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VERSO LA NEGOZIAZIONE DI UN NUOVO STRUMENTO INTERNAZIONALE POST-PANDEMICO: INTERNATIONAL LAW IS STILL THE ANSWER (?)

Magdalena Greco (Università degli Studi di Milano)

Introduzione

Sembra suonare la canzone Love is Still the Answer di Jason Mraz mentre ci si interroga sulle sorti del complesso apparato normativo volto a regolare il sistema globale posto a tutela del diritto alla salute.

Sarà il diritto internazionale ancora la risposta?

Questa è, in effetti, una delle domande che la comunità internazionale si pone da quando, nel marzo 2020, il diffondersi del virus SARS-CoV-2 ha generato una delle più gravi crisi registratasi su scala globale dopo la Seconda guerra mondiale. Una crisi che, ad oggi, ha portato alla morte più di 5 milioni di persone e che il Segretario generale delle Nazioni Unite ha definito (v. qui) non solo come una umana tragedia, ma al contempo come una «opportunità generazionale per ricostruire un mondo più equo e sostenibile» basato su una nuova intesa globale capace di porre al centro interessi “umanitari”, più che “economici”.  

A tale riguardo, l’Assemblea mondiale della sanità (AMS), organo rappresentativo dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), si è riunita in sessione speciale dal 29 novembre al 1 dicembre 2021 e ha deciso per consenso di istituire un Intergovernmental Negotiating Body (INB) incaricato di redigere una «convenzione, accordo, o altro strumento internazionale» ai sensi della Costituzione dell’OMS per rafforzare la prevenzione, preparazione e risposta alle pandemie («The special session of the World Health Assembly […] decides to draft and negotiate a WHO convention, agreement or other international instrument on pandemic prevention, preparedness and response, with a view to adoption under article 19, or under other provisions of the WHO Constitution as may be deemed appropriate by the INB», v. par. 1). A margine della decisione presa in seno alla AMS la comunità internazionale, la dottrina e la società civile, vedono dunque porsi innanzi due questioni, differenti benché strettamente correlate.

In primo luogo, ci si interroga sulla tipologia di strumento normativo da adottare. Più concretamente, tra le più dibattute alternative, alcune delle quali già da tempo presenti nel dibattito politico e dottrinale, vi è la scelta tra la negoziazione di un nuovo trattato o regolamento e la revisione del Regolamento internazionale sanitario (RSI) del 2005. In secondo luogo, le domande vertono sui complessi contenuti da dare al prescelto strumento.

È su questi due aspetti che si concentrerà la nostra breve analisi, tenuto conto delle considerazioni emerse sui tavoli di Ginevra.

L’utilizzo dei poteri normativi dell’OMS

Per quanto riguarda la decisione relativa a quale veste giuridica dare al nuovo strumento post-pandemico, le alternative poc’anzi anticipate permetterebbero all’INB di utilizzare i poteri normativi dell’OMS, finora scarsissimamente sfruttati. Questo consentirebbe all’Organizzazione di attuare una delle competenze attribuitegli dall’articolo 2 della sua Costituzione (COMS), in particolare quella di «[…] to stimulate and advance work to eradicate epidemic, endemic and other diseases».

Da una parte, come suggerito – tra gli altri – dall’Independent Panel for Pandemic Preparedness and Response (IPPPR) istituito su impulso dell’AMS al fine di avviare un esame imparziale, indipendente e comprensivo delle risposte sanitarie internazionali al Covid-19, un potenziale trattato potrebbe essere negoziato seguendo quanto stabilito dall’articolo 19 COMS. Tale disposizione, utilizzata ad oggi soltanto per la Convenzione quadro per il controllo del tabacco(FCTC) del 2005, cui poi nel 2012 è stato aggiunto il Protocollo per eliminare il traffico illecito di prodotti da tabacco, consente infatti alla AMS di approvare, a maggioranza di 2/3, convenzioni o accordi concernenti qualsiasi questione di competenza dell’Organizzazione. Tali accordi entrano in vigore per gli Stati membri nel momento della ratifica, conformemente alle proprie norme costituzionali. Secondo l’articolo 20 della COMS, poi, ogni Stato membro si impegna a prendere le misure relative all’accettazione dell’accordo notificando al Direttore generale, nel termine di 18 mesi, la sua approvazione o, in caso di rifiuto, le motivazioni del medesimo. Da qui, la definizione di accordi opt-in (v. qui, p. 18).

