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Un nuovo racconto di una vecchia storia: Il genere nei diritti umani

Giovanna Gilleri (Università di Milano-Bicocca)

1. Introduzione

La neutralità del diritto, in particolare dei diritti umani, è un mito ormai sfatato. Gli studi critici hanno dimostrato – e continuano a dimostrare – come l’analisi della genesi delle norme e delle loro modalità di applicazione possano rivelare molto sulle concezioni e gli assunti (consci o inconsci) di chi le crea e le applica (Kennedy, Koskenniemi, Bianchi). Il genere è uno degli ambiti in cui meglio si può cogliere che la neutralità del diritto sia un mito e l’universalità dei diritti umani sia un’aspirazione, lungi dal garantire, allo stato attuale, una protezione concreta a tutte le soggettività di genere che abitano il mondo degli esseri umani. Di genere e dei suoi concetti collegati quali sesso, orientamento sessuale, identità di genere e caratteristiche di sesso, si occupano da decenni le teorie critiche giusfemministe (Charlesworth et al., Baden and Goetz, Smart, MacKinnon) e ‘giusqueer’ (Halley, Otto, Fineman et al., Cossman, Thomas) le cui radici sono da rinvenire, tra le altre, nella sociologia, l’antropologia, la psicoanalisi, la filosofia politica e la linguistica. Ognuna di queste discipline esamina il genere – qui riferito in senso ampio, come comprendente tutte le dimensioni ad asso collegate sopraccitate – attraverso metodologie disparate, che sono trasversalmente collegate da una riflessione comune sulle dinamiche di potere connesse alle relazioni di genere.

L’applicazione degli studi femministi e queer e delle loro metodologie di analisi ai diritti umani ha svelato i limiti di questo sistema giuridico, tra cui il fatto che, prima fra tutte, il soggetto di diritto non sia qualsiasi individuo, ma l’uomo bianco eterosessuale ‘occidentale’, che costituisce il termine di paragone e allineamento per tutti gli altri soggetti, o, meglio, i soggetti resi ‘altri’ (Collier, Heathcote, Kuovo e Pearson, Naffine e Owens, Hellum e Aasen, Rudolf et al., Charlesworth 1995). Il patriarcato come dominio del genere maschile e di una certa mascolinità egemone è, di fatto, ritenuto una delle cause alla base delle discriminazioni e degli stereotipi che portano alla negazione di una serie di diritti umani (Valdes). È chiaro che, in questo contesto, la configurazione binaria del genere – uomo o donna – sottesa alle norme socioculturali ha fatto sì che una maggiore attenzione si sia (dovutamente) posta sulla condizione di inferiorità cui sono relegate le donne, subendo queste strutturalmente e sproporzionatamente limitazioni al godimento dei propri diritti. È da queste premesse che prende le mosse questa riflessione, debitrice nei confronti di chi l’ha preceduta ed erede di quel sapere critico femminista che ha reso questo mondo più tollerabile per molte.

Questo contributo guarda al di là del soggetto ‘donna’, interrogandosi, in modo più ampio, su come i diritti umani descrivano o sottintendano le relazioni di potere basate sul genere, ossia su come mascolinità e femminilità siano state costruite a partire dalle definizioni ed interpretazioni di genere contenute nelle fonti (soprattutto soft) internazionali. In poche parole: che cos’è il genere nei diritti umani? L’analisi che segue rintraccia tre possibili risposte, concettualmente distinte seppur difficilmente separabili nel modo in cui esse operano nelle narrazioni dei diritti umani.

2. Sesso versus genere?

La prima risposta a questa domanda non è affatto semplice, per due motivi. Nonostante l’abbondanza di trattati internazionali che vietano la discriminazione sulla base del sesso (Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 2; Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 2(1); Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, art. 2(2); Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, art. 2; Convenzione europea dei diritti umani, art. 14; Convenzione americana sui diritti umani, art. 1), nessuno di questi contiene una definizione di sesso o genere, né spiega la relazione tra i due concetti. Invero, il ‘genere’ è definito nello Statuto di Roma, nell’ambito dei crimini contro l’umanità, ma in maniera poco chiara: all’art. 7 (3), il genere si riferisce ai «due sessi, maschio e femmina, nel contesto della società. Il termine ‘genere’ non indica nessun significato differente da questo». Nello stabilire la sinonimia tra genere e sesso – il genere è il sesso – la (non-) definizione nulla dice su cosa sia il genere, né su cosa sia il sesso.

