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Tutto è bene quel che finisce (bene?): prime considerazioni sul lodo Green Power c. Spagna

Giuliana Lampo (Università di Napoli Federico II)

Il 16 giugno 2022, un Tribunale arbitrale in materia di investimenti costituito sotto l’egida della Camera di commercio di Stoccolma (SCC) ha reso la propria decisione nel caso Green Power Partners K/S e SCE Solar Don Benito APS c. Spagna (per una breve sintesi si veda Bohmer).

La controversia s’inscrive in un contenzioso seriale instaurato da investitori stranieri contro diversi Stati membri dell’Unione europea (UE), e in particolare contro la Spagna, in ragione delle modifiche da essi apportate alla disciplina sugli incentivi alla produzione di energie rinnovabili. Nel caso di specie, infatti, gli investitori sono due società danesi che, tra il 2008 e il 2011, hanno investito nella realizzazione di diversi impianti fotovoltaici sul territorio iberico. A seguito di alcuni interventi legislativi da parte delle autorità spagnole, gli stessi hanno deciso di azionare la clausola arbitrale di cui all’art. 26 del Trattato sulla carta dell’energia (ECT), lamentando una perdita di profittabilità dei propri investimenti. Lo Stato convenuto, tuttavia, supportato dalla Commissione europea in veste di amicus curiae, si è costituito in giudizio negando la giurisdizione del Tribunale. A suo avviso, la clausola arbitrale è inoperante nelle controversie intraeuropee, ovvero tra un investitore di nazionalità di uno Stato membro dell’UE e un altro Stato membro.

Si tratta, come è noto, di una tesi in vario modo sostenuta dagli Stati membri dell’UE convenuti dinanzi a tribunali arbitrali in materia di investimenti e dalle sue istituzioni da ormai più di un decennio, sin dall’inserimento – con il Trattato di Lisbona – degli investimenti esteri diretti tra le materie di competenza esclusiva dell’Unione (art. 207 e 3(1)(e) del Trattato sul funzionamento dell’UE). Il caso Green Power, tuttavia, è il primo nel quale l’orientamento degli Stati membri e dell’UE sia stato accolto, con la conseguenza che il Tribunale ha effettivamente concluso di non poter conoscere della controversia.

Per pervenire a una simile conclusione, il collegio arbitrale ha interpretato l’art. 26 dell’ECT sulla base dei consueti canoni ermeneutici codificati agli art. 31 e 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (CVDT). Dopo aver riconosciuto che il significato ordinario dei termini dell’art. 26 fosse inequivocabilmente quello di un’offerta ad arbitrare incondizionata (in particolare, richiamando l’art. 26(3)(a), in forza del quale «each Contracting Party hereby gives its unconditional consent to the submission of a dispute to international arbitration»; par. 339-342), esso ha tuttavia ritenuto che altre norme dell’ECT, in particolare quelle sul regime delle Organizzazioni regionali di integrazione economica (REIO; l’UE è l’unica REIO ad aver ratificato l’ECT), così come altri atti normativi adottati dall’Unione e dai suoi Stati membri – presi in considerazione come contesto, accordi successivi, prassi successiva nell’applicazione dell’ECT e «altre norme pertinenti di diritto internazionale applicabili alle relazioni fra le parti», ex art. 31(2)-(3) CVDT – contribuissero a delineare un quadro significativamente differente, contenente «several prior indications […] of the shared understanding conveyed by Spain and Denmark, as well as 20 other EU Member States, of the relations between EU law and the ECT on the specific issue of investment arbitration» (par. 380).

Dinanzi a tali elementi tra di loro contrastanti, il Tribunale ha quindi ritenuto che «interpreting Article 26 ECT without resorting to EU law is inconclusive in the circumstances of this case. In the context of intra-EU cases, Article 26 ECT could be interpreted as rendering the Respondent’s offer to arbitrate invalid in the sense of “to be disapplied” […]. Therefore, […] the Tribunal must determine whether such conclusion would be the correct one when Article 26 is interpreted in the light of the wider body of legal relations between Denmark and Spain, specifically, the relevant norms of EU law» (par. 412). In aggiunta a ciò, il Tribunale ha ritenuto che la normativa europea costituisse diritto applicabile anche in quanto diritto domestico dello Stato della sede del procedimento, fissata dalle parti in Stoccolma (par. 153-172 e 412).