Dall’altra parte, invece, ex articolo 21(a) COMS, che disciplina quella che è stata definita in dottrina una «rivoluzionaria procedura con corsia preferenziale per la creazione di accordi» (v. Behrendt, Müller), l’AMS è autorizzata ad emanare, a maggioranza, regolamenti vincolanti concernenti, tra gli altri, le misure sanitarie e di quarantena o qualsiasi altro provvedimento destinato ad impedire la propagazione delle malattie infettive da uno Stato all’altro. Tali regolamenti entrano automaticamente in vigore per tutti gli Stati membri quando l’approvazione da parte dell’AMS è stata loro debitamente comunicata, ad eccezione degli Stati che, nei termini previsti, dichiarano di non accettarli o fanno riserve in merito. Da qui, la definizione di accordi opt-out (v. qui, p. 18).

Come è evidente, dunque, la possibilità di mancata ratifica (per il trattato), e l’esercizio della facoltà di opt-out (per il regolamento), potrebbero potenzialmente nullificare qualsivoglia tipo di sforzo negoziale.

Stante la divergenza di vedute su quale veste giuridica dare al nuovo strumento che verrà negoziato teoricamente entro la 77° sessione dell’AMS (par. 1(5)) dall’INB, le opzioni in discussione meritano di essere brevemente approfondite.

Riformare il RSI (2005), adottare un nuovo regolamento o un nuovo trattato?

L’utilizzo dell’articolo 21(a) COMS è stato utilizzato nel 1951 per l’adozione dell’International Sanitary Regulations, che incorporò le numerose convenzioni in tema di prevenzione delle epidemie sviluppatesi dal XIX secolo e che poi diventò, nel 1969, il RSI. Il regolamento (rivisto poi nel 1983, e nel 2005, oggi vincolante per 196 Stati e per l’OMS) si propone, ex articolo 2, di «[…] prevenire, proteggere, tenere sotto controllo e fornire una risposta sanitaria alla diffusione internazionale di malattie, tramite modalità commisurate e limitate ai rischi per la sanità pubblica e che evitino inutili interferenze con il traffico ed il commercio internazionale». Gli obiettivi del RSI si dovrebbero realizzare, nelle intenzioni manifestate dall’articolo 3 «[…] nel pieno rispetto della dignità, dei diritti, e delle libertà fondamentali dell’uomo […]», sotto la guida della Carta delle Nazioni Unite e della Costituzione dell’OMS, al fine di proteggere l’umanità dalla diffusione internazionale di malattie.

Tale strumento di diritto internazionale, custode della sicurezza sanitaria globale, si è tuttavia presentato privo di mordente all’appuntamento con la pandemia da Covid-19.

Secondo quanto emerge in dottrina (v. Gostin et al.), infatti, tre paiono esserne i principali punti deboli (v. sul tema anche Bartolini): la modalità di dichiarazione di una “Emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” da parte del Direttore generale dell’OMS; l’imperfetto coordinamento delle singole risposte nazionali con quelle derivanti dalla rilevanza internazionale dei rischi per la salute pubblica; il carente supporto alle capacità dei singoli Stati – soprattutto quelli in via di sviluppo – nella prevenzione, ricerca, e risposta alle malattie infettive.

All’individuazione di queste criticità hanno fatto seguito tre diversi approcci de iure condendo.

