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La Corte di giustizia UE estende al figlio minore lo status di rifugiato a titolo derivato: il trionfo della “logica della protezione internazionale” a tutela dell’unità del nucleo familiare

Cristina Milano (Università degli Studi della Tuscia)

Con la sentenza del 9 novembre 2021, nel caso L.W. c. Repubblica Federale di Germania,  la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la direttiva 2011/95/UE (c.d. Direttiva qualifiche) consente l’estensione dello status di protezione internazionale al figlio minore del rifugiato, a titolo derivato e allo scopo di mantenere l’unità del nucleo familiare. Si tratta di una decisione particolarmente garantista nei confronti del minore non coniugato, figlio di un rifugiato, che non abbia titolo a ottenere la protezione internazionale su base individuale, non sussistendo – nei suoi confronti – un fondato timore di persecuzione o di esposizione a un danno grave nel paese d’origine. Ma l’interesse per questa pronunzia non si limita agli aspetti sostanziali della tutela dei diritti dei minori figli dei rifugiati presenti negli Stati membri. La sentenza in commento presenta, altresì, profili di interesse generale, che riguardano, per un verso, il perimetro delle disposizioni più favorevoli che gli Stati membri possono mantenere o adottare al fine di estendere il diritto di asilo ai familiari del rifugiato; per altro verso, il crescente rilievo che il richiamo al diritto internazionale dei rifugiati e dei minori gioca nella ricostruzione della “logica della protezione internazionale” all’interno del Sistema europeo comune d’asilo (SECA).

I fatti al vaglio della Corte hanno avuto origine dal ricorso presentato nel procedimento principale dalla minore L.W., cittadina tunisina, nata in Germania nel 2017, da padre rifugiato siriano e madre cittadina tunisina, la cui richiesta di asilo aveva avuto esito negativo. Nello specifico, nel 2017 l’Ufficio federale tedesco per la migrazione e i rifugiati aveva respinto la domanda di asilo avanzata da L.W., la quale, dopo aver infruttuosamente impugnato il provvedimento di rigetto dell’istanza, aveva deciso di ricorrere dinanzi al Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale tedesca). La ricorrente aveva affermato che ai figli minori non coniugati di genitori di diversa cittadinanza dovesse essere riconosciuto lo status di rifugiato, a titolo derivato, come forma di protezione dei familiari, secondo quanto disposto dalla legge tedesca in materia d’asilo, l’Asylgesetz (art. 26, parr. 2 e 5), anche nell’ipotesi in cui il suddetto status fosse stato riconosciuto a uno solo dei genitori. Inoltre, la ricorrente aveva addotto che l’art. 3 della Direttiva qualifiche – nel prevedere la facoltà per gli Stati membri di introdurre o di mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei possibili beneficiari della protezione internazionale – consentirebbe, in linea di principio, alle autorità nazionali di estendere lo status di rifugiato anche ad altri componenti del suo nucleo familiare. Tuttavia, a giudizio di L.W., siffatta estensione sarebbe stata praticabile a condizione che non sussista per il familiare una delle cause di esclusione previste dalla direttiva (art. 12) e che la situazione individuale in cui questi si trova presenti un nesso con la “logica della protezione internazionale”, integrato – nella fattispecie in esame – dalla necessità di mantenere l’unità del nucleo familiare.

