diritto dell'Unione europea

Il monito della Corte costituzionale tedesca sul futuro del processo di integrazione europea

Giulia Rossolillo, Università di Pavia

1. La sentenza della Corte costituzionale tedesca dello scorso 5 maggio sul Public Sector Purchase Programme (PSPP) ha sollevato reazioni estremamente negative da parte di molti commentatori (per un riferimento alle varie posizioni v. De Sena, D’Acunto), che ne hanno messo in luce i potenziali effetti devastanti sul processo di integrazione europea e sulle misure in discussione in questi mesi per far fronte alle conseguenze economiche della crisi sanitaria in corso. Le stesse istituzioni dell’Unione hanno fatto muro contro il Bundesverfassungsgericht: la BCE dichiarando che la sentenza in questione non avrà influenza sulle sue decisioni e sui suoi programmi di acquisto di titoli, la Corte di giustizia ricordando di essere l’unico organo competente in via esclusiva a sindacare la compatibilità degli atti delle istituzioni con il diritto dell’Unione, e la Commissione europea addirittura minacciando di presentare un ricorso per infrazione contro la Germania.

Si tratta di prese di posizione  – queste ultime – che mirano ad evitare che la sentenza della Corte tedesca mini il fragile equilibrio tra poteri delle istituzioni europee e prerogative degli Stati membri, che ha visto negli ultimi anni le prime tentare di supplire, con la propria azione, alla paralisi dei secondi, incapaci al contempo di trovare un accordo tra loro su questioni cruciali per il processo di integrazione e di compiere il passo di mettere mano ai Trattati per attribuire alle istituzioni dell’Unione quei poteri necessari perché il livello sovranazionale possa divenire autonomo nella sua sfera di competenza.

Sebbene i toni della sentenza siano netti e le critiche alla giurisprudenza della Corte di giustizia e alla BCE non tengano in considerazione il difficile compito del quale le due istituzioni si sono fatte carico nei momenti di crisi per evitare il collasso della moneta unica, non va dimenticato che le posizioni dei giudici costituzionali tedeschi e il rischio che questa sentenza può rappresentare per l’Unione europea non costituiscono la causa del problema, bensì ne sono, al contrario, la conseguenza. Le contraddizioni del processo di integrazione europea, divenute evidenti negli ultimi anni, nei quali si è sempre più manifestata l’impossibilità di trovare un accordo tra gli Stati membri su questioni cruciali (dalla gestione dei flussi migratori, al Quadro finanziario pluriennale), esistono in altre parole indipendentemente dall’intervento del Bundesverfassungsgericht. Quest’ultimo non fa altro che metterle in evidenza, e se le sue parole possono costituire un pericolo per l’equilibrio dell’Unione, è perché la struttura attuale della stessa consente agli Stati e alle loro Corti costituzionali di avere un ruolo che in un ordinamento federale essi non avrebbero (Müller).

2. Come nota lo stesso Bundesverfassungsgericht, l’affermazione da parte della Corte costituzionale di uno Stato membro della possibilità di porre limiti alla prevalenza del diritto dell’Unione europea sul diritto interno quando siano in gioco principi fondamentali della Costituzione dello Stato non è certo una novità. Come non sono una novità i conflitti tra Corti costituzionali degli Stati membri e Corte di giustizia, come emerso da ultimo nella vicenda Taricco.

A partire dalla decisione sulla legge di ratifica del Trattato di Maastricht, tuttavia, la Corte costituzionale tedesca ha sancito la possibilità di utilizzare il principio di democrazia enunciato all’articolo 38 del Grundgesetz come limite per così dire strutturale alla prevalenza del diritto dell’Unione europea sul diritto interno. Si tratta di un limite in effetti suscettibile non solo di impedire l’applicazione di singole norme di diritto dell’Unione in contrasto con principi fondamentali della Costituzione tedesca, bensì di intervenire sui meccanismi stessi di funzionamento dell’Unione (e sulle tecniche di interpretazione del diritto: Ziller), consentendo di sindacare il rispetto da parte delle istituzioni europee delle competenze loro attribuite dai Trattati.