In base ad un primo approccio, vi è da tempo chi ritiene che sarebbe utile procedere ad una riforma del RSI (v. Gostin, Katz). A tale riguardo, alcuni autori (v. Pavone) sottolineano la necessità, già segnalata durante la risposta al focolaio di Ebola nell’Africa occidentale, di rivedere il sistema binario di allerta in caso di “Emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” (ad oggi, il Direttore generale dell’OMS può dichiarare che un determinato evento costituisca una “Emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale”, oppure non farlo: tertium non datur). Secondo questo orientamento, che suggerisce la creazione di un c.d. “meccanismo a semaforo” fatto di diversi gradi di allerta e volto ad incoraggiare la segnalazione precoce di potenziali focolai, sarebbe consigliabile aprire la negoziazione e adozione di un protocollo addizionale in modifica del RSI o del suo Allegato II, introducendo quindi un meccanismo di allerta più sfumato.

È emerso poi un approccio più critico rispetto all’apparato normativo vigente, che promuove l’adozione di un nuovo regolamento complementare al RSI e capace di rinforzare le basi dell’azione dell’OMS e degli Stati membri nella risposta alle pandemie (v. Behrendt, Müller). Secondo tale orientamento, l’alternativa di negoziare un nuovo trattato in base all’articolo 19 COMS sarebbe un errore per due principali ragioni. In primis, l’utilizzo di tale disposizione determinerebbe la “fuoriuscita” del trattato dalla supervisione della struttura amministrativa dell’Organizzazione: sarebbe infatti necessario un nuovo Segretariato ad hoc (come accadde per la FCTC), affiliato ma non direttamente parte dell’OMS, chiamato a sovrintendere l’attuazione del nuovo accordo. Questo avrebbe come conseguenza un isolamento de facto del trattato dal RSI, precludendo l’auspicato rafforzamento dell’OMS come autorità di coordinamento dell’azione in materia di salute pubblica. In secondo luogo, l’eventuale nuovo trattato vincolerebbe gli Stati membri dell’OMS, ma non l’Organizzazione in quanto tale.

Diversa ancora è la posizione espressa dal Comitato di revisione sul funzionamento del RSI (2005) durante la risposta al Covid-19 (d’ora in avanti, il Comitato), istituito dal Direttore generale OMS l’8 Settembre 2020 su richiesta degli Stati membri, che parrebbe preferire la negoziazione e adozione di una nuova convenzione sulla preparazione e risposta alle pandemie, a supporto del RSI. Il Comitato, infatti, dopo avere svolto un’analisi articolo per articolo del RSI ed averlo considerato appropriato e rilevante per ogni “Emergenza pubblica di rilevanza internazionale”, pare individuare non tanto nel contenuto in sé del regolamento, quanto nella sua fallace implementazione o nel fatto che sia stato «deliberatly ignored» dagli Stati (p. 7), una delle reali cause di fallimento del sistema collettivo di sicurezza sanitaria.

L’opzione di un trattato post-pandemico è quindi supportata, come un’onda sinusoidale, da chi, come il Comitato, lo ritiene un’ipotesi «da considerare» (p. 16) a chi invece, in apice di curva, pare assestarsi sull’idea di un nuovo trattato come “panacea di tutti i mali”. A questo secondo filone sembrerebbe appartenere l’idea secondo la quale, per richiamare le parole del Direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, un nuovo trattato costituirebbe l’unico modo per «portare con sé l’impegno politico degli Stati membri». Un’idea che, a dire il vero, era già presente nelle parole dell’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon (v. qui, par. 74) quando, nel 2016, questi aveva incoraggiato la comunità internazionale a considerare l’ipotesi di adottare una Convenzione quadro sulla salute globale, sulla scia di quanto già sostenuto in dottrina (v. Gostin et al.; e ancora v. Gostin et al.), e dalla società civile.

La proposta di adozione di una nuova convenzione è stata concretamente avanzata per la prima volta nel novembre 2020 al Paris Peace Forum, su iniziativa del Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Tale progetto è stato poi pienamente avallato dall’Unione europea in nome di uno «spirito di solidarietà collettiva, ancorato ai principi di lealtà, inclusività e trasparenza», supportato il 19 febbraio 2021 dal G7 e il 30 marzo 2021 seriamente preso in considerazione da 23 leader di tutto il mondo.

