diritto internazionale pubblico

La giurisdizione penale universale: quale futuro per l’Italia?

Claudia Cantone (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”)

Premessa. In data 31 maggio 2022, la Commissione per l’elaborazione del Codice dei crimini internazionali – istituita con decreto del Ministero della Giustizia del 22 marzo 2022 e presieduta dai professori Francesco Palazzo e Fausto Pocar – ha concluso i propri lavori, presentando il relativo progetto di Codice e la relazione di accompagnamento La Commissione è stata nominata al fine di adattare l’ordinamento giuridico italiano allo Statuto della Corte penale internazionale in materia di crimini internazionali e garantire il compiuto adempimento degli obblighi internazionali assunti dall’Italia in sede di ratifica (v. Roscini, pp. 493 ss.; Crippa, pp. 2 ss.).

In passato, erano già state istituite altre Commissioni ministeriali con il medesimo scopo: in particolare, si sono succedute negli anni la Commissione Pranzetti (1998), la Commissione La Greca-Lattanzi (1999), la Commissione Conforti (2002) e la Commissione Scandurra (2002). In aggiunta, erano state presentate in Parlamento anche alcune proposte di iniziativa parlamentare (come, ad es., il progetto di legge n. 2724 (Kessler) del 9 maggio 2002 e il progetto di legge n. 1638 (Iovene) del 24 luglio 2002).

Nonostante gli innumerevoli sforzi (rimasti incompiuti) per adeguare l’ordinamento italiano allo Statuto di Roma, a distanza di oltre venti anni dalla sua adozione, l’Italia ancora manca di una compiuta disciplina per il perseguimento dei crimini che rientrano nella competenza ratione materiae della Corte penale internazionale (mentre, in tema di cooperazione con la CPI, è stata approvata la legge n. 237 del 20 dicembre 2012).

Al fine di colmare la persistente lacuna dell’ordinamento, la Commissione Palazzo-Pocar ha predisposto un progetto di Codice di crimini internazionali (di seguito anche “Codice”), suddiviso in tre Titoli (Titolo I – “Disposizioni di carattere generale”, Titolo II – “Dei crimini in particolare” e Titolo III – “Modifiche legislative e abrogazioni”) e comprensivo di circa 70 articoli.

La Commissione – riprendendo l’indicazione implicitamente contenuta nel decreto ministeriale – ha opportunamente optato per la creazione di un corpus normativo, topograficamente separato dal Codice penale (sulla scia del modello tedesco).

La scelta – come si legge dalla relazione di accompagnamento – è stata motivata, in primis, da esigenze di carattere pratico, onde evitare un “appesantimento” del Codice penale con l’introduzione di 70 nuove disposizioni. Inoltre, la Commissione ha ritenuto necessario prevedere particolari adattamenti delle norme generali sia in materia di efficacia della legge penale nello spazio e di giurisdizione, sia in materia di presupposti e condizioni della responsabilità penale, considerata la differente natura dei crimini internazionali rispetto ai reati ordinari.

In materia di giurisdizione, le disposizioni che regolano l’applicabilità della legge italiana sui c.d. delicta juris gentium sono contenute negli artt. 2 e 3 del Progetto e si differenziano, sotto molteplici aspetti, dalle norme contenute negli artt. 6 e ss. c.p. In linea di massima, esse consentono alle corti italiane di esercitare, in modo più ampio, la giurisdizione sui crimini internazionali, commessi sia in Italia che all’estero, dal cittadino e/o dallo straniero.

Le brevi considerazioni che seguono saranno limitate al profilo della giurisdizione penale su base universale (con uno sguardo, da un lato, alle norme attualmente vigenti in Italia e, dall’altro, alla proposta elaborata dalla Commissione ai sensi dell’art. 3, comma 3, del progetto di Codice), provando a svolgere qualche breve osservazione sul ruolo che l’Italia potrebbe assumere nella lotta all’impunità per crimini internazionali (se, beninteso, il progetto di Codice venisse approvato in Parlamento).

