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Blessed be the fruit. Un’analisi di genere della sentenza Dobbs della Corte suprema statunitense alla luce del diritto internazionale dei diritti umani

Sara De Vido (Università Ca’ Foscari di Venezia)

1. La Corte suprema degli Stati Uniti si è pronunciata (con sei giudicia favore, tre contro) il 24 giugno 2022 nel caso Dobbs, State Health Officer of the Mississippi Department of Health et al. v. Jackson Women’s Health Organization et al., operando il temuto overruling della sentenza Roe v. Wade del 1973, la quale garantiva copertura costituzionale sul piano federale del diritto ad accedere a procedure di interruzione della gravidanza. In duecento pagine, incluse opinioni concorrenti e dissenzienti, la Corte suprema, che al momento presenta una composizione particolarmente conservatrice, ha negato che la Costituzione federale statunitense garantisca il diritto delle donne di avere accesso all’interruzione di gravidanza e ha «restituito l’autorità [di decidere in materia] al popolo e ai suoi rappresentanti eletti» (p. 69). L’oggetto del ricorso era il Gestational Age Act del Mississippi, secondo il quale, ad eccezione di situazioni di emergenza medica o in caso di serie malformazioni fetali, una persona non potrà «intentionally or knowingly» praticare o indurre un aborto di un «unborn human being» (la scelta delle parole è particolarmente significativa nella legislazione di taluni Stati) se è stato determinato che l’età gestazionale probabile dell’essere umano non ancora nato sia superiore a 15 settimane. Una clinica abortiva, la Jackson Women’s Health Organization, impugnava l’atto ritenendolo in violazione dei precedenti giurisprudenziali che avevano stabilito il diritto costituzionale all’aborto, in particolare Roe v. Wade (1973, da qui in poi Roe) e Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey (1992, da qui in poi Casey). La Corte distrettuale e la Corte del Fifth Circuit confermavano la richiesta dei ricorrenti, invocando appunto i precedenti giurisprudenziali già citati. La Corte suprema degli Stati Uniti accettava di concedere il riesame del caso tramite il certiorari. L’analisi della sentenza che si propone in questo post non si concentrerà sul diritto costituzionale americano (Bernick per un primo commento in materia; sugli effetti della sentenza, si veda ampiamente Cohen et al.), questione che non compete al giurista internazionalista, ma, dopo un necessario inquadramento delle precedenti Roe e Casey e una sintesi del merito di Dobbs,affronterà tre profili: il primo, l’impatto della decisione sui diritti delle donne negli Stati Uniti; il secondo, l’inesistenza del diritto all’aborto quale diritto fondamentale ma l’esistenza di obblighi in capo agli Stati in materia di accesso all’interruzione di gravidanza discendenti da strumenti internazionali di tutela dei diritti umani; il terzo, l’accesso all’aborto quale questione di genere. In questa sede non saranno trattate le questioni morali e giuridiche relative all’interesse alla vita potenziale del feto (si veda a riguardo l’analisi completa di Greasley).

2. I precedenti. La Corte suprema statunitense, nella sentenza relativa al caso Roe,aveva sostenuto che il diritto all’aborto, ancorché non esplicitamente protetto dalla Costituzione americana, si ricavasse dal diritto alla privacy, anch’esso peraltro non espressamente incluso nella Costituzione ma ricavabile tanto dal Quattordicesimo emendamento quanto, come argomentato dalla Corte di prima istanza pronunciatasi sul caso, dal Nono emendamento: «This right of privacy, whether it be founded in the Fourteenth Amendment’s concept of personal liberty and restrictions upon state action, as we feel it is, or, as the District Court determined, in the Ninth Amendment’s reservation of rights to the people, is broad enough to encompass a woman’s decision whether or not to terminate her pregnancy» (par. 77). La Corte suprema aveva riconosciuto l’interesse legittimo dello Stato nella vita potenziale al momento della viability, quando il feto ha presumibilmente la capacità di vivere al di fuori del ventre materno (28 settimane, ha riferito la Corte, ma potrebbe avvenire anche prima grazie alle conquiste della scienza), e identificato tre momenti della gestazione: il primo trimestre, quando uno Stato non può regolare l’aborto, pur potendo richiedere che l’aborto sia praticato da uno specialista provvisto di licenza e in condizioni mediche sicure; il secondo trimestre, quando lo Stato può regolare l’interruzione di gravidanza se ciò è ragionevolmente correlato alla salute della donna; il terzo trimestre dove l’interesse dello Stato prevale sul diritto alla privacy del singolo. La successiva sentenza Casey aveva confermato la tesi principale di Roe in base alla regola dello stare decisis, pur rigettando la rigida suddivisione in tre trimestri operata dai giudici. In Casey, piuttosto, la Corte Suprema ha sostenuto che le misure adottate dallo Stato per proteggere la vita potenziale durante la gravidanza non devono costituire un undue burden per la donna. In base a questo standard, hanno sottolineato i giudici, gli Stati non possono impedire ad una donna di decidere di interrompere la gravidanza prima della viability.