I contenuti del nuovo strumento di diritto internazionale

A seguito di tali dichiarazioni e della recente sessione speciale dell’AMS, ci si interroga dunque sui contenuti del nuovo ipotetico strumento di diritto internazionale, specialmente del trattato che, ad oggi, pare essere l’opzione più discussa. Tra gli altri, due sono gli aspetti che, auspicabilmente, verranno presi in considerazione durante i futuri negoziati.

Il primo riguarda la necessità di armonizzare la disciplina post-pandemica con gli altri ambiti dell’ordinamento internazionale, già caratterizzato da frammentazione. Alcuni studiosi, insieme a voci provenienti dal mondo delle ONG e da esperti indipendenti dell’ONU, in particolare, la Relatrice speciale ONU sul diritto alla salute fisica e mentale (v. Davis et al.), sottolineano, anzitutto, come l’adozione di un nuovo trattato rappresenti un’occasione unica per incoraggiare gli Stati a meglio comprendere l’inscindibile unione tra la tutela della salute pubblica e la tutela internazionale dei diritti umani. Un’opportunità, dunque, per armonizzare il diritto internazionale in materia sanitaria con i principi derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani (v. sul tema Habibi et al.). Secondo tale orientamento, infatti, un potenziale trattato potrebbe intervenire sulla tutela del diritto alla salute in toto concepito come «right to physical and mental health» (parole che ricordano la definizione di salute contenuta nel Preambolo COMS), che include, come ricordato dal Comitato ONU per i diritti economici, sociali e culturali (CESCR), l’accesso a programmi di immunizzazione contro le più gravi malattie infettive (v. General Comment No. 14, par. 36; v. Statement on universal and equitable access to vaccines for the coronavirus disease (COVID-19), par. 2). La tutela di tale diritto, inscindibilmente unito al «diritto di ogni individuo a godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni» (v. art. 15 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali) dà vigore all’argomentazione di chi ritiene che il trattato debba intervenire anche sul corrente regime di regolamentazione dei diritti di proprietà intellettuale (IPRs), considerati dal medesimo Comitato ONU come «prodotti sociali, con funzione sociale», il cui fine dovrebbe essere «human well-being, to which international human rights instruments give legal expression» (v. Substantive issues arising in the implementation of the International Covenant on economic, social and cultural rights, par. 4). Più in particolare, sarebbe opportuno che il testo assicurasse lo status di “bene pubblico globale” agli IPRs relativi ai vaccini e agli strumenti diagnostici e terapeutici necessari per sviluppare e produrre tecnologie essenziali nel caso di eventi pandemici. A tale riguardo, si ritiene (v. ‘t Hoen) che il nuovo quadro normativo dovrebbe vincolare gli Stati parte ad incentivare la condivisione volontaria di diritti di proprietà intellettuale ed assicurare una distribuzione ottimale di tecnologie sanitarie in tempi di pandemia, in tutte le regioni del mondo. La difficoltà, in questo caso, sarà quella di fare dialogare tali possibili nuove norme con quanto già previsto in particolare dal trattato TRIPS, le cui disposizioni sono state in passato (v. qui e qui), e sono ancora oggi (v. qui), sotto i riflettori, specialmente in merito alla disciplina dei brevetti e agli annosi problemi da questa creati all’accesso ai farmaci (v. qui), soprattutto per i Paesi più poveri (sul punto, e sul difficile bilanciamento tra IPRs e diritti umani v. Boschiero, De Pascale).