La giurisdizione penale universale nel Codice penale. Come è noto, il criterio della giurisdizione penale universale consente ad uno Stato di estendere la propria potestà punitiva su gravissimi crimini internazionali commessi al di fuori dei propri confini territoriali da uno straniero nei confronti di un altro straniero. Esso si caratterizza sia per l’assenza di qualsivoglia criterio di collegamento tra lo Stato del foro e la fattispecie criminosa in questione sia per la natura particolarmente “odiosa” dei delitti che rientrano nell’ambito di applicazione di tale criterio. A tale ultimo proposito, l’opinione maggioritaria ritiene che possano essere assoggettati al regime universale il reato di pirateria, il reato di genocidio, i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il reato di tortura (sebbene la categoria dei crimini soggetti alla giurisdizione universale sia in costante evoluzione, cfr. Jeßberger, “Universal Jurisdiction”, in Cassese et al. (eds.), Oxford Companion to International Criminal Justice, Oxford University Press, Oxford, 2009, p. 555.).  

Ad oggi, l’Italia – a differenza di altri Stati dell’Unione europea, come, ad esempio, la Francia, la Germania, il Belgio, la Spagna ed i Paesi Bassi – non attribuisce alle proprie corti una competenza universale tout court per il perseguimento dei crimini internazionali.  Invero, nel Codice penale sono contenuti i criteri per l’esercizio della giurisdizione penale sulla base del principio di territorialità (art. 6), del principio della personalità attiva (art. 9), del principio della personalità passiva (art. 10) e del principio di protezione (art. 7, nn. 1-4, e art. 8). Accanto a tali criteri, sono incluse nell’assetto codicistico due disposizioni a “tendenza universalistica”, il cui campo di applicazione è, però, subordinato alla sussistenza di taluni stringenti requisiti.

Da un lato, in base all’art. 10, secondo comma, c.p., la legge italiana si applica a fatti criminosi commessi dallo straniero in territorio estero «a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero, o di uno straniero», purché il reo si trovi nel territorio dello Stato, il fatto sia punito con la pena dell’ergastolo ovvero con la reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni, e sempre che l’estradizione del reo non sia stata concessa allo o accettata dallo Stato territorialmente competente o dallo Stato di nazionalità. In quest’ipotesi, inoltre, si rende necessaria la richiesta del Ministero della Giustizia. 

Dall’altro, l’art. 7, n. 5, c.p. consente di punire secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette all’estero «[ogni] reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana». Sebbene tale disposizione sia stata originariamente concepita con l’intento di consentire la repressione dei c.d. delicta juris gentium (Relazione ministeriale del progetto di codice penale, p. 37), secondo una parte della giurisprudenza (cfr. ex multis, Corte di Cassazione, sez. I, sentenza n. 19762 del 17 giugno 2020; in senso contrario, Corte di Cassazione, sez. I, sent. n. 31652 2 luglio 2021, , con commento di Mandrioli su questo blog)  e autorevole dottrina (Treves, La giurisdizione penale nel diritto internazionale, Padova, 1973, p. 99), essa non avrebbe autonomo carattere precettivo e le norme convenzionali necessiterebbero dell’intervento del legislatore per essere recepite nell’ordinamento interno. Tra l’altro, anche a voler ammettere la natura self-executing della disposizione, l’esercizio della giurisdizione penale universale ai sensi dell’art. 7 n. 5 c.p. sarebbe comunque limitato alle sole ipotesi espressamente disciplinate dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia (cfr., ad es., l’art. 49 della prima Convenzione di Ginevra e l’art. 50 della seconda Convenzione di Ginevra).

La giurisdizione penale universale nel Progetto di Codice. Come evidente, il quadro normativo vigente in materia di giurisdizione penale universale articolato nel Codice penale si presenta alquanto insoddisfacente: esso, di fatti, sottopone l’esercizio della competenza su base universale al rispetto di numerosi requisiti. Se la Commissione avesse scelto di applicare tali disposizioni anche per il perseguimento dei crimini internazionali disciplinati nel Progetto di Codice, le corti italiane avrebbero, in concreto, avuto un margine di manovra piuttosto ristretto. Per tale ragione, è da accogliere con favore la decisione della Commissione di prevedere un regime giurisdizionale ad hoc per la repressione dei crimini internazionali ai sensi degli artt. 2 e 3 del Progetto.