La definizione che prevale nel regime dei diritti umani è quella di genere come costrutto socioculturale, che si oppone al sesso come caratteristiche anatomiche, frutto dell’evoluzione interpretativa di cui è stato protagonista il Comitato per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (Comitato CEDAW), che monitora il rispetto della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), a partire dalla sua General Recommendation 25 (n. 2). Questa è stata poi riprodotta nella General Recommendation 28 dello stesso Comitato CEDAW (par. 5), nonché nella Convenzione di Istanbul (art. 3) e, più in generale, nei principali documenti interpretativi delle corti regionali e dei comitati dei diritti umani delle Nazioni Unite (v., ad es., General Comment 3, par. 4(b) del Comitato per i diritti delle persone con disabilità). In particolare, il Comitato CEDAW spiega nella General Recommendation 28 (par. 5):

«The term ‘sex’ here refers to biological differences between men and women. The term ‘gender’ refers to socially constructed identities, attributes and roles for women and men and society’s social and cultural meaning for these biological differences resulting in hierarchical relationships between women and men and in the distribution of power and rights favouring men and disadvantaging women. This social positioning of women and men is affected by political, economic, cultural, social, religious, ideological and environmental factors and can be changed by culture, society and community.»

Il sesso comprende, quindi, tratti del corpo umano sulla base dei quali avviene la determinazione dell’individuo come maschio o femmina alla nascita. Il genere, invece, fa riferimento alle aspettative che un determinato sistema socioculturale nutre in termini di ruoli, comportamenti e attitudini nei confronti di un certo soggetto ed in virtù del suo sesso. Opporre sesso come anatomia a genere come costrutto è, tuttavia, una risposta alla domanda che ci guida – che cos’è il genere nei diritti umani? – concettualmente non soddisfacente. Seppur l’opposizione natura versus cultura affascini, semplificandone la comprensione delle differenze, la distinzione tra ‘ciò che si è’ (sesso) e ‘ciò che si fa’ (genere) non è poi così netta (Butler, West e Zimmerman). La determinazione del sesso è generalmente intesa come un fatto innato. ‘È maschio o femmina?’ è una domanda, spesso posta ancor prima della nascita, che attende una risposta certa – aut, aut. Basandosi sull’esistenza di certe caratteristiche genitali, ormonali, gonadiche e/o genetiche, l’assegnazione del sesso è concepita come un automatismo. La questione, invece, è ben più complessa.

3. Il sesso come costrutto

Si devono distinguere due profili del ‘sesso.’ Da un lato, (I) i tratti fisici sono, effettivamente, un dato: ci sono ed esistono come fatto biologico. Dall’altro lato, (II) ogni società stabilisce i criteri secondo cui a certi tratti biologici corrisponde l’assegnazione di un certo sesso (Laqueur, p. 149). Quindi, l’interpretazione che si dà alla presenza di certe caratteristiche non ha nulla di naturale, perché passa necessariamente attraverso la lente delle norme che governano il genere e, di conseguenza, le aspettative nei confronti dei corpi generati. Questo apparato regolatorio è proprio di una determinata società, in un certo tempo ed in un certo spazio (Foucault, p. 121). Infatti, attraverso il tempo e lo spazio cambiano i criteri che guidano l’assegnazione del sesso (ad esempio, vagina = donna; pene = uomo), nonché la stessa scelta di connotare certe parti del corpo come ‘sessuali’ e rilevanti ai fini della determinazione del sesso (ovaie, testicoli, seno, livelli di testosterone, clitoride di una certa grandezza, …).