Inoltre, vi è chi (v. Mason Meier et al.) sostiene che l’adozione di un trattato post-pandemico debba essere un’occasione unica volta a rilanciare il concetto dei c.d. obblighi extraterritoriali in tema di diritto alla salute. La previsione di tali obblighi nel testo del trattato potrebbe consentire di costruire una struttura che, basata su già esistenti fondamenta di diritto internazionale dei diritti umani individuate, tra gli altri, dal CESCR (v. General Comment No. 14, par. 39-40; v. Statement on universal and equitable access to vaccines for the coronavirus disease (COVID-19), par. 8-9-10), sarebbe in grado di formare un nuovo quadro giuridico vincolante per la governance globale in materia sanitaria. Questo consentirebbe di realizzare progressivamente una più completa tutela del diritto alla salute, fondata su una cooperazione internazionale giuridicamente vincolante. A fronte, dunque, del già presente quadro normativo internazionale (v. anche artt. 55-56 Carta ONU e artt. 2(1)-12-23 Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali) e accostandosi ad una sistematica interpretazione delle disposizioni già esistenti, i negoziatori a Ginevra, includendo gli obblighi extraterritoriali tra le disposizioni del trattato post-pandemico, potrebbero elaborare un testo grazie al quale i Paesi più poveri sarebbero finalmente nella posizione di raggiungere i tavoli internazionali non sedendovi come fragili richiedenti di «caritatevole assistenza sanitaria», ma come portatori di ben specifici diritti ivi contenuti (così Mason Meier et al.).

Un ulteriore punto sul quale sarebbe opportuno che i futuri negoziati si concentrassero, tenendo presente la necessità di evitare la frammentazione del diritto internazionale, riguarda la (auspicabile) lungimirante contestualizzazione dei lavori che si stanno svolgendo in seno alla VI Commissione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul tema dei disastri (v. qui), volti a trasformare in una convenzione il Progetto di articoli sulla protezione delle persone in situazioni di disastro redatto dalla Commissione del diritto internazionale, con le lezioni imparate dalla pandemia da Covid-19. In relazione all’ambito di applicazione del Progetto, infatti, si evidenziano ad oggi dei «significant shortcomings in the context of pandemics» (sul punto v. qui), tra i quali la mancata integrazione del concetto di “pandemia” nella fattispecie di “disastro”. Il nuovo strumento di diritto internazionale e il Progetto, parallelamente in discussione, potrebbero dunque auspicabilmente interagire, creando così le fondamenta di una solida struttura capace di tutelare i diritti umani di fronte «a calamitous event or series of events resulting in widespread loss of life, great human suffering and distress […]» (art. 3 lett. (a) del Progetto).

Tale ultimo aspetto permette di collegarsi alla seconda macroarea su cui i negoziati dovrebbero auspicabilmente intervenire, e cioè la necessità di progettare una nuova architettura per colmare i problemi strutturali del deficitario sistema di prevenzione e risposta alle pandemie.

In primo luogo, si riflette a tale riguardo sulla necessità di valorizzare la c.d. science-policy interface (SPI), e cioè quel sistema che «incorporates scientific expertise into global policy-making and regulation» (così Burci). La SPI, infatti, è ancora poco sviluppata nella disciplina della salute globale ed è oggi non sufficientemente presente nei meccanismi di prevenzione e risposta alle pandemie. Tuttavia, il suo impiego è fondamentale al fine di evitare che le risposte nazionali a future emergenze sanitarie globali restino viziate da decisioni politiche non supportate da solide evidenze scientifiche e tra loro eccessivamente divergenti perché fondate su «different scientific interpretations» (v. sul punto quanto riportato dallo United Nations Office for Disaster Risk Reduction qui). Inoltre, ciò consentirebbe di evitare la manipolazione della scienza per fini politici ed il rischio di disinformazione ed “infodemia” (v. qui). Posta dunque l’importanza di questo tema nella negoziazione di un nuovo strumento di diritto internazionale, la sfida per la diplomazia sarà quella di creare una nuova struttura capace di traslare la conoscenza scientifica in norme e standard in grado di guidare l’azione degli Stati, e di monitorarne il rispetto. Un immediato vantaggio nella creazione di una struttura SPI nel nuovo trattato sarebbe, per esempio, la semplificazione e integrazione di quello che è ad oggi un complesso e multidisciplinare sistema di regole volto a prevenire il c.d. salto di specie (zoonotic spillover),attualmente non coerentemente regolamentato, ma giacente al confine tra il diritto internazionale in materia sanitaria ed il diritto internazionale dell’ambiente. Un sistema che, al momento, è portato avanti dalla One Health Agenda ed insieme da OMS, FAO, OIE e UNEP dove, però, la coincidenza di diverse discipline e comunità scientifiche rende la coordinazione e la coerenza dei lavori complessa, in assenza di strumenti di diritto internazionale a ciò specificatamente dedicati.