Secondo il Bundesverfassungsgericht, l’articolo 38 della Legge Fondamentale tedesca, che dispone che i membri del Bundestag sono eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto e sono i rappresentanti di tutto il popolo, non si limita ad attribuire ai cittadini tedeschi il diritto di eleggere i loro rappresentanti in Parlamento, bensì implica anche che essi, attraverso l’organo che li rappresenta, influenzino e controllino l’esercizio del potere politico. Tale disposizione, letta congiuntamente all’articolo 23 del Grundgesetz – la disposizione relativa alle limitazioni di sovranità a favore dell’Unione europea – comporta che siano contrari alla Costituzione tedesca tutti quei trasferimenti di competenze al livello sovranazionale che comportino una limitazione dei poteri fondamentali del Bundestag e al contempo sottraggano al controllo da parte dei cittadini l’esercizio di tali poteri, circostanza che si verificherebbe, in particolare, qualora il Bundestag venisse privato dei suoi poteri in materia di bilancio, ovvero del diritto di decidere sugli oneri fiscali gravanti sui cittadini e sulle spese dello Stato. Si ricadrebbe infatti in queste ipotesi in una violazione dell’articolo 20 della Costituzione, che riconduce il potere statale al popolo, uno dei principi che l’articolo 79 del Grundgesetz considera immodificabili tramite revisione costituzionale.

Partendo dal presupposto che i Trattati attuali configurano l’Unione come un’organizzazione fondata sulla cooperazione di Stati sovrani, che rimangono i padroni dei Trattati, e che dunque gli elettori tedeschi – attraverso la ratifica da parte dei loro rappresentanti nel Bundestag – abbiano accettato le limitazioni di sovranità necessarie unicamente alla creazione di un’organizzazione che non fosse in grado di autodeterminare autonomamente la propria condotta, la Corte considera quindi contrario al principio di democrazia qualsiasi tentativo da parte dell’Unione e delle sue istituzioni di affrancarsi da tale modello senza passare attraverso la procedura di revisione dei Trattati, e dunque senza l’assenso dei Parlamenti nazionali.  Da un lato, dunque, un passaggio di poteri sovrani dagli Stati membri all’Unione non potrebbe secondo la Corte avvenire in sordina, bensì richiederebbe una scelta consapevole da parte dei cittadini attraverso i loro rappresentanti. Se questa condizione non venisse rispettata, la Corte considererebbe qualsiasi atto delle istituzioni che valichi i limiti delle competenze loro attribuite come un atto ultra vires e dunque non applicabile nell’ordinamento tedesco. Dall’altro, un trasferimento di poteri sovrani alle istituzioni dell’Unione attraverso una decisione che coinvolga il Bundestag sarebbe conforme al principio di democrazia solo se la possibilità per i cittadini tedeschi di esercitare un’influenza e un controllo sul potere politico non venisse compressa, e dunque se tale influenza e controllo i cittadini tedeschi la potessero esercitare a livello sovranazionale tramite il Parlamento europeo.

3. Il fatto che l’applicazione di tale principio al processo di integrazione europea abbia avuto inizio a partire dal Trattato di Maastricht non è casuale. È infatti a Maastricht che gli Stati membri, con la decisione di creare un’Unione Economica e Monetaria fondata su una moneta comune, ma su politiche economiche e fiscali gestite ancora a livello nazionale e semplicemente coordinate a livello europeo (art. 119 TFUE), hanno dato vita a una contraddizione di fondo che negli anni si è manifestata con sempre maggiore forza (Tesauro, De Pasquale; De Sena, D’Acunto). La trasformazione dell’Unione europea da organizzazione con finalità prettamente economiche a organizzazione dotata, almeno per una parte dei suoi Stati membri, di una competenza tradizionalmente attributo della sovranità, quella monetaria, ha comportato in altre parole l’inadeguatezza di regole dettate per il funzionamento del mercato unico ad applicarsi a settori nei quali è richiesta una decisione politica. Questa contraddizione è strettamente legata ai rilievi che i giudici tedeschi muovono alla BCE e alla Corte di giustizia, e dunque al contenuto del conflitto tra Corte tedesca e istituzioni dell’Unione.

Il ragionamento dei giudici costituzionali, in particolare, si fonda su una presunta violazione da parte della Banca Centrale Europea e della Corte di giustizia del principio di proporzionalità, cioè del principio, sancito all’articolo 5 TUE, secondo il quale il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.