3. La sentenza Dobbs opera l’overruling su sollecitazione di Dobbs, secondo cui Roe e Casey «were wrongly decided». La Corte suprema avrebbe potuto limitarsi certo a pronunciarsi sull’atto del Mississippi – come del resto aveva sostenuto il presidente Roberts (si veda la sua opinione concorrente, p. 2) – ma si è spinta oltre, fino a revocare una sentenza che dal 1973 protegge le donne dai tentativi degli stati federati più conservatori di limitare, in modo più o meno diretto, colpendo talvolta anche i fornitori del servizio, l’interruzione di gravidanza. Senza pretesa di esaurire la complessità del ragionamento, si propongono qui alcuni punti salienti della sentenza. Il giudice Alito, che ha presentato la posizione della maggioranza, ha esordito parlando della profonda questione morale che solleva l’interruzione di gravidanza, sottolineando come per 185 anni dall’adozione della Costituzione fino alla sentenza Roe, ogni Stato aveva potuto trattare la questione «in accordance with the views of its citizens» (p. 1). La tesi della maggioranza è dunque che l’overruling di Roe e Casey è necessario in quanto la Costituzione non fa riferimento al diritto all’aborto, che non è nemmeno protetto implicitamente da alcuna disposizione costituzionale, neppure dalla due process clause del Quattordicesimo emendamento. Tale disposizione serve a garantire diritti che non sono menzionati nella Costituzione, ma che sono «profondamente radicati nella storia e nella tradizione di questa nazione» e «impliciti nel concetto di ordered liberty». Secondo la maggioranza dei giudici, il diritto all’aborto non rientra in questa categoria. Per dimostrare questo, i giudici di maggioranza hanno fatto riferimento alla storia americana e all’assenza del diritto all’aborto nel 20° secolo per giungere a sfidare lo stare decisis, che non può costringere – hanno affermato i giudici – ad aderire a tesi completamente errate, espressione di abuso di autorità giudiziale, e a ragionamenti eccezionalmente deboli (p. 6). La maggioranza, andando indietro nel tempo, addirittura al XIII secolo, ha citato vari autori per avvalorare la tesi secondo cui l’interruzione di gravidanza non è radicata nella storia e nelle tradizioni della Nazione. Così, è stato citato Henry de Bracton e il suo trattato che considerava qualsiasi aborto un omicidio, o William Blackstone, noto anche per aver negato l’esistenza dello stupro in una relazione tra moglie e marito (De Vido 2016, p. 34), che considerava l’aborto se non un omicidio «at least a very heinous misdemeanor» (p. 17). Inoltre, i giudici hanno ricordato che le leggi di molti stati federati che criminalizzano l’aborto confermano «a sincere belief that abortion kills a human being» (p. 29). Nell’affrontare il concetto dell’ordered liberty, che definisce i confini tra interessi concorrenti, la Corte suprema ha riconosciuto che Roe e Casey hanno cercato di stabilire un bilanciamento, ma il popolo dei vari Stati potrebbe valutare tali interessi in modo diverso (p. 31). Inoltre, la maggioranza dei giudici non ha accolto le analogie con altre sentenze della Corte suprema (sentenze relative all’accesso alla contraccezione e ai matrimoni tra persone dello stesso sesso), invocando in queste ultime l’assenza dell’interesse essenziale alla tutela della vita potenziale presente in Dobbs come in Roe e Casey. La maggioranza ha criticato l’opposizione e la sua volontà di imporre una particolare teoria sul momento in cui la personhood inizia (p. 38). Sullo stare decisis non ci si soffermerà in questa sede se non per evidenziare che la maggioranza dei giudici in Dobbs ha considerato le sentenze Roe e Casey basate su una errata interpretazione della Costituzione. Roe «was egregiously wrong and deeply damaging» (p. 44), in particolare con riferimento al concetto di viability (p. 53), e Casey non ha rimediato alle mancanze della giurisprudenza precedente, introducendo un test di undue burden che è pieno di ambiguità e difficile da applicare (p. 56). La Corte, dunque, «ripristina» per così dire l’autorità in capo al popolo e ai suoi rappresentanti eletti per decidere se e in che termine regolare l’accesso all’interruzione di gravidanza.

