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DIRITTO ALL’ISTRUZIONE E ACCESSO AD INTERNET ALL’EPOCA DEL COVID-19

Sara De Vido, Università Ca’ Foscari di Venezia

1. Secondo i dati forniti dall’UNESCO, la chiusura delle scuole coinvolge, al 18 aprile 2020, 191 Paesi al mondo, la quasi totalità, con una popolazione scolastica interessata di oltre un miliardo e mezzo di studenti, circa il 91,3 per cento del totale delle persone iscritte. La medesima organizzazione ha definito l’emergenza attuale una «seria crisi in materia di istruzione» (sul significato di educational emergency, v. Sinclair).

Il diritto all’istruzione – o meglio all’educazione, nell’accezione più ampia del termine, intesa come acquisizione di competenze di base e sviluppo intellettuale, spirituale e relazionale, volta alla promozione di pace, dialogo interculturale, solidarietà e integrazione (Marchisio, p. 268) – è un diritto umano fondamentale, riconosciuto dai principali strumenti giuridici internazionali e regionali, oltre che, naturalmente, dalle costituzioni nazionali (Focarelli). È un diritto sociale, una libertà fondamentale e un equality right (Fredman, p. 356; sulla dimensione «civile e politica» del diritto all’istruzione, v. De Sena, pp. 125 e 127). Le misure degli Stati in risposta alla pandemia dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo scorso interferiscono con il godimento non solo dei diritti civili e politici, ma anche dei diritti economici, sociali e culturali, come ha affermato Luís Leite Ramos, Presidente del Comitato dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (CoE) sugli affari sociali, la salute e lo sviluppo sostenibile.

L’analisi di questo breve commento concerne due (dei molteplici possibili) profili: il primo consiste nel definire il nocciolo duro del diritto all’istruzione che deve essere garantito anche in situazioni di emergenza; il secondo si concentra sulle discriminazioni de facto nel passaggio dalle aule fisiche delle scuole alle aule virtuali in termini di capacità di accesso ad Internet e sugli obblighi in capo agli Stati di rimuoverle. Una riflessione sull’aspetto tecnologico dell’istruzione muove dalla consapevolezza, accertata dalla letteratura specialistica (si veda ad esempio, Fox, p. 13), dell’esistenza di un duplice digital divide, definito dall’OCSE come «gap between individuals, households, businesses and geographic areas at different socio-economic levels with regard both to their opportunities to access ICT and to their use of the Internet for a wide variety of activities». Non si tratta “solo” di accesso fisico ad Internet – problema che persiste in molti Paesi al mondo, anche in Europa, dove si rilevano significative differenze tra gli Stati membri e negli Stati membri (v. a riguardo Cruz-Jesus et al.) – ma anche del distacco socio-economico e della capacità di beneficiare appieno della c.d. tecnologia dell’informazione della comunicazione (ICT).

2. Il diritto all’istruzione, come è noto, non è un diritto assoluto. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali (PDESC) garantisce il diritto all’istruzione al suo art. 13 (sui diritti economici, sociali e culturali, v. Bestagno) e, limitandoci al contesto europeo in questa sede, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU) contempla il diritto all’istruzione all’art. 2 del I Protocollo addizionale. Il PDESC non prevede un meccanismo di deroga in tempi di pericolo pubblico eccezionale a differenza del Patto sui diritti civili e politici; ciò significa che la «sospensione» dei diritti economici, sociali e culturali non è contemplata (Saul et al., p. 258). Tuttavia, il PDESC prevede, al suo art. 4, che gli Stati possano «assoggettare [i diritti del Patto] a quei limiti che siano stabiliti per legge, soltanto nella misura in cui ciò sia compatibile con la natura di tali diritti e unicamente allo scopo di promuovere il benessere generale in una società democratica». La legge deve essere chiara e accessibile, non arbitraria e non discriminatoria. Le misure restrittive devono rispondere ad un criterio di ragionevolezza: da un lato, perseguire il «benessere in una società democratica» (in base ai principi di Limburg, par. 52, il benessere della «popolazione intesa nella sua totalità») e dall’altro lato rispettare il principio di proporzionalità (Dieter Beiter, p. 453). L’art. 4 – è stato osservato (Saul et al., p. 258) – è capace di accomodare le esigenze delle situazioni di emergenza, senza particolare necessità di ricorrere al concetto di deroga. A tale riguardo, il Comitato ONU sui diritti economici, sociali e culturali, preposto come altri treaty bodies ad interpretare le disposizioni dello strumento giuridico di riferimento (Carreau e Marrella, p. 473 ss), ha individuato il «minimum core» di taluni diritti garantiti dal PESDC, non assoggettabile a limiti (Saul et al., p. 260).

