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La Cina è immune al COVID-19? Riflessioni sulle cause di risarcimento contro la Cina per i danni causati dalla pandemia negli Stati Uniti

Angelica Bonfanti, Università degli Studi di Milano

Dall’inizio della pandemia da COVID-19, negli Stati Uniti sono stati presentati almeno sette ricorsi contro la Cina, finalizzati ad ottenere il risarcimento dei danni subiti come conseguenza della diffusione dell’epidemia.

Ai fini della presente analisi queste cause possono essere divise in tre gruppi.

Il primo gruppo riunisce le class actions presentate contro lo Stato cinese e alcuni suoi organi – la Commissione nazionale per la salute, i Ministeri degli affari interni e per la gestione delle emergenze e le amministrazioni delle province di Hubei e Wuhan – da individui e piccole imprese dinanzi alle corti distrettuali rispettivamente della Florida il 13 marzo 2020, del Nevada il 23 marzo e della California il 27 marzo e l’8 aprile. Tali azioni – si pensi ad esempio a quelle californiane – si propongono di riunire «[a]ll small businesses in the United States, including the State of California, which sustained, among other things, financial/monetary damages and/or losses related to the outbreak of the COVID-19» (par. 49). Esse concernono, pertanto, un numero di soggetti tanto ampio – le piccole imprese negli Stati Uniti, secondo i ricorsi, sono infatti oltre 32 milioni e per la maggior parte sono state o saranno impattate negativamente dalla condotta contestata alla Cina – da giustificare, appunto, la presentazione di azioni di classe e richiedere, nel caso dell’azione californiana, un risarcimento di importo pari a 8 miliardi di dollari.

Questo gruppo di ricorsi è diretto a dimostrare la responsabilità civile della Cina per la sua condotta illecita nella gestione della pandemia, in violazione del diritto cinese e degli standard previsti dall’Organizzazione mondiale della sanità: la Cina, secondo i ricorsi, non avrebbe infatti tempestivamente notificato agli altri Stati della comunità internazionale, né adeguatamente contenuto il diffondersi della malattia. Al contrario essa l’avrebbe occultato, anche attraverso l’imposizione di misure di censura, la distruzione di prove e dati scientifici e la diffusione di informazioni false, ossia mediante condotte illecite che avrebbero, secondo i ricorsi, portato alla successiva diffusione della pandemia sul territorio statunitense. Inoltre, nell’ipotesi in cui il virus sia stato, come sostenuto da alcune ricostruzioni, elaborato dal Wuhan Institute of Virology, la Cina non ne avrebbe adeguatamente monitorato lo sviluppo, né prevenuto la diffusione.

Il secondo gruppo di cause è composto, invece, dai ricorsi presentati davanti alle corti distrettuali del Missouri il 21 aprile 2020 e del Mississippi il 12 maggio. Essi riproducono le argomentazioni sviluppate dai ricorsi del primo gruppo ma, diversamente da questi, ad agire non sono attori privati, bensì direttamente gli Stati del Missouri e del Mississippi attraverso i propri procuratori generali. I ricorsi sono diretti, inoltre, non solo contro lo Stato, ma anche contro il partito comunista cinese, il Wuhan Institute of Virology e la Chinese Academy of Sciences.

È utile specificare che tutti i ricorsi, indipendentemente dal gruppo di appartenenza, sostengono che la giurisdizione delle corti statunitensi sussista ratione personae in ragione del contatto sufficientemente stretto – identificato nel luogo in cui si sono verificati i danni lamentati in giudizio – con il foro, oltre che con il territorio degli Stati Uniti nel proprio complesso. Ratione materiae, invece, i ricorsi fondano l’esercizio della giurisdizione sul 28 U.S. Code § 1332: si tratterebbe infatti, secondo i ricorrenti, di class actions aventi valore superiore a 5 milioni di dollari (28 U.S. Code § 1332.d) – per quelle del primo gruppo – o – per le altre – di azioni civili di importo superiore a 75.000 dollari, presentate da cittadini statunitensi contro uno Stato straniero (28 U.S. Code § 1332.a). Infine, secondo tutti i ricorsi la giurisdizione si giustificherebbe sulla base del Foreign State Immunity Act (FSIA), e più precisamente alla luce delle eccezioni alla regola generale che riconosce l’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri. In particolare, i ricorsi del primo e del secondo gruppo invocano le eccezioni di cui ai § 1605(a) (2) e (5) del FSIA, secondo cui uno Stato straniero non gode del privilegio dell’immunità dalla giurisdizione civile statunitense nei casi in cui siano avanzate pretese risarcitorie connesse alle sue attività commerciali – in particolare, condotte commerciali poste in essere su territorio straniero, i cui effetti diretti si siano prodotti negli Stati Uniti – o a sue condotte o omissioni illecite.