Per quel che interessa in questa sede, l’art. 3, comma 3, del Progetto di Codice presenta i profili di maggiore novità poiché propone l’introduzione di un modello di giurisdizione penale universale “condizionata” alla sola presenza del reo in Italia. Segnatamente, esso prevede l’applicabilità della legge italiana allo «straniero che commette in territorio estero un crimine previsto dal presente Codice non ai danni dello Stato italiano o di un cittadino italiano, anche in eventuale concorso con un cittadino italiano», purché si trovi nel territorio dello Stato (mentre per il crimine di aggressione sarebbe necessaria altresì la richiesta del Ministro della Giustizia).

In altre parole, in virtù di siffatta disposizione, la presenza del soggetto sospettato di un grave crimine internazionale sul suolo nazionale costituirebbe l’unica condizione di procedibilità ai fini dell’instaurazione di un procedimento penale per crimini internazionali (commessi all’estero, da un cittadino straniero ai danni di uno straniero) dinanzi ad una corte italiana.

Benché la formulazione dell’art. 3, comma 3, del Progetto potrebbe apparire prima facie limitativa rispetto alla previsione di un modello di giurisdizione universale «pura» (ovverosia svincolato da qualsivoglia legame, anche transeunte, con il presunto autore del reato), considerazioni di ordine generale portano a condividere e sostenere l’impostazione seguita dalla Commissione ministeriale.

In primo luogo, la scelta della Commissione ministeriale appare la più consonante rispetto allo stato di sviluppo del diritto internazionale consuetudinario in materia di giurisdizione penale universale. Invero, sebbene il principio di universalità per la repressione dei c.d. “core crimes” sia pacificamente accettato nella comunità internazionale come norma di diritto internazionale generale, molteplici profili relativi alla sua applicazione, alle condizioni per il suo esercizio e al suo contenuto restano ancora incerti (v. es., Ryngaert, Jurisdiction in International Law, Oxford, Oxford Monographs in International Law, 2015, p. 126 ss.).

L’indirizzo prevalente ritiene che, secondo il diritto internazionale vigente, uno Stato avrebbe la facoltà – ma non l’obbligo – di perseguire un presunto autore di un gravissimo crimine internazionale se quest’ultimo viene a trovarsi sul suo territorio. Al contrario, invece, la legittimità della giurisdizione penale universale in absentia sarebbe incerta e, anzi, parte della dottrina esclude che essa possa costituire, allo stato attuale, una norma di diritto consuetudinario (v. es., Cassese, p. 591 ss.; La Manna, La giurisdizione penale universale nel diritto internazionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, p. 206; Mauro, Il principio di giurisdizione universale e la giustizia penale internazionale, Cedam, Padova, 2012, p. 141 ss.)

La questione era stata portata all’esame della Corte internazionale di giustizia nel caso sul mandato d’arresto emesso emesso dal Belgio nei confronti del Ministero degli Esteri congolese in carica, senza che quest’ultimo fosse presente sul territorio belga. Tuttavia, la CIG – anche alla luce degli argomenti sollevati dai Governi ricorrenti – ha scelto di non pronunciarsi sul profilo relativo alla giurisdizione universale in absentia, limitando l’esame al tema dell’immunità ratione personae rispetto alla commissione di crimini internazionali (e condannando il Belgio per averla violata nel caso di specie). L’argomento dell’esercizio della giurisdizione universale in assenza è stato però affrontato, in maniera discordante, nelle plurime opinioni dissenzienti allegate alla sentenza, a conferma dell’incertezza che avvolge l’argomento.

