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Alcune questioni dell’emergenza COVID-19 in Italia in un’ottica di International Disaster Law (Parte I)

Giulio Bartolini, Università Roma Tre, Responsabile Jean Monnet Project ‘Disseminating Disaster Law for Europe’

La crisi innescata dal COVID-19 ha confermato come i disastri (sul soddisfacimento dei criteri utilizzati nelle definizioni giuridiche di disastro relativamente a questo contesto vedi qui e, in generale, qui) rappresentano una delle principali problematiche per la Comunità internazionale, sollevando molteplici interrogativi anche di tipo giuridico. Alcuni aspetti, specificatamente connessi al contesto italiano, possono essere qui discussi, secondo un’agenda eterogenea connessa alle questioni che hanno maggiormente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa. In questo primo post ci soffermeremo: (a) sulle misure di preparazione e prevenzione che potevano attendersi rispetto alla pandemia; (b) e sul presunto dovere di assistenza verso l’Italia. Successivamente l’attenzione verterà (c) sull’impiego di medici stranieri nell’emergenza e (d) sulle polemiche connesse all’invio di personale militare di soccorso da parte della Russia. 

Rispetto a queste problematiche inerenti all’Italia si possono offrire alcuni spunti di riflessione anche alla luce degli strumenti connessi al cd. International Disaster Law (d’ora in avanti IDL; su questo ambito di ricerca vedi, ad esempio, qui e De Guttry, Gestri e Venturini), specie in considerazione della stretta interrelazione che questo settore richiede fra input internazionali ed europei e misure da adottarsi a livello nazionale di vario tipo (istituzionali, normative ed operative), per prevenire, mitigare e rispondere a situazioni di disastro. 

La prevenzione/preparazione rispetto alle pandemie

Nonostante che, in caso di disastro, l’attenzione sia usualmente posta rispetto ai problemi che sorgono una volta che l’evento calamitoso si è manifestato, non va dimenticato che, nell’ambito dell’IDL, una pari attenzione è ormai rivolta alle misure che gli Stati devono prendere per prevenire e prepararsi rispetto ai rischi idonei a causare disastri (in generale, Samuel, Aronnsson-Storrier e Bookmiller). In questo contesto, quale contraltare rispetto alla valutazione delle azioni adottate dall’Italia rispetto al rischio di pandemie, diversi input internazionali possono intrecciarsi, dai Regolamenti sanitari internazionali (anche IHR) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) agli obblighi sui diritti umani.

Sebbene nelle attuali analisi sui Regolamenti sanitari internazionali e il COVID-19 l’attenzione sia stata principalmente posta relativamente agli obblighi di notifica o verso le misure raccomandate dall’OMS (quiqui), si può ricordare che questo strumento, nella sua più recente versione del 2005, prevede anche degli obblighi relativi a misure di carattere strutturale, talora definite «protracted obligations», previste agli art. 5 e 13 secondo cui (art. 5) «[e]ach State Party shall develop, strengthen and maintain, as soon as possible but no later than five years from the entry into force of these Regulations for that State Party… the capacity to detect, assess, notify and report events in accordance with these Regulations, as specified in Annex 1» e (art. 13) «the capacity to respond promptly and effectively to public health risks and public health emergencies of international concern as set out in Annex 1», norma che altresì prevede come «WHO shall publish, in consultation with Member States, guidelines to support States Parties in the development of public health response capacities». Il periodo previsto per la realizzazione di queste misure, dopo l’iniziale possibilità di dilazionare ulteriormente il soddisfacimento di questi requisiti, è terminato nel 2016.

