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Il contrasto alla disoccupazione a fronte dell’emergenza sanitaria da COVID-19: è attuale il principio di solidarietà nell’Unione europea?

Roberto Baratta, Università di Macerata

Il 2 aprile 2020 la Commissione ha proposto l’adozione di un regolamento relativo a un nuovo strumento finanziario fondato sull’art. 122 TFUE, denominato Support to Mitigate Unemployment Risks in an Emergency (SURE) Regulation e destinato a elargire prestiti agli Stati membri per sostenere la spesa generata dalle misure contro la disoccupazione. Si tratterebbe di un’azione emergenziale, inerente a tale base giuridica (in argomento, v. anche il precedente post di Costamagna). L’Unione si doterebbe di risorse finanziarie reperite sui mercati internazionali (garantite dagli Stati membri) al fine di alleviare i gravi fenomeni di disoccupazione che si profilano all’orizzonte come una delle conseguenze più nefaste dell’attuale emergenza sanitaria. La Commissione ha nel contempo assicurato che tale iniziativa (di natura temporanea e limitata al COVID-19 outbreak) non pregiudicherebbe la possibilità di istituire in futuro un autentico Fondo europeo di contrasto alla disoccupazione su differenti basi giuridiche previste dai Trattati, al momento non precisate (v. p. 3 della summenzionata proposta di regolamento). Conviene ricordare che la proposta di costituire un Unemployment Insurance Scheme a livello europeo è stata avanzata nel 2015, dinanzi all’Eurogruppo, dall’allora Ministro Padoan (in proposito, v. qui). Lo Scheme avrebbe dovuto affiancarsi ai sistemi nazionali in modo permanente e complementare. Sebbene la proposta avesse una fisionomia aperta ai contributi altrui, essa si concentrava sulla natura indiretta e sussidiaria del fondo, che non si sarebbe sostituito ai meccanismi nazionali di contrasto alla disoccupazione, integrandoli in caso di necessità dello Stato richiedente.

La proposta italiana si fondava sulla fattibilità di un simile strumento senza dover passare per la riforma dei Trattati o per la conclusione di un accordo internazionale ad hoc tra Stati. Entrambe le strade – suggerite allora da osservatori reticenti alla creazione di un simile strumento tra cui la stessa Commissione – erano e restano naturalmente oggi percorribili, con tempi peraltro poco conciliabili con la situazione di emergenza occupazionale in atto; perciò sono scarsamente appetibili, vista la gravità della crisi economico-sociale che colpisce simmetricamente, seppure in misura differente, i Paesi europei.

Le seguenti riflessioni rammentano la proposta italiana dell’epoca, ripropongono alcune idee allora suggerite e si concentrano sull’esistenza di sufficienti basi giuridiche nei Trattati attuali, le quali si prestano ad essere interpretate in modo da permettere alle istituzioni di costituire un fondo permanente per la lotta alla disoccupazione. Esse non si estendono alle modalità di finanziamento, né alle condizioni di accesso al medesimo, né al suo concreto funzionamento; la disciplina di questi complessi profili nel contesto attuale dipenderà semmai dagli equilibri politici che si determineranno, se del caso, a suo tempo.

I paradigmi normativi di riferimento possono essere individuati nel titolo XVIII del TFUE, nelle disposizioni che permettono di promuovere lo sviluppo armonioso dell’Unione nel suo insieme con azioni intese a «realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale» (art. 174, comma 1, TFUE), anche al fine di ridurre il divario con le regioni europee meno favorite (art. 174, comma 2, TFUE). Se è vero che le politiche economiche nazionali sono chiamate a conformarsi a tali obiettivi, non è meno vero che l’Unione può condurre in proprio politiche e azioni di sostegno, tanto è vero che certi fondi a finalità strutturale sono menzionati (art. 175, comma 1, TFUE) e che alla Commissione è chiesto di relazionare sui progressi compiuti in questo settore (art. 175, comma 2, TFUE).

In tale contesto normativo l’art. 175, comma 3, TFUE, assume un valore significativo, consentendo all’Unione di adottare azioni specifiche con legislativa ordinaria. Si consideri poi che l’art. 175 TFUE non precisa, né definisce le forme di azione specifiche che l’Unione può assumere, deferendo così al legislatore un certo margine di valutazione di ordine politico, economico e sociale. Non vi è motivo per escludere che, in quest’area di competenza, l’Unione europea possa adottare una sua azione autonoma per rafforzare la coesione economica e sociale tramite strumenti gestiti direttamente in sede europea (cfr. Corte di giustizia, Parlamento c. Consiglio, C-166/07, sentenza del 3 settembre 2009, punti 45-46). La natura composita della politica di coesione economica e sociale e la generalità dei compiti affidati all’Unione rendono flessibili i contorni di quest’area di competenza (v. le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa C-166/07, punto 82). È ragionevole prospettare che l’azione specifica non poteva, né avrebbe potuto essere decisa ex ante dai redattori del Trattato, dato che per definizione gli interventi in questo settore devono essere elaborati in funzione di bisogni economici e sociali imprevisti e imprevedibili, come l’attuale emergenza sanitaria e sociale dimostra. Se così è, non vi è alcuna ragione per escludere che l’Unione possa dotarsi di uno strumento di protezione dei lavoratori disoccupati, agendo ai sensi dell’art. 175, comma 3, TFUE.

