caso di controversie da contratti di affitto o di controversie contrattuali vertenti su prestazioni garantite da immobili quando la domanda verte anche sul diritto reale di garanzia; la localizzazione dell’atto o del fatto generatore del danno nelle cause da responsabilità extracontrattuale rientranti nell’ambito materiale della convenzione; la sede principale di amministrazione del trust in caso di controversie relative a un trust (il criterio concorre con quello dell’accordi di scelta del foro).

Inoltre rilevano, sempre alternativamente: la qualità di attore nel processo d’origine della persona contro la quale il riconoscimento e l’esecuzione sono richiesti; l’accettazione espressa della giurisdizione da parte del convenuto o la sua accettazione tacita conseguente alla difesa di merito esperita senza sollevare il difetto di giurisdizione – o senza invocare lo spostamento di competenza per effetto del forum non conveniens – nei termini imposti dalla legge d’origine (a meno che non sia evidente che l’eccezione di giurisdizione, pur sollevata in termini, non avrebbe avuto alcun effetto secondo la stessa legge); la proroga non esclusiva di giurisdizione (operando per la proroga esclusiva la citata Convenzione del 2005).

Quanto alle controversie riguardanti contratti di consumo o di lavoro, l’art. 5, par. 2, detta una disciplina restrittiva, in forza della quale alcuni filtri giurisdizionali dell’art. 5, par. 1, debbono ritenersi inoperanti (è il caso, in particolare, del filtro della materia contrattuale, incentrato sul criterio del locus solutionis), mentre altri filtri operano solo quando concorrano delle circostanze particolari (così, ad esempio, l’accettazione della giurisdizione da parte del convenuto opera come criterio di competenza indiretta soltanto se essa è espressa dinanzi al giudice).

Per le controversie relative agli affitti residenziali di immobili vale, ai sensi dell’art. 5, par. 3, un unico filtro, quello del situs rei.

L’art. 6 concerne le sentenze riguardanti i diritti reali su beni immobili. Queste sono sottratte ai filtri dell’art. 5 per essere consegnate a una regola di competenza indiretta esclusiva, in forza della quale le sentenze in discorso sono efficaci se, e solo se, provengono dallo Stato del situs rei. È questa la sola situazione nella quale, come anticipato, la Convenzione – oltre ad imporre il riconoscimento delle sentenze che soddisfino le condizioni in essa previste – esige che gli Stati si astengano dal riconoscere un provvedimento che, viceversa, non provenga dal paese designato dal filtro. Corrobora questa soluzione la precisazione, fatta all’art. 15, che la libertà riconosciuta agli Stati contraenti di dare effetto secondo le proprie norme interne alle sentenze che non integrano i requisiti convenzionali non sussiste rispetto alle decisioni rientranti di cui all’art. 6.

Con specifico riguardo alle sentenze rese su domande riconvenzionali, la convenzione distingue tra sentenze di accoglimento e sentenze di rigetto. In merito alle prime, occorre che la domanda riconvenzionale derivi dagli stessi fatti o dallo stesso rapporto lato sensu sottostanti la domanda principale (in mancanza di tale comune derivazione, la sentenza potrà nondimeno circolare se ricorrono altri requisiti, come, ad esempio, la residenza abituale dell’attore principale nello Stato d’origine). La close connection tra le due domande non è richiesta in caso di sentenza di rigetto, ma la sentenza non sarà suscettibile di circolare grazie al requisito in discorso se l’istante era obbligato a promuovere la domanda riconvenzionale per non incorrere in preclusioni.

5. Le condizioni ostative del riconoscimento e la procedura

Come si è notato, la Convenzione mira a creare un corpo uniforme di core rules. Se tale obiettivo, per così dire minimalista, è stato realizzato anche nella disciplina delle condizioni ostative al riconoscimento, in merito alla procedura di exequatur non è stato raggiunto il consenso su una uniform core procedure che traesse ispirazione, come frutto di compromesso e bilanciamento, da quelle nazionali. Il risultato è che la procedura è regolata dalla legge dello Stato richiesto (art. 13).