4. Dopo aver esaminato i tratti salienti della sentenza, è opportuno soffermarsi sul primo profilo di interesse sul piano del rispetto dei diritti umani, ovvero l’impatto della sentenza sui diritti delle donne negli Stati Uniti. I giudici di maggioranza hanno più volte sottolineato la «neutralità» della decisione con riguardo ad una questione che la Costituzione americana non risolve espressamente. Tuttavia, dell’asserita «neutralità» della posizione dei giudici di maggioranza si può ragionevolmente dubitare, perché come sottolineano bene i giudici dissenzienti (Breyer, Sotomayor, Kagan), con l’overruling di Roe v. Wade, gli stati saranno liberi di adottare tutte le restrizioni possibili e «when Roe and Casey disappear, the loss of power, control, and dignity [della donna] will be immense» (p. 52 dell’opinione dissenziente). La maggioranza dei giudici ha asserito che la decisione sull’accesso all’interruzione di gravidanza non spetta alla Corte ma agli organi legislativi e che le donne «are not without electoral or political power» (p. 65), ignorando completamente che l’accesso di fatto delle donne al potere decisionale è ostacolato non certo perché queste siano prive del diritto di voto, ma per schemi di oppressione all’interno del sistema di potere dello Stato (si veda, tra i molti studi giusfemministi sul punto, Chinkin e Charlesworth). La Corte concede dunque di fatto carta bianca agli stati federati per mettere in atto politiche che costituiscono violazioni dei diritti umani delle donne (anche con la sentenza Roe, di fatto l’accesso all’aborto era ostacolato da dubbie leggi di stati federati, che cercavano di limitare indirettamente il diritto all’aborto costituzionalmente garantito, v. Cohen e Joffe). Se la legge del Mississippi oggetto del ricorso fissava il termine per l’interruzione della gravidanza a 15 settimane, altre leggi potrebbero determinare il limite temporale per ottenere un aborto a dieci, tre settimane o anche al momento del concepimento (così in Alabama con una legge del 2019 in vigore, che peraltro compara – in modo inaccettabile ad avviso di chi scrive – l’Olocausto al numero di aborti praticati negli Stati Uniti, la cui applicazione era stata bloccata da Roe). A fine giugno, l’interruzione di gravidanza era gravemente limitata o proibita in 9 stati e il numero sembra possa aumentare fino ad almeno 26 (Paltrow et al., p. 2). L’American Medical Association ha parlato di violazione dei diritti della paziente a servizi di salute riproduttiva e l’American Medical Colleges ha sostenuto che la decisione metterà alla fine in pericolo la vita delle donne. Qualche giorno dopo la sentenza Dobbs, la Corte suprema del Texas ha consentito l’applicazione di una legge del 1925 che vietava l’aborto punendo coloro che lo eseguivano (e lo eseguiranno) con il carcere. La sua applicazione era stata bloccata dopo Roe da una corte di prima istanza, ma questa legge era rimasta in vigore. Sempre in Texas, hanno riportato i giudizi dissenzienti (p. 3 dell’opinione), lo stato può mettere un vicino di casa contro l’altro, denunciando concittadini nel tentativo di stanare coloro che cercano di ottenere un aborto o aiutano una donna ad ottenerlo. Sono scenari realistici, in parte già attuati, non sono scenari pessimistici o da romanzo distopico. Quello che accadrà, con il moltiplicarsi di leggi particolarmente restrittive sull’accesso all’interruzione di gravidanza, è che le donne cercheranno di spostarsi da uno stato federato ad un altro per ottenere quanto viene proibito nel proprio stato di residenza. In una sentenza meno nota della Corte suprema statunitense, del 1975, nel caso Bigelow c. Virginia, riflettendo sulla legislazione della Virginia che vietava ogni forma di pubblicazione sull’accesso all’aborto – nel caso di specie si trattava della pubblicità di un servizio fornito a New York distribuita al campus dell’Università della Virginia – i giudici avevano chiaramente affermato che la Virginia non poteva impedire ai propri residenti di spostarsi a New York per ottenere l’interruzione di gravidanza o perseguire coloro che intendevano farlo (Cohen et al., op. cit., p. 19). Tuttavia, tale giurisprudenza non ridurrà i conflitti «intergiurisdizionali» tra gli stati, in quello che è stato definito da tre autori statunitensi un «new abortion battleground» (Cohen et al., op. cit.). Così, ad esempio, un atto del Missouri applica le restrizioni all’accesso all’aborto anche al di fuori dei confini dello stato, quando l’aborto è praticato su una cittadina residente del Missouri o quando l’unborn child è residente in Missouri al momento del concepimento o l’individuo ha avuto un rapporto sessuale in Missouri che può aver condotto alla gravidanza. Come è stato osservato, la sentenza Bigelow non impedirà l’adozione di leggi come quella del Missouri: servono anni prima che la litigation arrivi alla Corte Suprema, «and in the meantime, States will proceed as if they have the power, waiting for the courts to call their bluff» (Cohen et al., op. cit., p. 21).

