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La protezione dello Stato di diritto nell’Unione europea ai tempi del Coronavirus: se non ora, quando?

Federico Casolari, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (membro della redazione)

«È quando i cannoni rombano che abbiamo più bisogno delle leggi […] Ogni battaglia dello Stato – contro il terrorismo o qualsiasi altro nemico – dev’essere condotta in base alla legge. Vi è sempre una legge cui lo Stato si deve conformare. Non esistono “buchi neri”» (sentenza della Corte Suprema di Israele 13 dicembre 2006, causa HCJ 769/02 (2006), The Public Committee Against Torture in Israel e a. c. The Government of Israel e a., punti 61-62)

1. Il post di Simone Benvenuti illustra con grande lucidità le ricadute sulla tutela dello Stato di diritto derivanti dall’adozione della legge organica ungherese n. 12, del 30 marzo 2020, relativa alla protezione contro il Coronavirus. Si tratta di misure abnormi, che non possono certo esser fatte rientrare nel novero delle decisioni che gli Stati dell’Unione sono legittimati ad adottare, in situazioni di emergenza, per derogare all’applicazione del diritto sovranazionale. De Sena ne delinea poi le criticità alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In effetti, tali misure, che vanno a sommarsi ad una serie di riforme introdotte nel Paese europeo a partire dal 2011 – l’ultima delle quali, sostanzialmente contestuale alla legge del 30 marzo, volta a proibire la registrazione sui documenti di identità del cambio di sesso –, sembrano dar corpo in via definitiva (o quanto meno per un periodo di tempo indefinito) a quel modello di democrazia illiberale promosso con forza da Viktor Orbán, ponendosi così in netto contrasto con l’impianto valoriale su cui si fonda l’Unione europea (art. 2 TUE).

È dunque opportuno compiere alcune considerazioni sulle conseguenze che rispetto ad esse dovrebbero determinarsi sul piano sovranazionale.

2. Come noto, fino ad ora la reazione dell’Unione europea alle riforme adottate dall’Ungheria è stata, tutto sommato, blanda. A parte alcune procedure di infrazione, volte a sancire la violazione di disposizioni puntuali del diritto UE (nell’ultima pronuncia, del 2 aprile scorso, la Corte di giustizia UE ha condannato l’Ungheria per non aver implementato il meccanismo temporaneo di richiedenti protezione internazionale), ci si è limitati ad attivare l’early warning previsto dall’art. 7, par. 1, TUE. Il relativo procedimento è, tuttavia, ancora pendente innanzi al Consiglio; nel gennaio di quest’anno, in una risoluzione sulle audizioni in corso a norma dell’art. 7, par. 1, TUE, il Parlamento europeo si è rammaricato della mancanza di significativi progressi, facendo notare che «l’incapacità del Consiglio di applicare efficacemente l’articolo 7 TUE continua a compromettere l’integrità dei valori europei, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel suo complesso».

Sono del resto note le difficoltà incontrate, più in generale, dalle istituzioni politiche dell’Unione nell’approntare una risposta rapida ed efficiente nei confronti dei fenomeni di “rule-of-law backsliding” diffusisi negli ultimi anni in diversi Paesi UE. E, tuttavia, il passo compiuto dall’Ungheria con l’adozione della legge organica n. 12/2020 è di quelli che richiedono una reazione immediata e ferma.

Purtroppo, al momento, così non è stato.

Il 31 marzo, all’indomani dell’adozione della legge da parte dell’Assemblea nazionale ungherese, la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha adottato una dichiarazione con la quale, senza mai nominare l’Ungheria, si è evidenziato che «[i]t is of utmost importance that emergency measures are not at the expense of our fundamental principles and values as set out in the Treaties». La rappresentante della Commissione ha anche precisato che l’istituzione intende monitorare il rispetto di questa condizione da parte degli Stati membri.

Il giorno dopo, una dozzina di Paesi dell’Unione (nel frattempo divenuti 18; anzi, 19, come subito si dirà) hanno adottato una dichiarazione congiunta, che ricalca la posizione manifestata dalla Commissione. Vi si legge che il legittimo potere degli Stati di adottare misure emergenziali per far fronte alla pandemia di Coronavirus deve essere esercitato nel rispetto del principio di proporzionalità e della rule of law, della democrazia e dei diritti fondamentali. I firmatari, prosegue la dichiarazione, intendono poi «support the European Commission initiative to monitor the emergency measures and their application to ensure the fundamental values of the Union are upheld, and invite the General Affairs Council to take up the matter when appropriate». Pure in questo caso, tuttavia, non si fa menzione dell’Ungheria. Tanto che, il 2 aprile, con un coup de théâtre degno della miglior tradizione della commedia dell’arte, anche il Governo di Budapest ha deciso di sottoscrivere la dichiarazione in questione…

Più circostanziate appaiono le reazioni all’interno del Parlamento europeo, benché anch’esse non sembrino destinate a rapidi sviluppi. Il Presidente dell’istituzione, David Sassoli, ha informato di aver richiesto alla Commissione la verifica che la legge ungherese sia conforme all’articolo 2 del Trattato UE. Mentre l’ex presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che attualmente guida il Partito Popolare europeo, ha scritto ai membri di quest’ultimo, annunciando loro che verrà presto il momento di riconsiderare la cautela sin qui manifestata rispetto all’ipotesi di espulsione di Viktor Orbán.