Il rinvio al diritto nazionale – il quale va determinato tenendo conto delle regole di funzionamento applicabili in caso di ordinamenti plurilegislativi (articoli 22 e 25) – non è tuttavia totale perché la Convenzione, oltre ad imporre di procedere speditamente e di non rifiutare il riconoscimento perché l’istanza avrebbe dovuto essere presentata in un altro Stato (art. 13), disciplina espressamente alcuni aspetti della procedura, come, in particolare, la documentazione con la quale l’istante è tenuto ad accompagnare la domanda di riconoscimento o di esecuzione (art. 12). A ciò si aggiunga che l’art. 14 proibisce di subordinare la presentazione della domanda di riconoscimento a depositi cauzionali o altre forme di garanzie per il solo fatto che l’istante è straniero rispetto allo Stato richiesto o in questo né domiciliato o residente: si tratta di una regola senz’altro ossequiosa verso il diritto di accesso alla giustizia, che, tuttavia, gli Stati possono escludere avvalendosi della riserva di cui allo stesso art. 14.

Al fine di circolare, la sentenza deve rispondere a taluni requisiti e non imbattersi in talune condizioni ostative. A ben vedere, buona parte dei requisiti positivi di riconoscimento corrispondono ai filtri giurisdizionali descritti poc’anzi. D’altro canto, il difetto dei requisiti positivi equivale a una condizione ostativa implicita al riconoscimento. Naturalmente, a monte di ogni valutazione sulla suscettibilità della sentenza di circolare vi è l’accertamento che la Convenzione sia applicabile: accertamento, questo, che, ai sensi dell’art. 4, par. 2, va condotto in un’area d’indagine marcata dal divieto di riesame del merito.

Oltre ai filtri giurisdizionali, la Convenzione richiede che la sentenza sia idonea a produrre effetti (di giudicato) ove se ne richieda il riconoscimento, e che sia esecutiva, ove se ne richieda l’esecuzione: entrambi le condizioni vanno accertate in base alla legge dello Stato d’origine (art. 4).

Le condizioni ostative sono elencate perlopiù nell’art. 7 e giustificano un controllo sulla regolarità della istituzione e dello svolgimento della procedura d’origine, sulla compatibilità della sentenza con l’ordine pubblico dello Stato richiesto (inclusi l’ordine pubblico processuale e la protezione della sicurezza e della sovranità dello Stato medesimo), sul divieto di frode alla legge, sul rispetto degli accordi di proroga di giurisdizione, sulla compatibilità della sentenza de qua con sentenze pronunciate tra le stesse parti nello Stato richiesto o con sentenze precedenti rese sulla medesima controversia pronunciate anche altrove ma suscettibili di riconoscimento nello Stato richiesto, sulla litispendenza a favore dei giudici di tale Stato purché vi sia una stretta connessione tra quest’ultimo e la controversia.

L’art. 9 consente, poi, una circolazione parziale della sentenza quando la domanda di riconoscimento verte solo su una parte della sentenza, o quando la sentenza può essere riconosciuta solo parzialmente per effetto dei requisiti di riconoscimento o delle condizioni ostative. Una particolare condizione ostativa è prevista all’art. 10 con riguardo alle decisioni di condanna ad exemplary o punitive damages: tali decisioni possono non essere riconosciute, o riconosciute parzialmente, per la porzione strettamente compensativa.

Gli Stati possono offrire ai propri giudici, tramite l’apposita dichiarazione prevista dall’art. 17, la facoltà di rifiutare l’ingresso della sentenza se le parti della controversia sono residenti nello Stato richiesto e presentano, insieme a ogni altro elemento della controversia diverso dalla localizzazione del giudice d’origine, collegamenti soltanto con tale Stato.

6. I rapporti della convenzione con altre norme sul riconoscimento

Il fenomeno che la Judgments Convention si propone di regolare forma l’oggetto, se ne è accennato, di norme internazionalmente uniformi previste in vari altri strumenti: convenzioni bilaterali e multilaterali, e strumenti regionali. Le regole che presiedono al coordinamento della Convenzione con questi altri testi sono racchiuse nell’art. 23.

La norma prevede innanzitutto (o, meglio, ricorda) che eventuali conflitti fra regimi uniformi debbono essere composti, ove possibile, sul piano interpretativo.

Dal canto suo, l’art. 23, par. 2, subordina la Convenzione ai trattati preesistenti, mentre il par. 3 chiarisce che la Convenzione non pregiudica l’applicazione degli stessi trattati successivi, in quanto ciò non comprometta l’osservanza dell’art. 6 rispetto a Stati contraenti della Convenzione che non siano parti del trattato.