L’Annesso 1 ai Regolamenti sanitari internazionali, relativo a «Core Capacity Requirements for Surveillance and Response» indica quindi alcune capacità di salute pubblica, da realizzarsi a vari livelli di intervento (locale, intermedio, nazionale), volte ad esempio a richiedere la possibilità di: identificare e valutare potenziali minacce alla salute rilevanti per i Regolamenti sanitari internazionali, anche tramite idonee strutture di monitoraggio; notificare e monitorare questi eventi, garantendo il coordinamento tra OMS e gli obbligatori «National IHR Focal Points» (qui); e, infine, rispondere a questi eventi sulla base delle misure preparatorie indicate come, ad esempio, la necessità, «to establish, operate and maintain a national public health emergency response plan»; «to provide support through specialized staff, laboratory analysis of samples…and logistical assistance (e.g. equipment, supplies and transport)»; «to determine rapidly the control measures required to prevent domestic and international spread». 

Queste norme, specie per l’art. 13, sono largamente innovative (Negri, 274) rispetto ai pregressi Regolamenti sanitari internazionali del 1969 che prevedevano capacità organizzative di salute pubblica focalizzate rispetto ai cd. punti di ingresso, quali porti e aeroporti (ora comunque confermate nell’Annex 2 su «Core Capacity Requirements for Designated Airports, Ports and Ground Crossings»). La loro ratio risiede nell’ovvia constatazione, comune nell’IDL, che l’azione preventiva e di preparazione ad eventi calamitosi sia fondamentale per mitigarne gli effetti, con positive ricadute non solo verso i soggetti tutelati, ma anche di tipo economico. Si consideri, ad esempio, che nel 2014 una proiezione per conto della Banca Mondiale stimava in tre trilioni di dollari statunitensi l’impatto globale di una pandemia simile alla cd. Spagnola del 1918-1919, derivante da una contrazione del prodotto lordo mondiale del 5% (per il COVID-19, una valutazione preliminare della Banca Mondiale stima un impatto fra il 2 e il 4%, qui), mentre un rapportodel 2012 della stessa Banca Mondiale valutava un costo globale annuo per sviluppare sufficienti capacità di preparazione alle pandemie in una forbice di 1,9-3,4 miliardi di dollari.

La realizzazione delle misure previste agli art. 5 e 13 dei Regolamenti sanitari internazionali, e dettagliate nell’Annesso 1, presenta tuttavia alcune criticità, derivanti anche dal contenuto di queste previsioni normative e dall’approccio assunto relativamente alla loro implementazione, con ridotti strumenti affidati all’OMS per monitorare e valutare le azioni adottate dagli Stati rispetto alle misure di preparazione richieste.

Relativamente alle misure da intraprendersi, fin dalle prime analisi, non si era mancato di osservare che, nonostante alcune similitudini, «[t]he surveillance and response capacity obligations in the new IHR are more demanding than those found in the ICESCR’s right to health», dato che, alla scadenza del periodo ipotizzabile, era richiesto agli Stati di disporre dei «Core Capacity Requirements» di cui all’Annesso 1, senza la previsione di un principio di realizzazione progressiva (Fidler, p. 373). Inoltre, se l’Annesso 1 si limitava in sostanza a definire le aree di intervento e le misure attese dagli Stati, difettando però di parametri quantitativi e qualitativi rispetto alle caratteristiche che queste dovrebbero assumere, un parziale ruolo integrativo poteva essere riconosciuto alle linee-guida dell’OMS volte, come anticipato all’art. 13, a svolgere una funzione di accompagnamento per gli Stati nella realizzazione di queste misure e per dare maggiore contenuto ad esse. 