Diversamente dai ricorsi dei primi due gruppi, la class action presentata davanti alle corte distrettuale del Texas invoca a fondamento della non sussistenza dell’immunità della Cina l’eccezione al FSIA prevista dal Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA), che ritiene applicabile al caso di specie poiché la condotta contestata allo Stato sarebbe da ravvisarsi nello sviluppo del virus nel sopracitato laboratorio di Wuhan, in violazione della Convenzione sul divieto di sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche (biologiche) e tossiniche e sulla loro distruzione (di seguito “Convenzione sulle armi biologiche”), di cui la Cina è parte. Il virus, secondo il ricorso, sarebbe da considerarsi un’arma di distruzione di massa a fini terroristici.

Tutte le cause presentano elementi che complessivamente ci inducono a escludere che le invocate eccezioni del FSIA possano trovare applicazione: riteniamo infatti, come si spiegherà nel seguito di questo post, che nei casi in esame alla Cina debba essere riconosciuta l’immunità dalla giurisdizione civile statunitense.

Dell’immunità della Cina per condotte del Partito comunista cinese, del Wuhan Institute of Virology e della Chinese Academy of Sciences

Il FSIA prevede al proprio § 1603 che la nozione di Stato straniero includa «a political subdivision of a foreign state or an agency or instrumentality of a foreign state […]». La definizione, conforme con la nozione di organo di cui all’art. 4 del Progetto di articoli della Commissione di diritto internazionale sulla responsabilità degli Stati per fatti illeciti internazionali, ricomprende pertanto i ministeri cinesi e le province convenuti in giudizio nelle cause in esame.

Le azioni del secondo gruppo, tuttavia, sono indirizzate, accanto allo Stato, anche contro enti – il Partito comunista cinese, il Wuhan Institute of Virology e la Chinese Academy of Sciences – la cui riconduzione alla nozione sopra citata merita di essere indagata. Al riguardo, il ricorso presentato in Missouri chiarisce infatti che il Partito comunista cinese «is not an organ or political subdivision of the PRC, nor is it owned by the PRC or a political subdivision of the PRC, and thus it is not protected by sovereign immunity» (par. 19), nonostante esso abbia esercitato «direction and control over the actions of all other Defendants» (par. 20) e sia «the sole governing party within China, and the Communist Party’s General Secretary becomes the president of the PRC» (par. 18).

L’argomento sviluppato dal ricorso è contraddittorio. Più in particolare, per comprendere se la regola sull’immunità dello Stato si applichi nel caso di specie ci pare che debbano essere considerati elementi dirimenti l’organizzazione effettiva dello Stato cinese e la piena coincidenza tra Partito e governo: tali fattori fanno propendere per il superamento della distinzione formale tra Stato e partito e possono condurre – in analogia con la prassi internazionale sviluppata con riferimento ad altri casi di partiti unici – ad attribuire allo Stato cinese la condotta del partito comunista (in generale, su questo tema si vedano le osservazioni di Palchetti, p. 55 ss.). D’altra parte, le peculiarità degli Stati socialisti con riguardo all’applicazione del FSIA erano già state rilevate dalla giurisprudenza statunitense, tanto che una corte aveva ritenuto che la definizione di agente utilizzata dal FSIA fosse «ill-suited to concepts which exist in socialist states» (Yessenin-Volpin v. Novosti Press Agency). Va aggiunto che la giurisprudenza richiamata nel ricorso presentato in Missouri a supporto dell’esercizio della giurisdizione nei confronti del Partito comunista cinese (Yaodi Hu v. Communist Party of China) è contrastata da altre e opposte decisioni a favore dell’estensione dell’immunità dello Stato anche a enti collegati con intensità e legami comparabili a quelli sussistenti tra il partito e la Cina (Chen v. China Central Television; Omar Rodriguez SALUDES and Olivia Saludes v. Republica De Cuba; in merito Keitner).