5. Il secondo profilo di interesse sul piano del diritto internazionale dei diritti umani è duplice: da un lato, il consolidamento o meno del diritto all’aborto quale diritto umano e, dall’altro lato, l’identificazione di obblighi in capo agli Stati. Senza pretesa di esaurire il complesso argomento in poche battute, si deve osservare che il diritto all’aborto, ad eccezione di una menzione espressa nel Protocollo alla Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa (Protocollo di Maputo), non trova spazio nel diritto internazionale convenzionale. Tuttavia – e questo è il punto di maggiore interesse – il mancato accesso all’aborto comporta una violazione dei diritti umani della donna, incluso il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (sul punto, Sifris e De Vido). Nonostante il mancato consolidamento di un diritto umano all’aborto, gli Stati, inclusi gli Stati Uniti, che hanno ratificato il Patto sui diritti civili e politici, hanno obblighi discendenti dagli strumenti internazionali e regionali di tutela dei diritti umani. Ad esempio, decisioni di corti regionali sui diritti umani e di treaty-based bodies delle Nazioni Unite hanno confermato che gli Stati devono decriminalizzare l’aborto almeno se è conseguenza di uno stupro, di violenza sessuale o di incesto, in caso di serie malformazioni o di rischi alla vita o alla salute, anche mentale, della donna. Il diniego di aborto provoca quella che ho definito altrove «violenza contro la salute delle donne» (De Vido, op. cit.), riconducibile a politiche dello Stato che causano o rischiano di produrre violenza contro le donne, in termini di «intenso stigma» e «perdita di dignità», nonché «alti livelli di angoscia» (in tal senso, v. le constatazioni del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Whelan c. Irlanda, 2017, par. 7.3, 7.7). Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, nel commento generale sul diritto alla vita, n. 36 (2018), ha ricostruito un dovere per gli Stati di assicurare che le donne e le ragazze non debbano sottoporsi ad aborti non sicuri e ha riconosciuto che gli Stati parti del Patto sui diritti civili e politici devono assicurare disponibilità e accesso effettivo a servizi sanitari di qualità, sia pre-natali sia post-aborto, in tutte le circostanze (par. 8). Vi sono poi obblighi per gli Stati, meno scontati forse, ma che discendono sempre dagli strumenti di diritto internazionale dei diritti umani, di dovuta diligenza in casi specifici e a realizzazione progressiva. Così, ad esempio, nelle constatazioni sul caso L.C. c. Perù (2011), il Comitato istituito dalla Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) ha raccomandato allo Stato di adottare programmi educativi e di training per incoraggiare i fornitori di servizi sanitari, incluso l’aborto, a cambiare atteggiamento e comportamento verso donne – nel caso di specie si trattava di una adolescente – che cercano di avere accesso all’aborto e di rispondere agli specifici bisogni sanitari, incluso appunto l’accesso ai servizi di salute riproduttiva, relativi a casi di violenza sessuale.