Nel procedimento principale, la Corte amministrativa tedesca aveva negato alla ricorrente il riconoscimento dello status di rifugiato sulla base della situazione individuale della minore stessa, poiché quest’ultima avrebbe potuto validamente avvalersi di una protezione effettiva in Tunisia, paese di cui la bambina era cittadina. Il giudice del rinvio aveva fondato tale assunto sul c.d. principio di sussidiarietà della protezione internazionale, sancito dall’art. 1(A), par. 2, della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, che consente di negare la protezione internazionale agli individui che posseggono più di una cittadinanza, nell’ipotesi in cui essi possano godere della protezione effettiva di almeno uno dei paesi di cui sono cittadini. A tal riguardo, nella decisione relativa al caso O.A., la stessa Corte di giustizia aveva evidenziato che le circostanze che contribuiscono ad attestare se il paese d’origine di un richiedente asilo sia in grado o meno di garantire una protezione effettiva avverso atti di persecuzione sono annoverabili fra gli elementi decisivi e fondamentali ai fini della valutazione che condurrà al riconoscimento o alla cessazione dello status di rifugiato (punto 36, sent. Secretary of State for the Home Department c. O.A.). Ciononostante, il giudice del rinvio aveva ravvisato che, nel caso di specie, la situazione in cui si trovava la ricorrente avrebbe potuto soddisfare i requisiti previsti dall’Asylgesetz.Di conseguenza, sarebbe stato possibile concedere lo status di rifugiato, a titolo derivato, anche alla figlia minore nata in Germania, nonostante quest’ultima possedesse la cittadinanza di un paese terzo in cui non sarebbe stata esposta a rischio reale di persecuzione. Pertanto, sulla base di siffatta interpretazione della normativa tedesca, la ricorrente minorenne avrebbe potuto avvalersi della protezione concessa al padre, al quale lo status giuridico di rifugiato era stato, invece, riconosciuto dalle autorità nazionali nel 2015. Attraverso il rinvio pregiudiziale, il giudice tedesco aveva interrogato quindi la Corte di Lussemburgo circa la compatibilità di tale interpretazione del diritto nazionale con il disposto di cui gli artt. 3 e 23, par. 2, della Direttiva qualifiche. Nello specifico, l’art. 23, par. 2, consente ai singoli Stati di concedere ai familiari dei titolari della protezione internazionale – i quali, per la loro situazione individuale, non avrebbero diritto a tale protezione – i benefici previsti dalla direttiva in questione, compatibilmente con il loro status giuridico personale. Orbene, il giudice del rinvio aveva chiesto se le norme europee in esame dovessero essere interpretate nel senso di impedire ad uno Stato membro di adottare disposizioni nazionali più favorevoli per garantire lo status di rifugiato, a titolo derivato, al figlio minore non coniugato di un individuo che gode di tale beneficio, riconosciutogli ai sensi della direttiva 2011/95. Inoltre, il giudice tedesco si era interrogato sulla possibilità per tali normative nazionali di estendere siffatto status anche nel caso in cui il minore sia nato nello Stato membro ospitante e possegga la cittadinanza di un altro paese terzo, ove non rischierebbe di essere perseguitato. Infine, la Corte amministrativa federale tedesca aveva domandato se, al fine di risolvere la questione in esame, fosse realmente rilevante tenere in conto la possibilità del reinsediamento della minore, insieme ai suoi genitori, in Tunisia, paese terzo di cittadinanza sia della ricorrente L.W. che della madre di quest’ultima.

Nella decisione in commento, la Corte ha dichiarato, in primo luogo, che il minore che versi in una situazione come quella presentata nel procedimento principale non ha diritto a ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, a titolo individuale, in virtù della disciplina prevista dalla Direttiva qualifiche. Infatti, tale atto, in armonia con le disposizioni sancite dalla Convenzione di Ginevra, prevede che debbano essere soddisfatte due condizioni ai fini del riconoscimento dello status: da un lato, la presenza di un fondato timore di persecuzione, e dall’altro, l’incapacità o la non volontà del paese terzo di cittadinanza del richiedente di concedere un’effettiva protezione da atti persecutori (v. punti 28-30). Inoltre, la Corte ha rammentato che la normativa prevista dalla Direttiva qualifiche preclude l’accoglimento di una domanda di protezione internazionale, su base individuale, in ragione esclusivamente del fatto che un familiare del richiedente nutra un fondato timore di persecuzione o che rischi di subire gravi danni, «nel caso in cui sia accertato che, nonostante il suo legame con tale familiare e la particolare vulnerabilità che generalmente ne deriva […] il richiedente non è anch’egli esposto a minacce di persecuzione o di danno grave» (cfr. punto 35). A tal riguardo, la Corte ha richiamato la sua precedente giurisprudenza nel casoAhmedbekova, in cui aveva stabilito la necessità di considerare attentamente le minacce incombenti su un familiare del richiedente protezione internazionale, allo scopo di valutare se, a motivo del legame esistente con l’individuo vittima di persecuzioni o minacce, siffatto familiare possa correre a sua volta il rischio di subire minacce di persecuzione o di grave danno; ciò in considerazione del fatto che i familiari di una persona minacciata hanno una non trascurabile possibilità di ritrovarsi anch’essi in una situazione di forte ed evidente vulnerabilità (cfr. il considerando 36 della direttiva 2011/95, nonché la sentenza resa nella causa Ahmedbekova, punto 50).