Considerazioni analoghe devono essere riferite, infine, anche alla Chinese Academy of Sciences e al Wuhan Institute, enti collegati nei fatti in maniera organica con lo Stato cinese, come lo stesso ricorso presentato in Missouri ammette: «the Wuhan Institute and the Chinese Academy of Sciences (collectively, the “Laboratory Defendants”), along with the Chinese Government Defendants and the CPC [ossia il Partito comunista cinese], acted in concert with one another and acted as agents and/or principals of one another in relation to the conduct described herein» (par. 32). Ciò ci conduce a concludere che, in considerazione della peculiare struttura del governo cinese, la distinzione tra Stato, partito e istituti di ricerca nazionali sia necessariamente attenuata, se non fuorviante.

Le eccezioni relative alle attività commerciali e illecite dello Stato straniero

Ai sensi del § 1605(a) (2) del FSIA con “attività commerciale” ci si riferisce a un «regular course of commercial conduct or a particular commercial transaction or act. The commercial character of an activity shall be determined by reference to the nature of the course of conduct or particular transaction or act, rather than by reference to its purpose». È pertanto doveroso interrogarsi sulla natura commerciale delle attività dello Stato cinese indicate come rilevanti, nei casi di specie, ai fini del superamento dell’immunità dalla giurisdizione civile statunitense.

Diversamente dalle cause del primo gruppo, che non forniscono motivazioni circa la presunta natura commerciale delle attività cinesi (Keitner), i ricorsi presentati in Missouri e Missisippi articolano la propria argomentazione sul presupposto per cui «the conduct of Defendants described below arises out of commercial activities that have caused a direct effect in the United States […], including, but not limited to: (1) operation of the healthcare system in Wuhan and throughout China; (2) commercial research on viruses by the Wuhan Institute and Chinese Academy of Sciences; (3) the operation of traditional and social media platforms for commercial gain; and (4) production, purchasing, and import and export of medical equipment, such as personal protective equipment (“PPE”), used in COVID-19 efforts» (par. 40).

Secondo chi scrive, sempre che ne sia dimostrabile il nesso causale con i danni lamentati in giudizio,  la natura iure gestionis delle attività, da escludersi certamente con riguardo alle attività sanitarie, di ricerca condotte nei laboratori scientifici indicati e a quelle di comunicazione sui social media – che sono sostanzialmente coincise con attività di censura imposte dal governo (par. 79 ss.) – non ricorre nemmeno nell’ultima ipotesi, ossia con riguardo alla produzione, commercializzazione, importazione ed esportazione di dispositivi di protezione individuale (DPI). La condotta commerciale contestata alla Cina consisterebbe nel presunto accaparramento su scala mondiale di questi prodotti medicali, anche attraverso l’adozione di misure di restrizione delle esportazioni di DPI, fenomeni che avrebbero trasformato la Cina «from being a net exporter of personal protective equipment, as it is the largest producer in the world, to a net importer» (par. 133), con la conseguenza di «adversely impair […] the ability of health care providers throughout the world, including in the United States and in Missouri, from safely and effectively treating patients with the virus» (par. 138).

Occorre ricordare che la disponibilità di DPI ha rappresentato un aspetto altamente critico durante la pandemia da COVID-19, tanto che più di 70 Stati hanno adottato misure restrittive all’esportazione dei prodotti in questione, al fine di garantire la diponibilità interna e tutelare la salute pubblica (WTO, Export prohibitions and restrictions, 23 aprile 2020); in merito si rinvia al post di Adinolfi). Tra questi la Cina, che, non esercitando in queste circostanze un’attività iure gestionis, bensì intervenendo iure imperii nell’esercizio delle proprie funzioni di regolamentazione del commercio di prodotti medicali essenziali per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ne ha limitato l’esportazione. Per completezza, si deve aggiungere, peraltro, che a partire da marzo le esportazioni cinesi di DPI hanno ricominciato a crescere e che gli Stati Uniti ne sono oggi nuovamente il maggiore destinatario (Bown).