In secondo luogo, la dottrina (v. Nikogosian) individua la necessità di intervenire su un rinnovato sistema di finanziamento volto a creare un efficiente meccanismo in grado di fornire risorse specificamente dedicate alla prevenzione e risposta alle pandemie. Nonostante sul punto non vi sia ancora stato un approfondito dibattito, si ritiene che il nuovo meccanismo potrebbe, per esempio, creare un proprio sistema simile a quanto già sperimentato con l’Ozon Fund,istituito in base al Protocollo di Montreal. A tale riguardo, l’IPPPR ha da parte sua suggerito la creazione di un International Pandemic Financing Facility incaricato di supportare la preparazione globale alle pandemie e capace di mobilizzare contributi di circa 5-10 miliardi di dollari a lungo termine (10-15 anni), utilizzando una formula di ability-to-pay, in cui i maggiori interventi dovrebbero, in teoria, provenire da Paesi più ricchi.

Conclusione

Su un punto soltanto tutte le posizioni paiono concordi: il multilateralismo è, e sarà, l’unica soluzione, qualsiasi veste si dia al nuovo strumento normativo. Un multilateralismo tuttavia privo di quelle separazioni, dei negoziali abusi di posizione dominante da parte dei Paesi ad alte risorse, che hanno contraddistinto, in passato, la diplomazia internazionale, portando ad accordi, quale il trattato TRIPS che, soprattutto oggi, fanno sentire i propri diseguali effetti.

A tale riguardo tre punti della decisione adottata dall’AMS il 1° dicembre, intitolata The World Together e definita dal Direttore generale OMS come «storica, vitale, e unica, al fine di rinforzare l’architettura dell’edificio di salute globale, per proteggere e promuovere il benessere di tutti gli esseri umani» (v. qui), fanno ben sperare. In primo luogo, i due co-chairs dell’INB, da eleggersi non più tardi del 1° marzo 2022, dovranno riflettere «un equilibrio tra Paesi developed e developing» (par. 1(2)). In secondo luogo, i suoi quattro vice-chairs dovranno provenire ognuno dalle 6 regioni OMS. Infine, potranno partecipare ai negoziati osservatori, rappresentanti di attori non-statali in relazioni ufficiali con l’OMS (cioè organizzazioni non governative, international business associations e fondazioni filantropiche impegnate attivamente nelle aree di intervento dell’OMS, v. qui, tra cui, per esempio, in passato sono stati riconosciuti tali la Bill & Melinda Gates Foundation, Caritas Internationalis, AMREF Health Africa e Medici Senza Frontiere), ed ogni altro soggetto o esperto, al fine di garantire il più soddisfacente risultato possibile (par. 2 (3)).

In conclusione di questa prima breve analisi volta a evidenziare quali strumenti di diritto internazionale siano al momento alternativamente pronti ad essere discussi a Ginevra, nella speranza che nessuna mancata ratifica, o opt-out, mini agli sforzi internazionalmente profusi, si ritiene opportuno formulare un monito ed un auspicio. Qualsiasi scelta venga fatta, vi è la speranza che la comunità internazionale non dimentichi che diritto internazionale vuol dire, sì, law of nations, diritto degli Stati, creato per gestirne i rapporti. Ma che vuol dire anche ius gentium. Diritto dei popoli e delle genti. Popoli e genti di tutti i Paesi che, in ultima istanza, saranno destinatari delle norme discusse da una diplomazia che, in passato, dai loro reali bisogni è stata spesso distante. La cancellazione dei confini e la sempre più facile diffusione di agenti patogeni, forse, farà comprendere che villaggio africano e metropoli americana fanno parte di una medesima umanità, rendendo più evidente il filo rosso che lega la necessità di una effettiva cooperazione internazionale con l’attuazione, nei fatti, del (troppo astratto finora) concetto di solidarietà. Riuscirà, il diritto internazionale, ad essere la risposta?

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