L’art. 23, par. 4, riguarda i rapporti fra la Convenzione e le norme contenute in uno strumento adottato da una Organizzazione regionale di integrazione economica, come l’Unione. Riguarda, in sostanza, i rapporti con il Regolamento Bruxelles I bis. La soluzione è identica a quella già illustrata con riguardo ai trattati: le norme preesistenti sono preservate, mentre quelle successive sono destinate a prevalere sulla Convenzione, nel proprio campo di applicazione, salvo il rispetto dell’art. 6.

In pratica, se e quando la Convenzione del 2019 entrerà in vigore per l’Unione, il regime ivi stabilito non intaccherà l’operatività del Regolamento Bruxelles I bis rispetto alle decisioni ad esso soggette (quelle rese in uno Stato membro dell’Unione, in quanto invocate in un altro Stato membro), ancorché pronunciate, per ipotesi, in rapporto ad un’azione reale immobiliare relativa ad un bene situato in uno Stato terzo, parte della Convenzione. Ogni norma regionale successiva dovrà invece garantire, in quest’ultimo scenario, il rispetto degli obblighi nascenti dall’art. 6 della Convenzione.

7. I possibili sviluppi

La conclusione della Judgments Convention rientra nella competenza esterna esclusiva dell’Unione. È plausibile che l’Unione si risolva ad esprimere il proprio consenso ad esserne vincolata in tempi relativamente brevi. Il negoziato, sia pur marcato dal rigetto di alcune delle soluzioni caldeggiate dall’Unione, talora su punti particolarmente qualificanti del testo, si è risolto nell’adozione di un testo che, nell’insieme, appare fondamentalmente conforme agli auspici delineati, a suo tempo, dalle istituzioni (si veda qui il testo, solo parzialmente desecretato, della raccomandazione per una decisione del Consiglio relativa all’avvio delle trattative).

L’interesse per la Convenzione manifestato dalle delegazioni di alcuni Stati extra-europei lascia supporre che in un arco temporale non troppo lungo possano essere depositati altri strumenti di ratifica.

Non è comunque realistico attendersi alcuno sviluppo significativo nell’immediato. Per le delegazioni impegnate nel negoziato resta verosimilmente prioritario, in questa fase, vigilare sulla stesura della versione finale della relazione esplicativa, esprimendo, secondo una procedura definita dal Permanent Bureau della Conferenza, eventuali osservazioni sulla bozza finale che verrà messa a punto nelle prossime settimane.

L’entrata in vigore della Convenzione è subordinata al deposito di appena due strumenti di ratifica o di adesione. Giova peraltro segnalare come la Judgments Convention, riprendendo (peraltro con vari accorgimenti migliorativi) una controversa impostazione già sperimentata con la ricordata Convenzione del 1971, prevede un meccanismo di “bilateralizzazione” dei rapporti fra Stati contraenti. L’art. 29 contempla infatti l’eventualità che uno Stato, al momento di manifestare il proprio consenso ad essere vincolato dalla Convenzione, dichiari che questo suo consenso non vale a far sorgere una relazione regolata dalla Convenzione fra sé e un altro Stato contrante. Specularmente, ciascuno Stato contraente può dichiarare che la ratifica o l’adesione di un certo Stato non avrà l’effetto di far sorgere una relazione fra quello Stato e sé stesso.

L’aggravio così prefigurato quanto alla procedura (e ai tempi) delle ratifiche e delle adesioni rispecchia, ancora una volta, il carattere politicamente sensibile delle questioni disciplinate dalla Convenzione e il desiderio dei singoli Stati di mantenerne il trattamento internazionale sotto la rispettiva sfera di controllo.

Nei prossimi mesi, quando gli Stati e l’Unione europea avranno appena cominciato a valutare quali passi compiere con riguardo alla Convenzione, la Conferenza dell’Aja sarà chiamata a decidere se avviare una riflessione circa l’adozione di un possibile futuro strumento recante delle norme attributive della giurisdizione in materia civile e commerciale. Nelle conclusioni della riunione tenutasi fra il 5 e l’8 marzo 2019, il Consiglio sugli Affari generali e la Politica della Conferenza ha dato mandato al Permanent Bureau di convocare il gruppo di esperti che ha assistito la Conferenza in relazione al Judgments Project. Gli esiti dell’incontro saranno discussi dal Consiglio nella primavera del 2020.

 

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Pietro Franzina e Antonio Leandro

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