Nel contesto europeo, il I Protocollo addizionale CEDU, all’art. 2, prevede un diritto all’istruzione sottoposto alle medesime disposizioni della Convenzione di cui il Protocollo è completamento, incluso dunque il diritto di deroga in caso di pericolo pubblico che «minacci la vita della nazione», previa formale notifica al Segretario Generale del CoE (art. 15; v. Cataldi). Dato per assodato che la pandemia costituisce un pericolo pubblico per il quale sia invocabile l’art. 15 CEDU (si veda sul punto Sommario), va rilevato come ad oggi solo alcuni Stati del CoE (dieci al 16 aprile 2020: Albania, Armenia, Estonia, Georgia, Lettonia, Macedonia del Nord, Moldavia, Romania, San Marino e Serbia) abbiano comunicato le misure adottate in risposta alla pandemia all’organo competente. Tutti gli Stati, ad eccezione di San Marino e Serbia, hanno menzionato espressamente nella notificazione di deroga la chiusura delle scuole (Lettonia e Macedonia del Nord hanno fatto riferimento al distance learning come misura per garantire l’istruzione). In assenza di una notifica formale, lo Stato non può invocare la deroga relativa al pericolo pubblico per esimersi da eventuali responsabilità per violazione dei diritti umani garantiti dalla CEDU, là dove le misure adottate in risposta alla pandemia vadano oltre quanto stabilito dalle clausole di limitazione (sulle misure italiane, v. Acconciamessa).

Con riferimento al diritto all’istruzione, in assenza di indicazioni nel I Protocollo addizionale, la prassi della Corte europea dei diritti umani consente di affermare (Guide on Article 2 of Protocol No. 1 to the European Convention on Human Rights, aggiornata al 2019, pp. 5-6) che il diritto all’istruzione possa essere soggetto ad alcune restrizioni, per le quali lo Stato gode di un certo margine di apprezzamento, purché siffatte misure non vadano a minacciare «l’essenza stessa del diritto», privandolo della sua efficacia. Non contemplando una lista di ragioni legittime che giustifichino la restrizione del diritto all’istruzione, l’art. 2 del I Protocollo addizionale deve essere letto nel senso che tale diritto possa essere limitato solo se viene rispettata la relazione di proporzionalità tra i mezzi impiegati e gli obiettivi da raggiungere. L’essenza del diritto all’istruzione ricorda i «minimum essential levels» individuati dal Comitato sui diritti economici sociali e culturali dell’ONU, ovvero: accesso non discriminatorio; istruzione conforme agli obiettivi indicati nell’art. 13, par. 1, PDESC; istruzione primaria garantita a tutti gratuitamente; piano strategico nazionale; libera scelta senza interferenze, soggetta alla conformità con i minimi standard educativi (Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, General Comment n. 13, par. 57, e Coomans, p. 236 ss.). Lo Special Rapporteur sul diritto all’educazione ha evidenziato, nel suo rapporto del 2008 sull’educazione durante le emergenze (le pandemie non sono tuttavia espressamente menzionate), che gli Stati mantengono l’obbligo di assicurare il diritto all’educazione, e ha fatto riferimento ai Minimum Standards for Education in Emergencies, Chronic Crises and Early Reconstruction sviluppati dall’Inter-Agency Network for Education in Emergencies. Secondo Coomans, un altro elemento appartenente al «core content» del diritto all’istruzione consiste nel fornire l’accesso a «special facilities for persons with an educational back-log» (l’autore menziona il caso di bambini che si trovino in aree rurali, in situazioni di conflitto, i bambini di strada, p. 87).