Adottando l’angolo visuale dell’UE, il Tribunale ha quindi concluso che l’art. 26 dell’ECT non potesse operare nel caso di specie (par. 413 ss.); una conclusione, questa, alla quale il Tribunale è pervenuto richiamando la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia dell’UE sull’incompatibilità dell’arbitrato intra-UE con l’assetto normativo dell’Unione (nello specifico, le decisioni Achmea, Komstroy e PL Holdings, su cui si vedano i contributi di Munari e Cellerino, Zarra e Cellerino in questo Blog).

Nel concorso dei due regimi convenzionali – l’UE e l’ECT – il Tribunale ha quindi accordato priorità al primo rilevando che «the primacy of EU law in the relations between EU Member States […] is not a matter of lex specialis or of lex posterior, but one of lex superior. […] The arguments of the Claimants in this arbitration […] would lead to disregard the overriding character of a lex superior deemed as such by the relevant States: Denmark, Spain, Sweden and indeed all EU Member States» (par. 469-470).

Molteplici sono gli aspetti di interesse della decisione qui in commento, alcuni dei quali non hanno mancato di generare un acceso dibattito in dottrina. Ci si riferisce, in particolare, alla qualificazione del diritto dell’UE quale lex superior per gli Stati membri e al conseguente riconoscimento dell’operatività del primato dinanzi al Tribunale (sul punto si veda, su tutti, Lavranos). Lo spazio limitato del presente contributo non consente tuttavia un’analisi dettagliata di ciascuna delle argomentazioni che il collegio arbitrale ha impiegato per giungere a declinare la propria giurisdizione sulla controversia; ci si soffermerà quindi su alcuni punti della decisione che meritano, a nostro avviso, analoga se non maggiore attenzione.

Un primo aspetto di interesse consiste nel fatto che il procedimento avesse sede in uno Stato membro dell’UE. A tal riguardo, il Tribunale ha ritenuto che l’art. 26(6) ECT, in forza del quale «[a] tribunal […] shall decide the issues in dispute in accordance with this Treaty and applicable rules and principles of international law», disciplini il solo diritto applicabile al merito della controversia (una conclusione, questa, condivisa dalla maggior parte della giurisprudenza arbitrale in materia di investimenti: si vedano i casi RWE c. Spagna, par. 315; Vattenfal c. Germania, par. 108-122; SolEs Badajoz c. Spagna, par. 155-159; Stadtwerke c. Spagna, par. 137). Similmente, le regole arbitrali della SCC (nella versione risalente al 2010) sono silenti sul diritto applicabile alle questioni giurisdizionali (contenendo soltanto una disposizione, l’art. 22, sul diritto applicabile al merito della controversia). Essendo Stoccolma la sede del procedimento, il Tribunale ha quindi ritenuto applicabile la legislazione svedese in materia di arbitrato (Swedish Arbitration Act, del 1999), la quale, alla Sezione 48, dispone che, quando le parti non abbiano scelto la legge applicabile alla giurisdizione, questa sia proprio quella dello Stato della sede, di cui, nel caso di specie, il diritto dell’UE costituisce parte integrante.