Il tema relativo a «the scope and application of the principle of universal jurisdiction» è stato recentemente inserito nell’agenda di lavoro della Commissione di diritto internazionale che, auspicabilmente, inizierà presto i lavori (interrotti a causa dell’emergenza pandemica) e aiuterà a fare chiarezza sull’ambito di applicazione della giurisdizione penale universale e, soprattutto, sulle condizioni necessarie per il suo esercizio (Commissione di diritto internazionale, Report on the work of the seventieth session (30 April – 1 June and 2 July-10 August 2018), UN Doc. A/73/10, p. 299, par. 368)

Ad ogni modo, dato lo stato ancora controverso della giurisdizione penale universale in absentia nel diritto internazionale consuetudinario, la proposta della Commissione ministeriale di subordinare il suo esercizio alla presenza del reo nel territorio italiano appare la più cauta e, perciò, anche quella maggiormente condivisibile.

In aggiunta a tali riflessioni, anche dal punto di vista del diritto interno, si può dire che la via intrapresa dalla Commissione per la formulazione dell’art. 3, comma 3, del Progetto rappresenta l’unica strada concretamente percorribile alla luce dell’organizzazione del sistema processuale italiano. Difatti, il principio di obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 Cost. si sarebbe mal conciliato con un modello di giurisdizione penale “pura”, svincolato dal rispetto di qualsivoglia condizione di procedibilità. A ragionare diversamente, le Procure italiane sarebbero state “costrette” a perseguire qualunque reato commesso all’estero dallo straniero ed esercitare l’azione penale nei suoi confronti (laddove non fossero sussistiti i presupposti per l’archiviazione).

In alternativa, la Commissione avrebbe potuto suggerire al Governo di dare avvio ad una procedura di revisione costituzionale dell’art. 112 Cost. finalizzata all’introduzione di una deroga al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale per il perseguimento dei crimini internazionali. Una simile opzione avrebbe consentito di adottare un modello di giurisdizione universale “pura” sulla falsariga di quello tedesco.

In Germania, infatti, la sez. 1 del Codice dei crimini internazionali («Völkerstrafgesetzbuch»), nella traduzione inglese, stabilisce che «This Act shall apply to all criminal offences against international law designated under this Act, to serious criminal offences designated therein even when the offence was committed abroad and bears no relation to Germany». Cionondimeno, per bilanciare l’impatto della giurisdizione universale “incondizionata” sul sistema giudiziario tedesco, il legislatore ha introdotto la sez. 153 (f) del Codice di procedura penale, in virtù della quale i pubblici ministeri godono di un ampio margine di discrezionalità sulla scelta dei casi da perseguire relativamente alla commissione di crimini internazionali (ad es., il p.m. non è tenuto ad aprire un procedimento se non è coinvolto alcun cittadino tedesco nell’attività criminosa o se il sospettato non si trova o prevedibilmente non verrà a trovarsi nel territorio della Germania). Sebbene una simile opzione avrebbe dotato le corti italiane di una competenza universale più ampia, la strada della revisione costituzionale avrebbe però ulteriormente (e indebitamente) ritardato l’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto di Roma.

Tra “global enforcer” e “safe heaven”. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si può concludere che lo schema di giurisdizione penale universale messo a punto dalla Commissione rappresenta una valida soluzione di compromesso, che si auspica trovi presto approvazione in sede legislativa.

Occorrerà in futuro interrogarsi sul ruolo che, con l’(eventuale) adozione di tale forma di giurisdizione, l’Italia intenderà svolgere nello “scacchiere” globale della giustizia penale internazionale.