Nel tempo alcuni strumenti sono stati realizzati come, inizialmente, il Protocol for Assessing National Surveillance and Response Capacities for the International Health Regulations (2010) e, soprattutto, la Checklist and indicators for monitoring progress in the development of IHR core capacities in States Parties(2013). Mentre nella Checklist la Core Capacity 3 è dedicata alle misure di sorveglianza, la Core Capacity 5attiene alla Preparedness. In essa si dettagliano in modo più approfondito le misure idonee a soddisfare le «core capacities», rappresentate non solo dai «public health emergency response plans», ma altresì, ad esempio, dall’esistenza di «surge capacity», ovvero «the ability of the health system to expand beyond normal operations to meet a sudden increased demand», relativamente a posti letto, disponibilità di personale ed equipaggiamenti e materiali necessari, «the identification of available resources, the development of appropriate national stockpiles of resources and the capacity to support operations» durante una «public health emergency», mentre le sezioni 7 e 8 sono dedicate al personale e ai laboratori. Ovviamente, come ribadito nello stesso documento (p. 10), nonostante il legame con l’art. 13, la Checklist è un testo non vincolante. Sebbene questo strumento possa avere un ruolo di ausilio resta quindi complesso definire puntualmente le caratteristiche e i livelli attesi delle misure che gli Stati sono chiamati a porre in essere per adempiere agli obblighi definiti agli articoli 5 e 13 dei Regolamenti sanitari internazionali. E’ abbastanza evidente che l’effettiva capacità di soddisfare i risultati prefissi nelle due disposizioni dipende in ultima analisi dalle complessive capacità di sanità pubblica degli Stati, con l’ulteriore difficoltà connessa al fatto che «[t]he IHR lack detailed strategies for capacity building» (Gostin, 188), senza imporre misure di sostegno per gli altri Stati. Questi elementi di debolezza del sistema, connessi alle strutturali differenze fra Stati, appaiono riflettersi anche nei meccanismi di controllo esistenti che risultano piuttosto blandi.

Va infatti considerato che, sulla scorta dell’art. 54 dei Regolamenti sanitari internazionali, il sistema di supervisione risulta incentrato sull’obbligo di fornire un rapporto, previsto a cadenza annuale con la risoluzione 61.2 (2008) della World Health Assembly (WHA), sull’implementazione delle stesse. Nell’attuale versione il rapporto annuale prevede un’analisi basata su 13 indicatori, attinenti ad aree come risorse umane, laboratori o quadro normativo e finanziario, rispetto ai quali ogni Stato è tenuto a fare un’autovalutazione relativamente a cinque possibili livelli di performance. Le valutazioni richieste dallo Stato attengono tuttavia ad aspetti in molti casi di tipo formale, con pochi parametri di riferimento. Ad esempio, relativamente all’indicatore C8, relativo al «National Health Emergency Framework» la sezione 3, dedicata alla «Emergency Resource Mobilization» e quindi attinente alla presenza di «Human (experts), financial, logistics (medical countermeasures, stockpiles), and health facilities (beds, equipments, etc.)», assegna il massimo punteggio allo Stato che auto-attesti come «Resource mapping and mobilization mechanisms are regularly tested and updated». 

Le performance indicate dagli Stati sono comunque pubbliche e, ad esempio, sulla base dell’ultimo rapporto fornito dall’Italia nel 2018, questi valori risultavano usualmente superiori alla media globale e regionale. Va difatti considerato che, complessivamente, sussistono gravi carenze nelle capacità di preparazione degli Stati, dato che, sempre sulla base dei rapporti del 2018, circa 2/3 degli Stati presentano carenti o modesti livelli di preparazione, attestandosi su auto-valutazioni complessive per valori compresi dal livello 1 al 3 (qui).

Il tema della scarsa preparazione degli Stati, ripetutamente segnalato da autorevoli fonti come la Global Health Crises Task Force creata dal Segretario-Generale delle Nazioni Unite nel 2106 (vedi anche qui), ha quindi condotto negli anni più recenti ad una prima riflessione anche relativamente al monitoraggio dell’implementazione di questi obblighi da parte degli Stati, dato lo stretto legame fra i due aspetti. Come indicato in dottrina (Gostin e Katz) e, ugualmente, più volte emerso nello stesso ambito dell’OMS (qui e qui) si è palesata la necessità di integrare il sistema di auto-valutazione con nuovi strumenti tecnici opzionali(risoluzione 68.5 della WHA, 2015), compresi nell’attuale «IHR Monitoring and Evaluation Framework». Di conseguenza, accanto al meccanismo dei rapporti annuali obbligatori, sono stati progressivamente sviluppati tre nuovi strumenti per facilitare una valutazione, talora anche esterna, volta ad identificare gli aspetti maggiormente critici del sistema nazionale rispetto alla preparazione verso questi eventi. In particolare, dal 2016, è stato realizzato un programma volontario di revisione, il Joint External Evaluation. L’Italia non ha però utilizzato questo meccanismo di valutazione, a differenza di altri 112 Stati (qui), compresi paesi europei come il Belgio, Germania o Svizzera, così da non potere qui disporre di una puntuale fonte di confronto. Ugualmente l’OMS ha favorito lo sviluppo di strumenti quali modelli di esercitazioni (128 condotte finora, nessuna coinvolgente l’Italia) o le Guidance for after Reaction Review (62 condotte finora, nessuna coinvolgente l’Italia), che possono essere utilizzati dagli Stati, auspicabilmente anche con il coinvolgimento di esperti esterni.