Ebbene, in proposito, va riconosciuto che la rilevanza dell’ordinamento dello Stato della sede nel contesto di procedimenti localizzati (essenzialmente, quelli non amministrati dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie tra Stati e investitori stranieri, ICSID) appare indiscutibile e, d’altra parte, essa è stata più volte riconosciuta dalla giurisprudenza arbitrale (Achmea c. Slovacchia, par. 225; PV Investors c. Spagna, par. 263).È infatti minoritaria la tesi secondo la quale sarebbe impossibile, anche in simili procedimenti, determinare la sussistenza della giurisdizione con riferimento a un sistema normativo diverso dall’accordo internazionale fonte della giurisdizione stessa (si vedano, ad es., PL Holdings c. Polonia, par. 309; RREEF c. Spagna, par. 74). Ad ogni modo, ciò che non appare del tutto chiaro è il peso attribuito dal Tribunale alla circostanza che il procedimento in esame fosse localizzato in uno Stato membro dell’UE. Da un lato, infatti, la decisione prudentemente ammette che «[t]he question of whether or not EU law applies to the determination of jurisdiction and, if so, the extent to which it does so, does not arise in the same manner in the circumstances of this arbitration as in ICSID proceedings» (par. 441). D’altro canto, il Tribunale sembra aver esteso il proprio ragionamento ben oltre i soli arbitrati dotati di sede, attraverso l’attribuzione di rilevanza alle norme dell’UE e ad atti adottati dall’Unione non soltanto in quanto diritto interno della sede ma anche e soprattutto in quanto diritto internazionale utilizzabile nei vari passaggi in cui si articola l’interpretazione dell’art. 26 dell’ECT, in quanto tale utile a ricostruire tale norma e l’ECT in generale come un sistema di per sé aperto al diritto dell’UE. Nelle parole del Tribunale, infatti, «in order to determine whether it has jurisdiction to hear the claims […], it must take Article 26 ECT as a starting point and then consider and, if necessary, apply other rules of both international law and domestic law, as relevant for each question. Such applicable rules include the rules of EU law relevant for the determination of the jurisdictional objection ratione voluntatis, whether EU law is applied as international law or as part of the law governing the agreement to arbitrate in accordance with Swedish law» (par. 413-414, corsivo nostro).

Il secondo elemento di sicuro interesse che la decisione presenta è relativo proprio alla rilevanza del diritto dell’Unione quale diritto internazionale utile ai fini dell’interpretazione dell’art. 26 dell’ECT. Al di là dell’effettivo valore interpretativo dei singoli atti delle istituzioni UE e degli Stati membri richiamati dal Tribunale, è possibile svolgere sul punto una considerazione di carattere generale.