In secondo luogo, la Corte ha sottolineato che la Direttiva qualifiche non prevede espressamente la possibilità di estendere lo status del rifugiato, a titolo derivato, ai componenti del nucleo familiare, nell’ipotesi in cui essi non ne abbiano diritto, in considerazione della loro situazione personale. In quest’ottica, l’art. 23 si limita a stabilire l’obbligo per gli Stati membri di adattare la normativa statale in maniera tale da consentire ai familiari di beneficiare di determinati vantaggi, quali, ad esempio, l’accesso all’istruzione, al mondo del lavoro, il rilascio di un permesso di soggiorno, fermi restando i limiti derivanti dal loro status giuridico personale. Inoltre, tali benefici dovranno essere concessi al solo fine di preservare il mantenimento dell’unità familiare (cfr. punto 36 e punto 68 della sentenza Ahmedbekova). Alla luce delle presenti constatazioni, nelle sue conclusioni presentate il 12 maggio 2021 l’Avvocato generale de la Tour aveva sostenuto che il legislatore dell’Unione avesse già provveduto a dotare il SECA di norme sufficientemente esaustive, volte a tutelare il rifugiato e il beneficiario di protezione sussidiaria, tenendo altresì in conto la necessità di difendere il superiore interesse del minore, in quanto familiare della persona che gode della protezione internazionale. Pertanto, l’Avvocato generale, dal cui parere la Corte si è poi discostata, aveva affermato che non dovesse essere in nessun modo “minata” l’uniformità degli status conferiti dalla protezione internazionale e, in particolare, il livello di armonizzazione che il legislatore dell’Unione ha inteso conseguire in merito ai requisiti di riconoscimento della protezione internazionale e al contenuto della stessa (v. il punto 8 delle conclusioni).

In terzo luogo, entrando nel “vivo” della sentenza, il giudice di Lussemburgo ha rammentato che l’art. 3 della direttiva 2011/95 prevede che i singoli Stati membri hanno la facoltà di introdurre norme più favorevoli, ai fini dell’individuazione dei soggetti a cui può essere riconosciuto lo status di rifugiato, a condizione, però, che tali norme siano conformi alla direttiva stessa. Pertanto, le disposizioni nazionali potrebbero contrastare con la normativa europea ove consentissero di riconoscere lo status di rifugiato a un cittadino di un paese terzo la cui situazione individuale non presenti alcun nesso con le finalità della protezione internazionale (v. punto 40). Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha constatato che uno Stato membro può estendere lo status di rifugiato al figlio minore di un cittadino di un paese terzo al quale è stato riconosciuto questo status, a prescindere dal fatto che il minore possa aver diritto a tale protezione su base individuale e anche nell’ipotesi in cui il bambino sia nato nello Stato membro ospitante, in quanto queste circostanze presentano un nesso con la logica della protezione internazionale (v. punto 44). Tuttavia, secondo quanto stabilito dai giudici europei, esistono casi in cui agli Stati membri è preclusa l’adozione di disposizioni che permettano di concedere lo status di rifugiato a titolo derivato. Si tratta delle situazioni in cui, malgrado la sussistenza di un nesso con le finalità della protezione internazionale, il figlio minore è escluso dal beneficio offerto da tale status, in forza dei motivi di esclusione indicati nell’art. 12 della direttiva 2011/95. Più precisamente, una causa di esclusione sussiste in capo agli individui che possono avvalersi di una forma alternativa di protezionerispetto a quella richiesta, la quale può essere offerta, ad esempio, da un’agenzia delle Nazioni Unite. O, ancora, sono esclusi dalla possibilità di beneficiare dello status di rifugiato coloro i quali si siano resi colpevoli di crimini particolarmente gravi o che abbiano compiuto atti contrari ai fini e ai principi sanciti nel preambolo e negli artt. 1 e 2 della Carta ONU. A queste cause di esclusione, la Corte ha aggiunto che sarebbe incompatibile con la Direttiva qualifiche una normativa nazionale che estenda al figlio del rifugiato lo status del genitore, nel caso in cui il minore possegga la cittadinanza dello Stato membro ospitante o la cittadinanza di un altro Stato che gli permetta di godere di un trattamento migliore rispetto a quello conseguente all’estensione, a titolo derivato, dello status di rifugiato.Secondo la Corte, tale interpretazione dell’art.23, par. 2, attribuisce preminenza al superiore interesse del bambino, alla luce del quale tale norma deve essere sempre interpretata, nonché applicata (v. punti 38-57). Nel caso oggetto del procedimento principale, i giudici europei hanno affermato che non ricorresse alcuna delle cause limitative della facoltà statale di introdurre norme più favorevoli e che, considerato i best interests of the child e la logica della protezione internazionale, l’estensione dello status di rifugiato del padre alla ricorrente costituisse l’opzione più adeguata a garantire l’unità del nucleo familiare, in conformità alla Direttiva qualifiche.