L’attenzione verso questo tema è divenuta quindi una costante negli ultimi anni, come riscontrabile con l’adozione nel 2018, tramite la decisione 71(15) della WHA, del Five-year Global Strategic Plan to Improve Public Health Preparedness and Response, 2018–2023, volto a confermare la validità degli strumenti sviluppati e facilitare il supporto del Segretariato dell’OMS verso gli Stati nell’utilizzo di questi meccanismi. Sebbene questo documento risulti piuttosto generico, alcuni osservatori non hanno mancato di rilevare come nella sua stesura finale i riferimenti alla valenza dei meccanismi esterni di revisione, già identificati funzionali in altri documenti preparatori (qui), siano stati limitati, in ragione delle perduranti preferenze degli Stati verso meccanismi di auto-valutazione (Burci e Quirin). Ugualmente la rilevanza del tema emerge anche dalla creazione nel 2018 del Global Preparedness Monitoring Board, organismo indipendente, sostenuto dall’OMS e dalla Banca Mondiale, al fine di svolgere attività di advocacy su questo tema, e, soprattutto, dalla prospettata risoluzione della WHA, per la prima volta dedicata specificatamente a questo ambito, relativa a Strengthening preparedness for health emergencies: implementation of the International Health Regulations (2005) dove si sarebbe richiesto agli Stati, ad esempio, «to take actions to implement the unmet obligations thereof, and to continue to build core capacities» e «to prioritize at the highest political level the improvement of, and coordination for, health emergency preparedness». Tuttavia, la situazione contingente, che ha comportato di tenere la settantatreesima sessione della WHA solo virtualmente, ha determinato la necessità di posticipare l’esame di questa risoluzione. 

I Regolamenti sanitari internazionali, quindi, pur prevedendo obblighi relativi ad alcune misure preventive, scontano una serie di difficoltà nell’incidere significativamente sulle «core capacities» e sulle conseguenti misure strutturali per gli Stati. Al tempo stesso l’inserimento di questa ulteriore prospettiva nei Regolamenti sanitari internazionali ha comunque avuto alcuni pregi. Da un lato ha permesso di allineare questo settore alla più generale agenda internazionale dell’IDL, volta a richiedere agli Stati azioni in materia di preparazione e riduzione del rischio di disastro, improntate però, nel sistema Nazioni Unite, ad un’ottica di soft-law. Dall’altro queste previsioni permettono di enfatizzare la rilevanza di questo ambito di intervento per gli Stati, anche se poi, specie in carenza di un significativo sistema di monitoraggio, vi è il rischio che un’adeguata realizzazione delle misure rilevanti risulti infine carente e, talora, più di tipo formale che sostanziale, anche per Stati con maggiori capacità.