Secondo il Bundesverfassungsgericht, contrariamente a quanto era stato stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Weiss, con l’adozione del PSPP la BCE sarebbe andata al di là di quanto necessario per assicurare l’obiettivo di politica monetaria di mantenere la stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche economiche generali dell’Unione, e così facendo, avrebbe sconfinato nel settore della politica economica, di competenza degli Stati membri. La Corte di giustizia avrebbe poi, a sua volta, violato il principio di proporzionalità argomentando in modo incompleto e poco analitico in merito agli strumenti utilizzati dalla BCE e alla loro proporzionalità rispetto agli obiettivi perseguiti, in tal modo offuscando la distinzione tra politica monetaria e politica economica e dunque incidendo sulla ripartizione di competenze tra Unione e Stati membri. Essendo gli atti di entrambe le istituzioni qualificabili per quanto sopra detto come atti ultra vires, essi non produrrebbero effetti nell’ordinamento tedesco.

Va detto che il Bundesverfassungsgericht circonda la sua affermazione di molte cautele, sottolineando come ipotesi di questo genere si debbano verificare solo in casi eccezionali, dal momento che se gli Stati membri, attraverso i loro organi giurisdizionali, si arrogassero il potere di non applicare atti delle istituzioni che ritengono illegittimi, l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione sarebbe minata alle sue fondamenta e il principio della prevalenza sul diritto interno vanificato. Alla Corte di giustizia non viene contestato tuttavia il fatto di aver affermato un principio sostanziale contrastante con i principi fondamentali di un ordinamento, quanto di aver violato i limiti del proprio mandato limitandosi a un controllo sull’operato della BCE ritenuto dal Bundesvarfassungsgericht non soddisfacente. Senza soffermarsi sui profili problematici di una simile applicazione del principio di proporzionalità (Ziller; Martucci; Beck), va detto che questa affermazione è pericolosa, dal momento che si concreta in una possibilità di sindacare il comportamento della Corte non in ipotesi nelle quali essa non fornisca una motivazione della propria decisione, bensì quando essa fornisca una motivazione basata su valutazioni non condivise dai giudici costituzionali (Poiares Maduro).

Ma soprattutto, la possibilità che l’azione della BCE assottigli il confine tra politica monetaria e politica economica e fiscale è in qualche modo insita nei caratteri attuali dell’Unione Economica e Monetaria (De Sena, D’Acunto), che hanno di fatto portato la BCE ad estendere la propria missione dalla garanzia del mantenimento della stabilità dei prezzi al salvataggio della moneta unica.  La decisione di trasferire al livello sovranazionale solo la politica monetaria lasciando nelle mani degli Stati membri la gestione della politica economica e fiscale, solo coordinate a livello europeo, ha in effetti portato a un aumento delle disparità tra Stati membri che, se spinte oltre a un certo limite, divengono incompatibili con l’esistenza di una moneta unica (Dani, Mendes, Menendez, Wilkinson, Schepel, Chiti). In assenza di una politica economica e fiscale europea, e dunque di un bilancio di dimensioni adeguate e non dipendente dagli Stati membri, in grado di intervenire con strumenti di solidarietà per sanare gli squilibri tra gli Stati, è stata la BCE a doversi fare carico del salvataggio della moneta, attraverso i programmi di acquisti di titoli annunciati negli ultimi anni. Si tratta di misure che inevitabilmente producono anche effetti redistributivi (Kotz; De Sena, D’Acunto), perché in qualche misura sono costrette a sostituirsi a un potere politico europeo che non esiste, ma che tuttavia hanno svolto e stanno svolgendo – anche in occasione dell’attuale crisi sanitaria – un ruolo indispensabile. La BCE non poteva dunque non adottarle e la Corte di giustizia non giustificarne il fondamento.

La sentenza della Corte Costituzionale tedesca sembra dunque porre la BCE di fronte a un dilemma insolubile: costretta dagli Stati, che di fatto, con la loro inerzia, le hanno delegato tale ruolo, ad assumere funzioni che sarebbero proprie di organi legittimati democraticamente (l’assunzione di decisioni di carattere fiscale), essa si vede rinfacciare dalla Corte costituzionale di uno di essi il fatto di non avere legittimazione democratica e dunque di non poter assumere un ruolo che non le spetta (Pisani-Ferry).