Infine, con riferimento all’ultima questione di cui la Corte è stata investita, i giudici europei hanno precisato che l’applicazione di norme nazionali più favorevoli a una situazione come quella della ricorrente prescinde dalla questione se sia o meno fattibile un trasferimento in Tunisia per la minore e la sua famiglia. La CGUE ha, infatti, chiarito che l’art. 23, par. 2, non può essere interpretato nel senso di escludere il riconoscimento dello status di rifugiato, a titolo derivato, qualora venga accertata la possibilità di un reinsediamento della famiglia di L.W. in Tunisia, poiché una simile lettura della norma in commento obbligherebbe il padre a rinunciare al diritto d’asilo garantitogli dalla Germania.In caso contrario, si rischierebbe di svuotare di effetto utile la riserva di cui l’art. 23, par.2, atteso che tale disposizione risponde alla ratio ben precisa di permettere al rifugiato di godere dello status che gli è stato riconosciuto, mantenendo allo stesso tempo l’unità del nucleo familiare all’interno del territorio dello Stato membro ospitante (cfr. conclusioni dell’Avvocato generale, punto 93).

La decisione in questione offre spunti interessanti non solo con riferimento agli aspetti sostanziali sinora esaminati, ma anche per quanto riguarda il rapporto tra il SECA e le fonti nazionali e internazionali. Innanzitutto, con l’interpretazione fornita in merito alla riserva di cui l’art. 23, par.2, della direttiva 2011/95, la Corteha rimarcato il rapporto di complementarità tra la normativa nazionale e quella UE, necessario al fine di raggiungere gli obiettivi previsti dal SECA, anche in presenza di una disciplina oramai armonizzata. Come ricordato dall’Avvocato generale de la Tour, infatti, mentre la precedente direttiva 2004/83 dettava soltanto norme recanti standard minimi in materia di riconoscimento della protezione internazionale, l’attuale Direttiva qualifiche contiene norme armonizzate a livello UE, aventi lo scopo di ampliare e uniformare la protezione dei rifugiati e quella dei beneficiari della protezione sussidiaria in Europa. Di conseguenza, a giudizio dell’Avvocato generale, uno Stato membro non potrebbe utilizzare il margine di discrezionalità conferito dall’art. 3 della direttiva al fine di adottare o mantenere una normativa nazionale volta a concedere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria in forza di ragioni diverse da quelle esplicitate dal SECA, e sulla base di una richiesta d’asilo che non sia individualmente considerata (v. punti 103-104 delle conclusioni). Invero, l’Avvocato generale ha sostenuto che soltanto una precisa valutazione della situazione individuale e familiarein cui si trova il titolare dello status di rifugiato consente di stabilire se esso abbia o meno la possibilità di godere del diritto al mantenimento dell’unità del nucleo familiare e in che misura i suoi familiari possano beneficiare dei privilegi previsti dalla direttiva 2011/95.  Tale constatazione si fonderebbe (tra l’altro) sulla considerazione secondo cui il legislatore europeo avrebbe istituito un sistema di protezione internazionale completo in sé stesso, che integra la protezione dei rifugiati prevista dalla Convenzione di Ginevra con una forma di protezione sussidiaria, tipica dell’ordinamento UE (v. punto 79 delle conclusioni). Pertanto, attraverso la previsione a livello nazionale di un’ulteriore forma di protezione, riconosciuta, a titolo derivato, ai familiari di un beneficiario della protezione internazionale, il legislatore tedesco avrebbe ecceduto il margine di discrezionalità garantitogli dallo strumento europeo in esame. Invero, la protezione internazionale non potrebbe essere concessa attraverso un iter che prescinda dall’esaminare individualmente la situazione personale del minore in questione (punto 77 delle conclusioni). E, nel caso di specie – come altresì riconosciuto dalla stessa Corte nella sua pronuncia – la valutazione della posizione individuale della ricorrente L.W. non avrebbe potuto condurre al riconoscimento dello status in ragione di un diritto attribuito alla minore stessa. La Corte, sconfessando la linea di argomentazione seguita dall’Avvocato generale, ha invece fatto leva sull’attinenza della legislazione tedesca con la “logica della protezione internazionale”, per valorizzare il ricorso a misure nazionali più favorevoli, ove inteso a raggiungere gli obiettivi del SECA.