Si pensi, ad esempio, alle odierne polemiche nel Regno Unito connesse al mancato seguito dato alle raccomandazioni sulle carenze evidenziate nel 2017 relativamente ad una simulazione di pandemia influenzale (qui e qui) o, per l’Italia, al piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale, predisposto nel 2006 nell’ambito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. In questo strumento, direttamente connesso a quanto richiesto dai Regolamenti sanitari internazionali, si dettagliavano complesse misure preparatorie, ormai divenute familiari nei loro termini anche al grande pubblico, la cui realizzazione era allocata alle varie autorità nazionali e regionali, come le richieste di: «Costituire il Comitato Nazionale per la Pandemia», prima del suo verificarsi; «Costituire, previo censimento dell’esistente, una riserva nazionale» di dispositivi di protezione individuale e altri supporti tecnici «per un rapido impiego nella prima fase emergenziale, e, contestualmente, definire le modalità di approvvigionamento a livello locale/regionale nelle fasi immediatamente successive»; «Definire misure di potenziamento dell’assistenza medica in comunità residenziali»; «Censire la disponibilità ordinaria e straordinaria di strutture di ricovero e cura, strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali, operatori di assistenza primaria»; «Sviluppare piani gestionali, armonizzati con la pianificazione nazionale, per le risorse e per i lavoratori addetti ai servizi essenziali durante la pandemia», ecc. 

Non stupisce quindi come il suo mancato aggiornamento e, soprattutto, l’apparente scarsa attuazione datane nel passato abbia poi trovato una certa eco una volta che l’Italia è stata investita dalla pandemia (quiqui), rappresentando anche una delle basi sulle quali si incentrano i crescenti esposti alla magistratura (quiqui).

Se il sistema OMS fornisce dei primi riscontri in materia di misure preventive, occorrerebbe però valutare anche il possibile rilievo degli obblighi sui diritti umani. Dato che, come poi accennato, alcuni ipotetici scenari potenzialmente rilevanti per il caso italiano risulterebbero astrattamente collegabili agli obblighi di natura positiva connessi al diritto alla vita, ci soffermeremo qui solo su questa ipotesi. Prendendo come parametro la prassi della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) relativamente all’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è noto come essa abbia identificato una serie di obblighi positivi volti ad imporre: misure di tipo strutturale, come la sussistenza di un apparato normativo e amministrativo funzionale a prevenire violazioni, rilevante anche rispetto all’ambito sanitario (ad es. Corte EDU, G.N. et autres c. Italie, par. 80; Lopes De Sousa Fernandes c. Portugal, par. 186); oppure di tipo operativo, parametrate rispetto alla situazione concreta in esame e valutate in un’ottica di due diligence; oltre ad obblighi procedurali di investigazione e repressione, rilevanti anche in ambito sanitario (ad es. Šilih v. Slovenia, par. 192).

Questi obblighi, anche rispetto a situazioni di disastro, trovano un crescente rilievo non solo in dottrina (qui), ma soprattutto nella prassi degli organismi di controllo, come richiamato nel recente General Comment n. 36 (2018) del Comitato dei diritti umani sull’art. 6 del Patto sui diritti civili e politici, dove si indica che «States parties should also develop, when necessary, contingency plans and disaster management plans designed to increase preparedness and address natural and man-made disasters, which may adversely affect enjoyment of the right to life». Queste indicazioni generali si aggiungono alla pregressa prassi della Corte EDU che, nell’ambito di una casistica ancora piuttosto limitata (in specie Budayeva v. RussiaÖneryildiz v. TurkeyKolyadenko v. RussiaHadzhiyska v. Bulgaria), ha constatato la violazione degli obblighi positivi di cui all’art. 2 in carenza di adeguate misure di prevenzione e preparazione rispetto ad eventi calamitosi. In questi casi si trattava di ponderazioni effettuate sulla scorta di un esame puntuale dei casi in esame, che rilevavano, ad esempio, carenze sistemiche come l’assenza di meccanismi di early warning, la conoscenza del rischio da parte delle autorità statali e la successiva inazione, la mancanza di misure di mitigazione del rischio, la carenza di indagini sugli eventi contestati, ecc.