4. La questione è di grande attualità, se pensiamo alle vicende che l’Europa sta vivendo in questi mesi. Anche in occasione della crisi da COVID-19 la BCE è stata la prima istituzione in grado di adottare in tempi brevi le misure necessarie per evitare un collasso dell’Eurozona, varando un piano di acquisto di titoli di 750 miliardi di euro, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), con la possibilità di concentrare detti acquisti su Stati in particolari condizioni di difficoltà. Nonostante il Bundesverfassungsgericht abbia chiarito che la pronuncia nel caso Weiss non riguarda dette misure (Press Release No. 32/2020), il rischio che esse implichino effetti redistributivi giudicati come eccessivi e che dunque si traducano in misure di politica economica potrà essere scongiurato solo se saranno affiancate da uno strumento in grado di intervenire con ingenti risorse con le quali garantire l’emissione di titoli di debito europei in grado di sostenere l’economia, soprattutto degli Stati con maggiore difficoltà a finanziarsi sul mercato. È questo il ruolo che spetterebbe al futuro Recovery Fund sulle cui modalità di funzionamento e finanziamento il Consiglio europeo ha incaricato la Commissione di elaborare una proposta. L’entità di tale fondo, come messo in luce dal Parlamento europeo nella Risoluzione del 15 maggio 2020, è strettamente legata agli esiti delle discussioni sul Quadro Finanziario Pluriennale e sulle risorse proprie, dal momento che richiederebbe un incremento delle stesse per poter garantire un’emissione di titoli adeguata.

Come sottolineato da Poiares Maduro, è proprio su questa questione che emerge il legame tra fiscalità e democrazia messo in luce dalla Corte costituzionale tedesca nella sentenza in commento. Secondo i giudici costituzionali tedeschi, in effetti, il potere di decidere sugli oneri fiscali che incombono sui cittadini e sulle spese dello Stato costituisce una delle prerogative essenziali del Bundestag. L’attribuzione parziale di tale potere anche al livello sovranazionale potrà dunque essere compatibile con il principio di democrazia solo se assicurerà un pieno controllo dell’esercizio di tale potere all’organo che a tale livello rappresenta i cittadini, il Parlamento europeo.

La possibilità di affrancare l’azione delle istituzioni dai paletti posti dal Bundesverfassungsgericht, e di dar vita a forme di condivisione del rischio realmente europee, dipende dunque dall’attribuzione all’Unione della competenza a decidere autonomamente dagli Stati membri sulle proprie entrate e sulle proprie spese. Questo comporta non solo che il bilancio dell’Unione venga finanziato da risorse proprie (Poiares Maduro, Cafaro) e non da contributi degli Stati membri (che oggi coprono all’incirca il 70% delle entrate), ma anche che la determinazione dell’entità delle risorse e della loro tipologia non dipenda più da una decisione all’unanimità del Consiglio, approvata dagli Stati secondo le rispettive norme costituzionali, come disposto dall’art. 311 TFUE, bensì da una procedura che comporti il pieno coinvolgimento del Parlamento europeo. In altre parole, che parte del “potere decisionale in materia tributaria e di bilancio sia trasferito a istituzioni europee realmente democratiche” (Vanistandael e al.; Avbelj)

In questo senso, la sentenza del Bundesverfassungsgericht fornisce delle indicazioni per il futuro.

Gli atti ultra vires delle istituzioni, infatti, possono secondo il Bundesverfassungsgericht essere legittimati ex post attraverso una revisione dei trattati con la procedura prevista dall’articolo 48 TUE. La Corte sembra dunque suggerire la possibilità di un suo atteggiamento più conciliante nei confronti delle misure adottate e in via di adozione per far fronte alle conseguenze economiche della crisi provocata dal COVID-19 se queste saranno inserite in una prospettiva di revisione a breve dei Trattati che consenta all’Unione europea di dotarsi di un primo nucleo di competenza fiscale in grado di sottrarre il finanziamento dell’Unione dalla volontà degli Stati membri e dunque di garantire un’emissione di debito realmente comune. Se la sentenza della Corte costituzionale tedesca porterà finalmente alla consapevolezza dell’esigenza di completare l’Unione Economica e Monetaria e ad adottare soluzioni di rottura rispetto agli equilibri esistenti, lo shock da essa provocato sarà stato dunque positivo (Dani, Mendes, Menendez, Wilkinson, Schepel, Chiti).

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