Sul piano regionale, tralasciando qui l’approccio della Corte europea dei diritti umani per concentrarsi sul sistema interamericano (sul ragionamento della Corte di Strasburgo, v. Poli), in Manuela y Familia c. El Salvador, la Corte interamericana si è occupata delle restrizioni all’accesso all’interruzione di gravidanza in El Salvador, Stato dove le donne rischiano anche 30 anni di carcere, persino in caso di aborto spontaneo. Nella sentenza del 2 novembre 2021, la Corte interamericana ha riscontrato la violazione di numerosi diritti fondamentali della donna, di povere condizioni, che si era rivolta in ospedale per quella che era una preclampsia che le aveva indotto l’aborto spontaneo. I medici, prima di fornirle sostegno, la denunciavano alle autorità e la ammanettavano al letto. Condannata al carcere, la donna moriva poco dopo per le conseguenze del problema ostetrico che aveva subito. La Corte, che nel caso di specie ha applicato anche la Convenzione di Belèm do Parà sul contrasto alla violenza nei confronti delle donne, ha sostenuto che lo Stato deve rimuovere la normativa che prevede l’automatica detenzione delle donne che denunciano di aver subìto un aborto, sviluppare politiche di educazione sessuale comprensive, fornire supporto psicologico gratuito ed adeguato ai famigliari della vittima. 

Gli Stati Uniti, pur non avendo ratificato, inter alia, la Convenzione americana sui diritti umani, la Convenzione di Belém do Parà, la CEDAW, sono parti del Patto sui diritti civili e politici e hanno firmato la Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo del 1948. In base alla Dichiarazione, ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona (articolo I); diritto alla privacy (articolo V); tutte le donne hanno diritto ad una speciale attenzione durante la gravidanza (articolo VII); ogni persona ha diritto alla salute (articolo XI). La tutela disponibile sul piano regionale per le donne statunitensi è limitata, ma non impossibile, potendo operarsi una petizione individuale alla Commissione interamericana dei diritti umani contro gli Stati Uniti, laddove ricorrano le condizioni di ammissibilità previste, per violazione della Dichiarazione americana [Standard1] dei diritti umani (così avvenne in un caso di violenza domestica: Commissione interamericana dei diritti umani, Jessica Lenahan c. Stati Uniti, report n. 80/11, 21 luglio 2011). Invero, benché la Dichiarazione sia un atto di soft law, la Commissione interamericana ha riconosciuto che «the American Declaration of the Rights and Duties of Man constitutes a source of international obligation for the United States and other OAS Member States that are not parties to the American Convention on Human Rights. These obligations are considered to flow from the human rights commitments of Member States under the OAS Charter» e che essa ha competenza, in base agli articoli 18 e 20 del suo statuto, di ricevere e valutare ricorsi sul mancato rispetto di questi obblighi (Hugo Armendáriz c. Stati Uniti, report sull’ammissibilità, n. 57/06, 20 luglio 2006, par. 30). L’esito della procedura non è una sentenza, ma un rapporto della Commissione.

6. Il terzo profilo di interesse sul piano del rispetto dei diritti umani consiste nell’esaminare l’aborto non tanto quale questione «biologicamente» femminile – quale è inevitabilmente, senza considerare in questa sede gli sviluppi della tecnologia (uteri artificiali ad esempio) – quanto quale questione «di genere», poiché basata sugli stereotipi persistenti e resilienti sul ruolo delle donne nella società. Se il ruolo della donna è quello riproduttivo, allora è chiaro che l’interruzione di gravidanza non può che essere limitata, a prescindere dalla volontà della gestante. La dimensione di genere è stata bene evidenziata nelle già citate constatazioni CEDAW sul caso L.C. c. Perù. Un’adolescente tentava il suicidio dopo essere rimasta incinta a seguito di violenza sessuale. Sopravvissuta, richiedeva accesso all’aborto terapeutico, che le veniva negato in quanto la sua vita non era a rischio. Nel frattempo, abortiva spontaneamente, ma le cure riabilitative e la terapia erano impossibili da sostenere per la famiglia. Il Comitato ha chiaramente affermato, riconoscendo la violazione dei diritti umani della ricorrente, che «the decision to postpone the surgery due to the pregnancy was influenced by the stereotype that protection of the fetus should prevail over the health of the mother» (par. 8.15). Nelle constatazioni dei casiMellet c. Irlanda (2016) e Whelan c. Irlanda (cit.)il Comitato per i diritti umani ha riscontrato, con riguardo alle ricorrenti alle quali era stato impedito l’accesso all’aborto dall’allora molto restrittiva legislazione irlandese, una discriminazione all’interno dello stesso genere, ovvero tra chi subisce un aborto spontaneo e chi decide di abortire, e non tra i generi. Alcuni componenti del Comitato hanno argomentato diversamente, evidenziando la questione di genere, o meglio, tra i generi. Così, Sarah Cleveland, nell’opinione concorrente in Mellet (par. 13), ha osservato che «the near-comprehensive criminalisation of abortion services denies access to reproductive medical services that only women need, and imposes no equivalent burden on men’s access to reproductive health care». Sul piano regionale, anche il giudice Pérez Manrique, nella opinione concorrente annessa alla sentenza riguardante il caso Manuela y Familia, già citata, ha riconosciuto che Manuela è stata resa invisibile, sia durante il procedimento penale, in quanto non è stata sentita la sua testimonianza, sia dai giudici che si sono basati su dannosi pregiudizi di genere senza rispondere alle sue particolari necessità, sia dal sistema carcerario che non le ha fornito l’assistenza necessaria.