Rispetto al contesto italiano, in via totalmente ipotetica, si potrebbe considerare che alcune vicende delle ultime settimane potrebbero, pro futuro, essere eventualmente oggetto di sindacato anche a Strasburgo, ove si ritengano esperiti i ricorsi interni. In questo contesto, i possibili scenari astrattamente sottoponibili alla Corte sembrerebbero maggiormente collegarsi a due ipotesi: il decesso di personale sanitario e di supporto che ha operato in carenza dei dispositivi di protezione individuale, situazione che ha avuto un riflesso negativo sugli stessi assistiti, come riscontrato in specie nelle residenze sanitarie assistenziali; ovvero i decessi eventualmente ricollegabili alle difficoltà riscontrate nel garantire ai malati di COVID-19 particolari trattamenti, come l’accesso alle terapie intensive o adeguate forme di assistenza connesse alle deficienze respiratorie. 

Si tratta, ovviamente, di situazioni difformi e non sovrapponibili, ma è evidente, per brevità, che alcuni obblighi positivi connessi al diritto alla vita potrebbero essere valutati nell’ottica di obblighi di risultato, inerenti all’apparato sanitario nel suo complesso, mentre altri aspetti integrano un’ottica di due diligence (per questa caratterizzazione degli obblighi rilevanti v. Pisillo-Mazzeschi). Difatti anche la presenza di un apparato amministrativo/istituzionale/sanitario va poi parametrata a valutazioni sull’effettivo funzionamento ed adeguatezza nel caso concreto e dinanzi ad un «real and immediate risk» (Corte EDU, Osman v. UK, par. 115). È ovvio che, rispetto alla casistica finora sviluppata dalla Corte EDU, saremmo dinanzi ad un unicum, rispetto al quale si possono richiamare solo alcuni generali principi. 

Alcuni elementi potrebbero avere rilievo per ridurre la porta degli obblighi gravanti sull’Italia, come ad esempio: la valutazione che, normalmente, «the States’ substantive positive obligations relating to medical treatment are limited to a duty to regulate, that is to say, a duty to put in place an effective regulatory framework compelling hospitals, whether private or public, to adopt appropriate measures for the protection of patients» (Lopes De Sousa Fernandes c. Portugal, cit., par. 186); l’usuale riconoscimento di un ampio margine di discrezionalità per gli Stati nelle scelte operative, onde evitare di richiedere misure che impongano un «impossible or disproportionate burden» (Osman v. UK, cit., par. 116), specie in presenza di «difficult social and technical spheres» (Öneryildiz v. Turkey, cit., par. 117; Budayeva v. Russia, cit., par. 135); la circostanza che il COVID-19 rappresentava un rischio di tipo biologico, aspetto che potrebbe avere rilievo ove la Corte voglia confermare alcune sue generali osservazioni su una possibile distinzione, quanto a misure preventive, fra disastri derivanti da rischi di origine naturale oppure antropica, come quelli di natura tecnologica che invece innalzerebbero il livello delle misure preparatorie richieste agli Stati (Budayeva v. Russia, cit., par. 135); le ridotte conoscenze scientifiche, specie nella prima fase quando l’Italia è stata investita; oltre alle usuali considerazioni circa la sussistenza di un margine di apprezzamento quanto all’allocazione di fondi pubblici nel settore sanitario (es. Corte EDU, Wiater v. Poland, par. 39; Lopes De Sousa Fernandes c. Portugal, cit., par. 175).

Questi elementi potrebbero però essere valutati assieme ad altri. Si pensi alla comune conoscenza nella comunità scientifica e istituzionale che un rischio pandemico era presente, come più volte richiamato dall’OMS (qui e qui), poi puntualmente realizzatosi in Cina nelle settimane antecedenti al suo dirompente effetto in Italia. Ugualmente si possono richiamare le considerazioni svolte dalla Corte in alcuni casi in cui, pur riconoscendo, come indicato, che le misure strutturali richieste agli Stati siano piuttosto limitate e difficilmente contestabili, prevede la possibilità di un eccezionale sindacato in presenza di «a systemic or structural dysfunction in hospital services … and the authorities knew about or ought to have known about that risk and failed to undertake the necessary measures to prevent that risk from materialising» (Lopes De Sousa Fernandes c. Portugal, cit., par. 192). In astratto questa ipotesi potrebbe rilevare ove, ad esempio, si concludesse che le attività preparatorie hanno evidenziato carenze strutturali rispetto ad alcune misure, come nel caso dell’indisponibilità dei meccanismi di protezione individuale, che dovevano invece considerarsi ormai come minimali, anche alla luce delle indicazioni e degli standard internazionali forniti dall’OMS e sostanzialmente ripresi a livello nazionale nel predetto piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale. Infine non si potrebbe escludere un sindacato rispetto ad eventuali scelte operativeche potevano integrare profili di negligenza nelle scelte delle autorità regionali e nazionali o degli operatori coinvolti. È tuttavia evidente come qualsiasi valutazione sia ad ora prematura.