Inoltre, la Corte di giustizia ha ripetutamente sottolineato la rilevanza dell’interconnessione fra le norme di diritto internazionale pertinenti e il diritto UE, al fine di assicurare una più ampia protezione al figlio minore non coniugato del rifugiato. A tal riguardo, risultano significativi i richiami alla Convenzione di Ginevra e al relativo Protocollo del 1967, che costituiscono la «pietra angolare» (cfr. punto 11 della sentenza) della tutela dei rifugiati, sulla quale si basa l’intero SECA e a cui deve essere ispirata l’interpretazione della direttiva 2011/95 (v. art. 78 TFUE). In relazione ai quesiti sottoposti al vaglio della Corte, quest’ultima ha ritenuto fondamentale rimarcare che i redattori della Convenzione di Ginevra – nel considerare la salvaguardia dell’unità della famiglia un diritto essenziale del rifugiato e raccomandando agli Stati parte di adottare i provvedimenti necessari a tal fine – hanno inteso mettere in rilievo la presenza di un solido legame tra simili provvedimenti e la logica della protezione internazionale (punto 42).  Invero, sembrerebbe che i giudici europei, nella decisione in commento, abbiano conferito al diritto internazionale un ruolo fondamentale di assistenza nel fornire una corretta interpretazione delle rilevanti disposizioni della Direttiva qualifiche. Si conferma, pertanto, un’incidenza non solo formale degli strumenti internazionali preposti alla tutela dei diritti dei rifugiati sull’interpretazione della Corte in merito alle disposizioni della Direttiva qualifiche e alla finalità della protezione internazionale (cfr. in tal senso, Casolari, La qualità di rifugiato al vaglio della Corte Ue: la ricostruzione dei diritti dei beneficiari di protezione internazionale nell’intreccio tra fonti sovranazionali e internazionali, in Quaderni Costituzionali, 2019, p. 923 ss.). Lo stesso dicasi per le prescrizioni sancite dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, e in particolare per il principio del superiore interesse del bambino, la cui prevalenza concorre ad assicurare il rispetto dell’unità del nucleo familiare (punto 18). In sintesi, la Corte ha confermato che l’effettiva tutela del rifugiato e dei suoi familiari nell’ambito del SECA non può prescindere, nel caso in esame così come in senso più generale, dal fondamentale contributo offerto dal diritto internazionale dei diritti umani.

In conclusione, la Corte di giustizia, attraverso la sentenza appena analizzata, ha inteso fornire un’interpretazione delle disposizioni sancite dalla Direttiva qualifiche che valorizza l’integrazione tra diritto UE e normative nazionali allo scopo di accrescere l’effettività del SECA, tenendo opportunamente in considerazione le norme di diritto internazionale nella ricostruzione della “logica della protezione internazionale”.È auspicabile che quest’impostazione, che ricorre nella giurisprudenza della Corte relativa alla salvaguardia dei minori cittadini di paesi terzi, e – più in generale – nei casi riguardanti la condizione di individui particolarmente vulnerabili, venga adottata in tutte le fattispecie in cui sia in discussione il godimento reale ed effettivo dei diritti connessi a uno status di protezione internazionale. Al contempo, essa pone un argine alle prassi statali che vanno nel senso di impoverire la protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo e di sperimentare nuove strategie di esclusione, basate proprio sulla limitazione del diritto al ricongiungimento familiare e sull’indifferenza per la condizione di particolare vulnerabilità dei minori migranti.

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Cristina Milano

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