I più recenti studi evidenziano una tendenza – particolarmente diffusa tra gli Stati occidentali – ad attivare la giurisdizione su base universale soltanto ove venga in gioco anche un interesse di carattere nazionale. Segnatamente, è stato rilevato che gli Stati – nell’operare la scelta sull’aprire o meno le indagini per la commissione di un grave crimine internazionale – sarebbero guidati, più che da ideali di giustizia sostanziale, dalla volontà di impedire l’ingresso di presunti criminali nel proprio territorio e/o di evitare di accogliere come rifugiati gli autori di tali gravissimi crimini internazionali. A tale riguardo, i risultati dell’indagine condotta da Langer-Eason sono emblematici: circa il 65% dei procedimenti penali iniziati su base universale tra il 1961 e il 2017 sarebbero stati condotti nei confronti di soggetti che avevano presentato, in precedenza, una richiesta d’asilo nello Stato del foro (Langer e Eason, p. 797). Inoltre, anche la diaspora delle vittime di crimini internazionali eserciterebbe una certa influenza sulla scelta degli Stati di “attivare” la propria giurisdizione universale; in particolare, i Paesi ospitanti deciderebbero di perseguire determinati delitti come parte della propria politica di accoglienza, allo scopo di creare “a safe, welcoming and hospitable society” (Mégret, p. 106) e garantire stabilità e sicurezza all’interno della propria comunità.

Tale prassi ha portato gli studiosi (v. Langer, p. 245 ss.; Ryngaert, p. 210 ss.)  a discutere su una tensione esistente tra due diverse concezioni della giurisdizione penale universale: una prima, secondo cui gli Stati sarebbero spinti ad esercitarla per la salvaguardia di un “bene pubblico collettivo” (c.d. «global enforcement conception»), una seconda, appena illustrata, secondo cui gli Stati attiverebbero la competenza universale con il principale intento di non diventare e/o essere percepiti come un “luogo sicuro” per i criminali internazionali (c.d. «safe heaven conception»).

Quale posizione sceglierà di assumere l’Italia in questa dialettica tra «global enforcer vs. safe heaven» è tutta da scoprire.

Se, da un lato, la previsione di una giurisdizione penale “condizionata” alla presenza dell’autore del reato del territorio potrebbe far propendere verso la concezione del «no safe heaven», molto dipenderà anche dal ruolo effettivo che le Procure nazionali decideranno di svolgere nella lotta ai più gravi e atroci crimini internazionali.

Invero, fermo restando che la presenza del reo del territorio costituirà una condizione di procedibilità ai fini dell’esercizio dell’azione penale, i pubblici ministeri godranno comunque di un (seppur ristretto) margine di manovra per il perseguimento dei criminali internazionali. Il punto nodale sarà capire se decideranno di “usare” tale potere ovvero se si riserveranno di agire soltanto nel caso in cui il presunto criminale dovesse trovarsi in Italia.

Difatti, anche in assenza dei presunti autori di crimini internazionali, le Procure potrebbero procedere con l’iscrizione della notizia di reato sul relativo registro e iniziare a condurre le indagini preliminari nei limiti consentiti dall’art. 346 c.p.p. (in virtù del quale «(…) in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove previste dall’articolo 392 »). I p.m. potrebbero, ad esempio, assumere le sommarie informazioni di eventuali testimoni o vittime che venissero a trovarsi nel territorio italiano, ove vi fosse il pericolo di dispersione delle prove o, comunque, ove ciò risultasse necessario. La raccolta del materiale probatorio, anche in assenza del presunto reo, potrebbe tornare utile nell’eventualità in cui quest’ultimo si presentasse nel territorio nazionale, ma potrebbe altresì servire per potenziali future richieste di cooperazione da parte di altri Stati (ad es., lo Stato ove è stato commesso il reato o lo Stato di nazionalità del reo).

In tal modo, le Procure italiane potrebbero dimostrare all’intera comunità internazionale la propria capacità e volontà di attivarsi per il perseguimento dei più gravi crimini, anche a prescindere dalla sussistenza in concreto di un interesse di rilevanza nazionale. Un simile modus operandi promoverebbe e rafforzerebbe l’idea che la principale ratio ispiratrice della giurisdizione universale – che idealmente dovrebbero guidare gli Stati nell’esercizio della stessa – è la necessità di non lasciare impuniti i più odiosi delitti internazionali e assicurare giustizia alle vittime di tali atrocità, mettendo da parte gli egoismi nazionali per il perseguimento di supremi interessi di giustizia collettiva.

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