Se appare certamente vero, come testimoniato dalla dottrina menzionata dallo stesso Tribunale (v. Gardiner, p. 303; v. anche il Report sulla frammentazione della Commissione del diritto internazionale, par. 470 ss.) che la non appartenenza di alcuni degli Stati parte dell’ECT all’UE non precluda in astratto il ricorso al diritto dell’Unione a fini interpretativi, non può non notarsi come la rilevanza di questo diritto appaia fortemente ridimensionata da alcune peculiarità dello specifico trattato oggetto di interpretazione – l’ECT –, che il Tribunale ha omesso di considerare. Ci riferiamo alla circostanza che gli Stati parte dell’ECT abbiano inteso creare un regime uniforme e non modificabile nei rapporti inter se di alcune parti (sulla non modificabilità inter se delle disposizioni in materia di risoluzione delle controversie dell’ECT ci sia consentito rinviare ad un nostro recente lavoro, p. 313 ss.). In primo luogo, nel disciplinare il rapporto tra l’accordo e altri trattati precedenti o successivi, l’art. 16 dell’ECT prevede che le norme di un altro trattato possano prevalere soltanto laddove più favorevoli per gli investitori; non sembra essere questo il caso del diritto dell’UE, mirando esso a rimuovere il diritto di ricorrere all’arbitrato del quale l’investitore gode ai sensi dell’ECT (in tal senso Eskosol c. Italia, par. 101-102). Inoltre, l’ECT contiene, all’art. 46, un divieto assoluto di riserve (Belenergia c. Italia, par. 335-337). Infine, occorre ricordare che durante le negoziazioni dell’ECT l’UE aveva espressamente proposto di inserire nell’accordo una c.d. clausola di disconnessione (vale a dire una clausola che renda inapplicabili le disposizioni di un trattato ai rapporti interni di alcune delle parti dello stesso); tale proposta, tuttavia, non fu mai accolta. Come accennato, la giurisprudenza arbitrale ha sistematicamente valorizzato tali elementi per ricostruire l’oggetto e lo scopo dell’ECT, precisando come questo intenda creare un sistema quanto più possibile uniforme e impermeabile alle modifiche a detrimento dei singoli investitori. Nelle parole del Tribunale arbitrale in BayWa R.E. c. Spagna (par. 276), «it is very doubtful whether the abrogation inter se of the ECT as between EU Member States is compatible “with the effective execution of the object and purpose of the [ECT] as a whole”. Article 16 of the ECT suggests that it is not, since it evinces an intent […] to preserve the rights of investors and investments, which constitute a major plank of that multilateral treaty» (così anche Vattenfall c. Germania, par. 198; Plama c. Bulgaria, par. 141 e 148). Quasi tutte le pronunce qui citate, è doveroso notarlo, si riferiscono alla posizione dell’UE per la quale il Trattato di Lisbona rappresenterebbe una modifica inter se dell’ECT ex art. 41 CVDT; una posizione che – a differenza di quanto sostenuto dall’Unione e dal Tribunale nel caso di specie – poggia sul presupposto che l’ECT non escluda le controversie intra-UE dal proprio ambito di applicazione. Esse sono ad ogni modo rilevanti, a nostro avviso, nella misura in cui ricostruiscono le norme dell’ECT appena richiamate come preclusive della possibilità di ritenere che tale trattato ammetta una diversificazione su base soggettiva degli obblighi nello stesso contenuti, al di fuori di quelle espressamente autorizzate. L’analisi del Tribunale appare quindi carente sotto questo profilo, considerando che esso ha finito per sovvertire un significato ordinario dei termini dell’art. 26 dell’ECT dallo stesso riconosciuto come chiaro nel senso di un’offerta ad arbitrare «unqualified by any carve-out for intra-EU investor-State arbitrations, and […] “unconditional”» (par. 341). Ciò appare ancora più vero laddove si consideri che gli elementi dell’ECT che esso ritiene di segno contrario e in grado di rendere il trattato «permeabile» al diritto dell’UE sembrano, in effetti, non del tutto idonei allo scopo. In particolare, il Tribunale fa leva sull’art. 25 dell’ECT, ai sensi del quale «[t]he provisions of this Treaty shall not be so construed as to oblige a Contracting Party which is party to an Economic Integration Agreement […] to extend, by means of most favoured nation treatment, to another Contracting Party which is not a party to that EIA, any preferential treatment applicable between the parties to that EIA as a result of their being parties thereto», ritenendo che la norma «recognises that the network of legal relations among the States that are parties to a REIO may be different from the relations between a State party to such REIO and the ECT Contracting Party which is not a party to such REIO» (para. 350). Sebbene tale ultima affermazione sia indubbiamente vera, la disposizione disciplina esclusivamente il rapporto tra gli Stati membri di una REIO e gli Stati terzi parte dell’ECT; nulla dice sulle norme applicabili nei rapporti reciproci tra i primi (Silver Ridge c. Italia, par. 219).In conclusione, destano perplessità alcune carenze argomentative riscontrabili nella decisione che non consentono di comprendere appieno quale possa essere il peso della stessa nei più numerosi procedimenti privi di sede amministrati dall’ICSID, soprattutto alla luce del fatto che la lettura fornita dal Tribunale dell’ECT come di un sistema aperto al diritto dell’Unione non appare del tutto coerente con i canoni ermeneutici di cui alla CVDT. Ad ogni modo, le menzionate peculiarità dell’ECT che lo rendono uno dei trattati in materia di investimenti più favorevoli agli investitori e che garantiscono a questi «an almost unprecedented remedy for [their] claim against a host state» (Plama c. Bulgaria, par. 141) sono da lungo tempo oggetto di un processo di riforma la cui necessità non è avvertita dalla sola UE ma anche dalla società civile e dagli altri Stati parte dell’ECT.

Questi ultimi, del resto, sembrano avere ormai accolto le istanze dell’Unione: le negoziazioni in corso per l’ammodernamento dell’ECT hanno portato infatti all’introduzione di una disposizione specifica «that clarifies that [Article 26] shall not apply among Contracting Parties that are members of the same [REIO] in their mutual relations», come reso pubblico dalla Conferenza della carta dell’energia, organo istituito dall’ECT al quale partecipano tutte le parti della stessa, con comunicazione dello scorso 24 giugno. Letto alla luce di tale più ampio contesto, il caso Green Power rappresenta quindi un fondamentale e, per certi versi, necessario punto di svolta nella vicenda che ha visto contrapporsi, per ben più di un decennio, l’UE e i tribunali arbitrali in materia di investimenti.

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