L’accessibilità è di particolare urgenza oggi (come ben rileva Desierto), in termini di garanzia di accesso su una base di uguaglianza e non discriminazione, nel passaggio a forme di insegnamento online e di distance learning e nell’acuirsi del già menzionato digital divide.  Se pare piuttosto evidente, considerato l’elevato livello di contagio del virus, che la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado persegua il fine di limitare la pandemia e si possa ritenere prima facie proporzionale all’obiettivo perseguito (v. in tal senso anche le misure incluse nel WHO checklist for influenza pandemic preparedness planning, che fin dal 2005 contempla appunto la chiusura degli istituti educativi, par. 4.13; v., tuttavia, la posizione dissenziente di un gruppo di studiosi pubblicata su Lancet, i quali ritengono ci siano stati, anche in Cina, limitati benefici derivanti dalla chiusura delle scuole sul rallentamento del contagio), è altrettanto palese come debba essere garantito, anche durante la pandemia, l’essenza di questo diritto, ovvero un accesso all’istruzione non discriminatorio e, in linea con quanto affermato da Coomans, comprendente delle misure speciali che rispondano a specifici bisogni educativi.

3. Considerato il necessario passaggio dalle stanze fisiche delle scuole alle aule virtuali, è opportuno riflettere ulteriormente sul nucleo del diritto all’istruzione, come articolato poc’anzi. Il principio di non discriminazione, di applicazione immediata ai sensi del PDESC, deve essere garantito tanto sul piano formale quanto sul piano sostanziale. Benché i provvedimenti adottati non presentino, quantomeno in Italia, profili discriminatori de jure (forse lo potrebbero essere nei Paesi in cui la chiusura è stata localizzata, nell’ipotesi in cui la localizzazione non rispondesse al criterio della diffusione del contagio quanto piuttosto a criteri basati sulle condizioni economico o sociali o etniche dell’area oggetto della misura restrittiva), potrebbero presentare o creare discriminazioni de facto, acuendo le discriminazioni strutturali esistenti nella società nei confronti di chi si trova in posizione vulnerabile per condizione economica, per status sociale, per stato di salute, per luogo di residenza, per l’essere rifugiato o appartenente una minoranza, per genere. Bambini e bambine in alcune parti del mondo non solo non hanno accesso all’istruzione, ma, come conseguenza della chiusura delle scuole, neppure al cibo. Per milioni di minori al mondo, infatti, il pasto a scuola è l’unico pasto bilanciato e nutriente che possono ricevere nel corso della giornata. Questo riguarda tanto Paesi sottosviluppati o in via di sviluppo (v. l’azione del World Food Programme in questa emergenza), quanto Paesi sviluppati (così anche negli Stati Uniti, dove circa 22 milioni di studenti dipendono ogni giorno da un pranzo gratuito o come risorsa chiave per la loro nutrizione di base). La chiusura delle scuole ha inoltre acuito in alcuni paesi il gender gap, in quanto le bambine a casa ritornano al loro ruolo di “cura” con conseguente inferiore accesso all’istruzione e un incremento del rischio di violenza tra le mura domestiche (v. lo studio dell’UNESCO sul punto).