Con riferimento, invece, all’eccezione all’immunità giurisdizionale dello Stato straniero di cui al §1605(a)(5), l’interpretazione della Corte Suprema (U.S. Supreme Court, Argentine Rep. v. Amerada Hess) chiarisce che sia i danni di cui si richiede il risarcimento, sia le azioni o le omissioni illecite dello Stato straniero o del suo funzionario che, nell’esercizio delle proprie funzioni, li abbia causati, devono essersi realizzati sul territorio statunitense. La condizione, pertanto, non sarebbe avverata nei casi di specie: sempre che possa essere dimostrato il nesso causale tra i fatti contestati alla Cina e i danni subiti dai ricorrenti, i primi non si sono certamente verificati negli Stati Uniti (così Tang, Huy; Keitner).

L’eccezione all’immunità nei casi di risarcimento dei danni causati da terrorismo internazionale

Da ultimo riteniamo che non sia avverata la condizione di cui all’eccezione al  § 1605(b) del FSIA, introdotta con l’adozione nel 2016 del JASTA, secondo cui l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione delle corti statunitensi non sussiste con riguardo alle pretese di risarcimento dei danni causati da un atto di terrorismo internazionale sponsorizzato dallo Stato convenuto e realizzato sul territorio degli Stati Uniti. L’eccezione, la cui legittimità è stata criticata a livello internazionale (W. S. Dodge, Does JASTA Violate International Law?), è stata applicata nei confronti dell’Arabia Saudita con riferimento alle richieste di risarcimento dei danni causati dagli attacchi terroristici dell’11 settembre (Hamer, Green).

La class action presentata davanti alla Corte distrettuale texana sostiene che, in quanto parte contraente della Convenzione sulle armi biologiche, la Cina è responsabile di non avere posto in essere le misure necessarie per prevenire la fabbricazione, lo stoccaggio o l’utilizzo del COVID-19, virus che sarebbe, secondo questa ricostruzione, riconducibile alla nozione di arma biologica. Tale conclusione è, peraltro, in linea con quanto dichiarato il 24 marzo dal Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, secondo cui «because coronavirus appears to meet the statutory definition of a “biological agent” under 18 U.S.C. § 178(1), such acts potentially could implicate the nation’s terrorism-related statute [including] § 2332a (use of a weapon involving a biological agent)». Non è tuttavia provato – e il ricorso non offre alcuna dimostrazione in merito – che il virus sia stato sviluppato e diffuso dal laboratorio di Wuhan né, tanto meno, sono forniti elementi di prova sul fatto che esso sia stato utilizzato come arma di distruzione di massa per fini terroristici. Date queste carenze, ci sembra che l’eccezione alla regola dell’immunità giurisdizionale dello Stato straniero non possa pertanto trovare applicazione.

Gli Stati Uniti introdurranno nuove eccezioni all’immunità dello Stato straniero?

Alla luce delle riflessioni svolte, riteniamo di potere concludere che i ricorsi presentati contro la Cina non dovrebbero essere decisi dalle corti statunitensi. Nonostante le argomentazioni avanzate, alla Cina deve essere infatti riconosciuta, in conformità con il FSIA, l’immunità dalla giurisdizione civile statunitense.

In via conclusiva, preme ricordare alcune recenti iniziative legislative volte a introdurre eccezioni al FSIA specificamente finalizzate a consentire alle corti statunitensi di decidere i casi di risarcimento dei danni causati dal COVID-19: una prima proposta, lo Stop China-Originated Viral Infectious Diseases Act, è diretta a riconoscere un’eccezione all’immunità dello Stato straniero che intenzionalmente o non intenzionalmente abbia utilizzato armi biologiche; una seconda è invece indirizzata a consentire l’esercizio della giurisdizione contro gli Stati stranieri che occultano deliberatamente o distorcono le informazioni relative a emergenze sanitarie internazionali. Le proposte legislative allargherebbero l’ambito delle eccezioni all’immunità dello Stato straniero e si iscriverebbero nel solco di quella prassi – fortemente discussa nel diritto internazionale (in merito si rinvia alla nota  sentenza della Corte internazionale di giustizia sulle Immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia) e, con riferimento alla prassi statunitense, alle osservazioni di Pavoni) – favorevole a escludere l’immunità dello Stato dalla giurisdizione straniera nelle ipotesi di gravi violazioni dei diritti umani, a cui, qualora ne sia fornita adeguata dimostrazione, la condotta della Cina potrebbe essere ascritta (sul punto si rinvia al post di Marrella).

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Angelica Bonfanti

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