Su un presunto obbligo di assistenza verso l’Italia

Nel dibattito, specie politico, non sono mancate affermazioni volte a sottolineare l’esigenza di un’assistenza verso l’Italia da parte degli altri Stati o dell’Unione europea in connessione all’emergenza COVID-19.

Queste affermazioni si scontrano tuttavia con il dato giuridico, rispetto al quale è difficile ammettere l’esistenza di un simile obbligo nel diritto internazionale. Sebbene questa tesi risulti principalmente collegata alla prassi del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali, secondo cui l’interpretazione dell’art. 2.1 del Patto determinerebbe che «in accordance with Articles 55 and 56 of the Charter of the United Nations, with well-established principles of international law, and with the provisions of the Covenant itself, international co-operation for development and thus for the realization of economic, social and cultural rights is an obligation of all States. It is particularly incumbent upon those States which are in a position to assist others in this regard» (v. General Comment no. 3, 1990, par. 14), questa soluzione, come già richiamato, è stata criticata dagli Stati (v. ad es., le dichiarazioni di Canada, Portogallo e Regno Unito, UN Doc. E/CN.4/2005/52, par. 76). 

Ugualmente, prima dell’emergenza COVID-19, basterebbe rifarsi ai recenti lavori della Commissione di diritto internazionale (CDI) su Protection of Persons in the Event of Disasters (sul Progetto qui). In tale contesto particolarmente dibattuta fu la redazione dell’art. 7 del Progetto, che prevede come «[i]n the application of the present draft articles, States shall, as appropriate, cooperate among themselves, with the United Nations, with the components of the Red Cross and Red Crescent Movement, and with other assisting actors». Questa norma, volta a rimarcare il principio di solidarietà che è uno dei principi informatori del Progetto, fu oggetto di particolare attenzione da parte degli Stati, con alcuni di essi che ne richiesero l’eliminazione o la riformulazione in termini non prescrittivi, oltre a sottolineare l’assenza di un obbligo di assistenza (v. Eight Report on the protection of persons in the event of disaster, parr. 142-157). Conseguentemente, il Commentario, anche in relazione ad altre norme connesse, è attento a rimarcare come il Progetto «is not intended to create additional legal obligations for either the affected States or other assisting actors» (p. 42, par. 5) e che non sussiste «a legal duty to assist» (p. 57, par. 2) per i potenziali «assisting actors», neanche nel caso in cui specifiche richieste siano ad essi indirizzate. Per questi motivi si è previsto nel Progetto unicamente un possibile obbligo procedurale per gli «assisting actors» di «expeditiously give due consideration to the request and inform the affected State of its reply» (art. 12.2), onde creare una minima pressione diplomatica a loro carico.