Sarebbe teoricamente prospettabile che un simile strumento fosse circoscritto ai soli Stati membri della zona euro. In questo caso la base giuridica concorrente dovrebbe essere l’art. 136 (e l’art. 121) TFUE, a norma del quale il Consiglio può adottare «misure concernenti gli Stati membri la cui moneta è l’euro» al fine, tra l’altro, di «rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio». In questo caso lo strumento in questione diverrebbe una sorta di flanking economic measure di ausilio per contrastare la disoccupazione. Anche da questo punto di vista, nulla impedisce all’Unione di adottare meccanismi di riequilibrio a fronte di crisi economiche e sociali acute e diffuse negli Stati parti dell’eurozona o anche soltanto di loro specifiche regioni per indurre gli uni e le altre a convergere, tramite le opportune riforme, verso livelli economici e sociali più prossimi alle aree più sviluppate dell’Unione (v. le succitate conclusioni dell’Avvocato generale Bot, punto 92). Se un simile indirizzo prevalesse all’interno delle istituzioni, non può escludersi che condizioni più o meno rigorose (le c.d. riforme economiche e delle politiche del lavoro) potrebbero associarsi all’utilizzo del fondo, appunto perché esso sarebbe diretto a «rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio». Il punto dirimente sarebbe non tanto l’an bensì il quomodo e in particolare le condizionalità sulle riforme interne.

Quali che siano le modalità di accesso al fondo, non c’è dubbio che una simile misura possa e debba avere un carattere principalmente sociale, caratterizzandosi in termini di sviluppo armonioso della coesione sociale dell’Unione. Assume rilievo decisivo al riguardo il fatto che uno dei fondamenti della costruzione europea risiede esattamente nel duplice obiettivo di lottare contro l’esclusione sociale (art. 3, par. 3, comma 2 TUE) e di promuovere «la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri» (art. 3, par. 3, comma 3, TUE). La disposizione evoca l’idea di solidarietà tra gli Stati che è uno dei valori normativi più preziosi sottesi al processo di integrazione, almeno per coloro che ne condividono gli ideali originari, peraltro spesso smarriti nel recente passato. Il fondo potrebbe e dovrebbe essere costruito intorno al principio solidaristico.

Un’ultima osservazione per tenere conto delle possibili ritrosie che da tempo aleggiano intorno alla istituzione di un fondo contro la disoccupazione. In via di extrema ratio, qualora si ritenga che l’art. 175 TFUE sia in sé una base giuridica non autosufficiente, si potrebbe pensare alla clausola di flessibilità (art. 352 TFUE) per supplire alla presunta carenza di specifico potere in capo all’Unione. Questa tesi presuppone che, sebbene l’Unione abbia competenza in materia di coesione economica e sociale, la creazione di un nuovo strumento sociale di contrasto alla disoccupazione richieda un ulteriore ancoraggio normativo nella clausola di flessibilità. Se fosse questa tesi a prevalere, la creazione del fondo non porrebbe difficoltà insormontabili. Non è qui in gioco l’adozione di una misura che eccede le competenze dell’Unione: al contrario, come si è visto, le disposizioni in materia di coesione economica e sociale dimostrano che così non è, trattandosi al più di supplire alla carenza di uno specifico potere di azione, in linea con la portata dell’art. 352 TFUE, ormai chiarita dalla Corte di giustizia (v. Corte di giustizia, parere 2/94, del 28 marzo 1996, punti 29-30; Kadi, C‑402/05 P e C‑415/05 P, sentenza del 3 settembre 2008, punti 211-216). Tuttavia, è evidente come l’applicazione della clausola richiederebbe l’approvazione dell’atto in Consiglio all’unanimità, con i vantaggi dell’accresciuta legittimazione politica e gli svantaggi dei conseguenti rischi di veto che potrebbero riguardare anche soltanto le modalità di funzionamento del fondo. In termini procedurali, infatti, la sua costituzione dovrebbe essere approvata congiuntamente a norma dell’art. 175, comma 3, TFUE e dell’art. 352 TFUE, rispettando sì la procedura legislativa ordinaria, ma con la correzione del meccanismo di voto in seno al Consiglio che sarebbe chiamato approvare l’atto all’unanimità (v. di nuovo la sentenza del 3 settembre 2009, Parlamento c. Consiglio, C-166/07, punto 69).

In conclusione, la costituzione di un fondo europeo permanente contro la disoccupazione non è incompatibile con i Trattati vigenti. Altre soluzioni potrebbero prospettarsi: la proposta di regolamento SURE ne è la prova e potrebbe diventare tra qualche anno uno strumento permanente, così come è avvenuto quando in passato si attivò l’art. 122 TFUE con lo ESFM. Ammesso che le Istituzioni siano rapidissime ad approvare detto regolamento, c’è da sperare che i Governi possano attendere molti mesi prima che le risorse necessarie siano a loro disposizione. L’Unione può agire, a Trattati invariati, contro la disoccupazione. Si tratterebbe di una risposta seria, solidale, in linea con i crescenti bisogni sociali dei cittadini europei e che contribuirebbe a riavvicinarli ad una concezione nobile del processo di integrazione europea. Resta che uno strumento permanente avrebbe potuto essere in vigore da qualche anno se si fosse dato ascolto alla proposta del 2015. Dobbiamo sperare che non sia troppo tardi per mostrare che l’Unione è realmente prossima ai suoi cittadini.

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