Leggendo la sentenza della Corte suprema statunitense in quest’ottica, emergono forti i pregiudizi nei confronti delle donne. Nel merito non si parla di dignità della donna e non si fa menzione alcuna del diritto all’autodeterminazione, citato dai giudici dissenzienti Breyer, Kagan e Sotomayor. Il giudice di maggioranza Kavanaugh ha accentuato più volte gli effetti negativi di Roe sull’interesse dello Stato a proteggere la vita del feto, senza evidentemente pensare alla vita della donna. Invero, se la narrazione (si legga a riguardo Madras in Cook et al., p. 327 ss., e Sifris, op. cit.) fosse a favore di un asserito diritto alla vita del feto, come sostenuto da molti stati federati, allora ci sarebbero forme per garantire la possibilità per una donna di diventare madre e sostenere la genitorialità ma, come dicono bene i giudici dissenzienti, negli Stati Uniti molte donne continuano a non avere copertura sanitaria adeguata e anche dove disponibile, non è facile da ottenere; incontrano discriminazioni che interferiscono con la loro capacità di provvedere al proprio sostentamento; non riescono ad avere accesso a congedi parentali retribuiti (p. 41).

7. Al termine dell’analisi, che necessariamente copre solo alcuni dei possibili profili di interesse della sentenza Dobbs, ci si dovrebbe davvero chiedere se la questione sia: diritto all’autodeterminazione delle donne contro diritto alla vita potenziale del feto («irriconciliabili» interessi secondo il giudice Kavanaugh). È chiaro che un bilanciamento debba essere operato. Se guardiamo però le argomentazioni dei giudici di maggioranza in Dobbs, ci si dovrebbe chiedere se non si tratti piuttosto di utilizzare il diritto alla vita – potenziale – del feto (sull’approccio «graduale» relativo agli interessi del feto man mano che la gestazione procede, si veda Little) quale giustificazione per restringere i diritti umani delle donne, incluso il loro diritto alla vita. Parliamo di donne che dovranno viaggiare per centinaia di chilometri per spostarsi da uno stato federato ad un altro per avere accesso all’interruzione di gravidanza, donne che non potranno viaggiare – senza mezzi finanziari, con già un ampio carico di cura, con un lavoro precario (discriminazione che si intende intersezionale) – donne che verranno per questo spiate in base a app che geolocalizzeranno coloro che si avvicinano a una clinica abortiva, donne che forse riusciranno ad avere accesso alla telemedicina, ma solo se avranno la capacità di cercare queste informazioni sul web, donne che moriranno per le conseguenze di aborti non sicuri. Oggi è il diritto all’aborto, domani potrebbe essere il diritto ad avere accesso ai contraccettivi (sentenza Griswold v. Connecticut del 1965), neppure questo parte della tradizione americana (si veda a riguarda l’opinione dei giudici dissenzienti e un commento di Marella).

P.S. «Blessed be the fruit» è il saluto che si rivolgono le persone, soprattutto le ancelle, nel romanzo «Il racconto dell’ancella» di Margaret Atwood. Il mondo di Gilead in questo romanzo distopico vede le donne come strumento per la riproduzione, quasi che il loro ventre appartenesse alla società, tanto che le donne che non hanno questo «dono» o sono mogli dei comandanti o – essendo inutili perché non fertili – vengono condannate ai lavori forzati. Quindi, benedetto sia il frutto, in questa espressione evangelica che ricorda alle donne il loro posto nella società. Il rischio di sentenze come la Dobbs è quello di continuare a riprodurre stereotipi sul ruolo della donna, al punto che la donna scompare nella narrazione della sentenza, lasciata sullo sfondo dei diritti tutelati dagli emendamenti alla Costituzione statunitense, mai direttamente chiamata in causa, un oggetto – appunto – riproduttivo.

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Sara De Vido

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