Gli Stati – usando le parole del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali nel suo General Comment n. 20 del 2009, par. 9 – possono, e in alcuni casi sono obbligati a, adottare tutte le misure speciali necessarie per attenuare e sopprimere le condizioni che perpetuano la discriminazione. Ciò significa, ad esempio, aumentare le possibilità di accesso ad Internet per poter seguire le lezioni e scaricare il materiale di approfondimento – che deve tenere conto anche di speciali esigenze degli studenti – e consentire un accesso ad agevolazioni, quali il comodato d’uso per computer e tablet. In tale contesto si collocano le misure adottate in Italia dalla Ministra per l’innovazione, denominate Solidarietà digitale, che includono, tra le altre, assistenza da remoto. Garantire l’accesso tecnico, fisico, ad Internet, non è tuttavia di per sé sufficiente a rispondere al digital divide. Ciò che conta, oltre all’accesso fisico ad Internet (interessanti le misure adottate negli Stati Uniti, con autobus dotati di wi-fi parcheggiati nei parchi dei quartieri più svantaggiati), è l’accesso materiale ad Internet. Nonostante le nuove tecnologie, infatti, ciò che la pandemia ha fatto emergere è che la digitalizzazione da sola non riduce le disparità, anzi, produce un effetto cumulativo di nuove e tradizionali forme di disuguaglianza nell’educazione. Sul se l’accesso ad Internet sia allo stesso tempo funzionale al godimento di altri diritti umani e diritto umano fondamentale per se (così la risoluzione n. 1987/2014 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa), la dottrina ha discusso ampiamente (si veda, inter alia, Çali, Busacca, Frosini, Ruotolo) e non è questa la sede per riaprire il dibattito. Va nondimeno sottolineato come l’accesso sia fisico sia materiale ad Internet sia garanzia del godimento del diritto all’istruzione (Pollicino; si veda altresì la recentissima sentenza della Corte del Kerala, India, che ha dichiarato il diritto di accesso ad Internet un diritto fondamentale, parte integrante dei diritti all’istruzione e alla privacy garantiti dalla Costituzione indiana), a fortiori in una situazione di emergenza.

4. Alla luce di quanto evidenziato in queste sintetiche note, se lo Stato ha l’obbligo di garantire un accesso senza ostacoli e non discriminatorio all’istruzione in tempo di pandemia, questo significa garantire un accesso che non sia semplicemente fisico ma anche materiale ad Internet, fornendo a studenti ed insegnanti gli strumenti adeguati inclusi quelli necessari in materia di conoscenza. La presenza di discriminazioni de facto nell’accesso all’istruzione non riguarda solo i Paesi sottosviluppati, dove evidentemente il godimento di questo diritto incontra ostacoli strutturali che vanno ben oltre l’emergenza, ma anche nella nostra Europa, dove il divario tra studenti in termini di condizioni economiche e sociali, ma anche di luogo di residenza, si avverte e si avvertirà anche conclusa la pandemia.

Per dare sostegno ai Paesi nel garantire un accesso all’istruzione il più possibile inclusivo, l’UNESCO ha elaborato delle linee guida e tools cui tutti possono accedere gratuitamente, compresi dei sistemi con buona funzionalità offline. Il ricorso a «misure di emergenza educativa» (e a raccolte fondi emergenziali, v. UNICEF), dimostrano, tuttavia, una carenza di azioni intraprese prima dell’avvento della pandemia, in tempi normali.

Ciò pone una ulteriore riflessione conclusiva: il post-pandemia, benché ci paia (ancora) piuttosto lontano. L’SDG Education ha infatti evidenziato una serie di priorità per gli Stati per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, tra cui quella di «assicurare l’impegno politico e gli investimenti nell’educazione nella fase di recovery». Tra le numerose riflessioni che accompagneranno e seguiranno questa pandemia dovrà necessariamente trovare ampio spazio l’istruzione, affinché sia davvero inclusiva e capace di quella adattabilità che, pur essendo stata sottolineata più volte a livello Nazioni Unite, non è mai stata davvero attuata.

 

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