3. Occorre, si diceva, una reazione capace di determinare rapidamente effetti significativi sul piano politico-istituzionale. Per questo, non si può pretendere (e attendere) che a fornirla sia la Corte di giustizia, che pure ha dimostrato, in particolare rispetto alle violazioni dello Stato di diritto da parte della Polonia, la capacità di produrre soluzioni efficaci e sistemiche (v., per tutte, la sentenza del 24 giugno 2019, causa C-619/18).

È probabile che un simile risultato non possa raggiungersi nemmeno attraverso il ricorso all’art. 7 TUE: è ancora pendente, lo si ricordava poc’anzi, la procedura ai sensi del par. 1 di detto articolo ed è molto difficile che possa attivarsi con successo il par. 2, stante il requisito dell’unanimità da esso richiesto per il voto del Consiglio europeo ed il quasi certo veto della Polonia. Alcuni giuristi, riprendendo un approccio già emerso in precedenza con riguardo all’accesso ai finanziamenti europei, hanno suggerito l’introduzione di standard relativi al rispetto della rule of law per gli Stati dell’Unione che intendano beneficiare del varo dei coronabonds. È un’ipotesi interessante e pienamente condivisibile, che tuttavia richiede prima una decisione politica (non scontata) sull’adozione di questo strumento finanziario. Ecco perché conviene domandarsi se lo scenario attuale non suggerisca anche di cominciare ad immaginare soluzioni extra ordinem.

Ciò è già avvenuto in passato. Nel 2000, di fronte alla minaccia rappresentata dalla possibile formazione, in Austria, di un Governo sostenuto da un partito xenofobo (il Freiheitliche Partei Österreichs di Jörg Haider), gli altri Stati membri adottarono una dichiarazione, diffusa dalla Presidenza di turno dell’Unione europea, con la quale si manifestava l’intenzione di raffreddare le relazioni diplomatiche con l’Austria (v. L.S. Rossi, La «reazione comune» degli Stati membri dell’Unione europea nel caso Haider, in Rivista di diritto internazionale, 2000, p. 151 ss.).

Vero è che allora non esisteva ancora il meccanismo di early warning, oggi previsto dal par. 1 dell’art. 7 TUE. Tuttavia, come ricordato in tempi più recenti dall’Avvocato generale Yves Bot nell’ambito di una procedura d’infrazione che contrapponeva proprio l’Ungheria alla Repubblica Slovacca, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha chiarito che «il settore delle relazioni diplomatiche resta di competenza degli Stati membri, nel rispetto del diritto internazionale» (conclusioni del 6 marzo 2012, causa C-364/10, punto 52).

In termini generali, non sarebbe dunque precluso ai Paesi dell’Unione di dare vita, al di fuori dei Trattati, ad una reazione – auspicabilmente, ma non necessariamente, congiunta – che, limitando le relazioni diplomatiche con la Repubblica magiara, induca quest’ultima a ripensare le ultime sue decisioni. Si potrebbe ripartire, a questo proposito, dalle misure che erano già prospettate nella dichiarazione del 2000 relativa al caso Haider: rinuncia a promuovere o accettare contatti bilaterali ufficiali a livello politico col Governo ungherese; rinuncia a sostenere candidature ungheresi per posizioni in organizzazioni internazionali; e, infine, limitazione degli incontri con gli ambasciatori ungheresi presso le capitali europee al solo livello tecnico.

Una simile reazione risulterebbe peraltro conforme al principio di leale cooperazione (art. 4, par. 3, TUE), non ostacolando – ma anzi favorendo – il perseguimento degli obiettivi dell’Unione, tra i quali figura in primis la realizzazione «[del]la pace, [de]i suoi valori e [de]l benessere dei suoi popoli» (art. 3, par. 1, TUE; corsivo aggiunto). E d’altra parte, come ricordato dalla Corte di giustizia in Achmea, il principio di leale cooperazione costituisce lo strumento principale tramite il quale gli Stati membri, garantendo il rispetto il diritto dell’Unione, assicurano la premessa su cui quest’ultimo poggia: e cioè il fatto che «ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua» (sentenza del 6 marzo 2018, causa C-284/16, punto 34).

Sarebbe il caso di non dimenticarlo in un momento come questo, che richiede unità di intenti e condivisione di obiettivi.

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