L’emergenza COVID-19 non sembra, al momento, permettere di registrare significativi orientamenti della prassi verso l’affermazione di un obbligo internazionale di assistenza. Si pensi, ad esempio, alla puntuale attivazione a fine febbraio, da parte dell’Italia, del Meccanismo unionale di protezione civile (Meccanismo), tramite l’Emergency Response Coordination Centre (ERCC), per richiedere agli altri Stati partecipanti dispositivi di protezione individuale. La richiesta non venne evasa (qui), suscitando le aspre critiche anche del nostro Ambasciatore presso l’UE, Maurizio Massari (qui), che, tuttavia, correttamente, non è potuto andare oltre ad una dialettica diplomatica, dato che neanche negli strumenti giuridici che disciplinano il Meccanismo si prevede un obbligo di assistenza per gli Stati coinvolti. Già come previsto nell’iniziale Decisione 1313/2013, il Meccanismo prevede solo la possibilità per gli Stati di «sollecitare assistenza» (art. 15.2), con la possibilità per la Commissione, per il tramite dell’ERCC, di inoltrare la richiesta agli altri Stati. In questo caso, con una rationon difforme all’art. 12.2 del Progetto della CDI e principalmente per razionalizzare l’eventuale assistenza, si prevede solo che «[l]o Stato membro che ha ricevuto una richiesta di assistenza tra­mite il meccanismo unionale decide in tempi rapidi se è in grado di soddisfare la richiesta e informa lo Stato membro richiedente della sua decisione». 

Proprio la mancata assistenza degli Stati UE rispetto all’iniziale richiesta di supporto da parte dell’Italia per i dispositivi di protezione individuale, connessa alle più ampie problematiche relative alla circolazione di questi beni (vedi ampiamente Adinolfi), ha comunque favorito alcuni celeri sviluppi a livello europeo connessi al nuovo strumento RescEU. Va ricordato che fra le modifiche più significative al Meccanismo unionale introdotte con la Decisione 2019/420 vi era la costituzione del sistema RescEU (per valutazioni sulle prime proposte vedi Casolari). Il nuovo strumento mira, in sostanza, a facilitare la costituzione di una capacità di riserva per alcune risorse funzionali al Meccanismo, quando «l’insieme delle risorse esistenti a livello nazionale nonché i mezzi preimpegnati dagli Stati membri nel pool europeo di protezione civile non sono in grado, in determinate circostanze, di garantire una risposta efficace ai vari tipi di catastrofi», in specie «nel settore della lotta aerea agli incendi boschivi, degli incidenti di tipo chimico, biologico, radiologico e nucleare, nonché della risposta sanitaria d’emergenza» (art. 12). Le risorse sono acquisite dagli Stati, ma largamente sovvenzionate dalla Commissione, a cui spetta «la decisione relativa alla loro mobilitazione e smobilitazione […] in stretto coordinamento con lo Stato membro richiedente e con lo Stato membro che possiede» le risorse (vedi anche Decisione di esecuzione 2019/1310)

L’emergenza COVID-19 e, soprattutto, le carenze dimostrate nel dare seguito alla richiesta di assistenza dell’Italia, hanno determinato un’ulteriore modifica al quadro normativo. Va qui ricordato che l’iniziale Decisione di esecuzione 2019/570, primo passo per rendere operativa la Decisione 2019/420 e lo strumento RescEU, ne limitava la portata alle sole ipotesi di mezzi anti-incendio e mezzi di evacuazione medica aerea, dando priorità a settori allora considerato più rilevanti stante pregresse carenze riscontrate in questi ambiti. Tuttavia, in ragione dell’emergenza COVID-19, con la Decisione di esecuzione (UE) 2020/414 del 19 marzo 2020, si è prevista l’attivazione di RescEU anche per la costituzione di scorte di materiale medico e per risorse connesse alle squadre mediche di emergenza, con una scelta prontamente salutata dalla Presidente della Commissione von der Leyen quale un esempio volto a «put EU solidarity in action». Sulla sua base è stato possibile mobilitare 50 milioni di euro, poi portati ad 80 milioni, per la creazione di una riserva strategica anche di materiale medico, sostenuta al 90% dalla Commissione e al 10% dagli Stati, dando poi compito all’ERCC di provvedere alla definizione della distribuzione ove necessario, come avvenuto nelle settimane passate con i primi invii a Stati beneficiari quali Italia, Spagna e Croazia (qui). In questo ambito, quindi, tramite la realizzazione di strategie comuni ispirate ad un principio di solidarietà si è cercato di superare l’ostacolo giuridico dell’assenza di un obbligo di puntuale assistenza nel diritto internazionale o europeo.

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