L’assegnazione del sesso alla nascita è, insomma, una determinazione sociale perché dipende dalle aspettative e presunzioni che chi osserva nutre e ha nei confronti dei corpi. Si può concludere, contro gli schemi prevalenti nei dibattiti correnti, che anche il sesso è un costrutto nell’ambito dell’accezione (II), nella misura in cui al dato concreto anatomico si sovrappone lo sforzo ermeneutico condizionato dalle norme di genere contingenti (si v. anche Ben-Asher, p. 53). L’accezione di sesso come determinazione (II), invece che dato biologico (I), prevale nel discorso sociale e domina quello giuridico. Quando le fonti dei diritti umani parlano di ‘sesso’ e nei casi in cui ‘sesso’ non implichi un’interpretazione evolutiva nel senso di ‘genere’, esse si riferiscono non al complesso organico di gonadi, ormoni, genitali e geni, ma al risultato del processo socioculturale attraverso cui si dà un significato a tale dato biologico. In questo senso, la Corte interamericana dei diritti umani ha adottato una definizione di sesso unica nell’ambito internazionale nell’opinione consultiva OC-24/17: il sesso è la «costruzione biologica» che si riferisce alle caratteristiche in base delle quali una persona è «classificata» come «uomo o donna alla nascita» (par. 32(a)). L’assegnazione del sesso è, quindi, connessa alla «determinazione del sesso come costrutto sociale», che non è «un fatto biologico innato» (par. 32(b)).

Nel descrivere il sesso come costrutto socioculturale, questa definizione supera le concezioni prevalenti e dicotomiche del corpo, fondate su una demarcazione netta tra tratti considerati maschili e quelli femminili, nonché l’essenzialismo dell’assegnazione del sesso come atto meccanico. Un caso paradigmatico di violazioni dei diritti umani connesse all’imposizione di norme di genere dannose – il binarismo e l’eteronormatività – è costituito dalle operazioni di cosiddetta ‘normalizzazione’ su* bambin* intersex, che nascono con caratteristiche genitali, ormonali, gonadiche e/o genetiche non rientranti nelle caratterizzazioni standard dell’anatomia femminile o maschile (Châu and Herring, Greenberg, Kessler). Innanzi a un clitoride ‘allargato’ o ad a un ‘micropene’, sono frequenti gli interventi per ricostruire il sesso (come anatomia) per imporre un certo genere, riallineando i corpi ai tratti tipici del binario maschio/femmina, pur in assenza di documentate necessità od urgenza mediche (Amnesty International, Human Rights Watch e InterACT). Nonostante l’irreversibilità delle operazioni e le conseguenze fisiche e psicologiche connesse, i genitori spesso non sono adeguatamente informati in modo tale da consentire loro di prendere una decisione informata sulla procedura cui è soggett* il* loro figl* (WHO; sulle origini degli interventi da ricondurre al ‘metodo Money’, si v., Domurat Dreger, Money). Inoltre, alcune di queste operazioni richiedono ulteriori interventi di follow-up, volti a, per esempio, ricreare il canale vaginale per permettere di ristabilire l’armonia di un rapporto penetrativo eterosessuale, oppure a consentire di urinare in piedi a quello che dovrà diventare – secondo certe culture – un ‘vero uomo’ (Balocchi, p. 133; Fausto-Sterling 2020, p. 62) . In ultima analisi, ciò che conta in queste operazioni non è quale sia l’apparenza anatomica, bensì come la società interpreti e categorizzi determinate caratteristiche di sesso e come quel sesso debba comportarsi dentro a quell’apparato sociale.

4. Cosa resta del corpo

Se il sesso è un costrutto, che cos’è, allora, il genere? Anche il genere è un costrutto, come si diceva, connesso fenomenologicamente al sesso come anatomia, poiché si esplica attraverso il corpo, ma concettualmente slegato dal sesso come risultato di un processo interpretativo, prescindendo l’identificazione soggettiva con un certo genere dal sesso assegnato alla nascita. Il genere è tanto una norma regolatoria esterna che plasma le soggettività ed i loro corpi, quanto l’identificazione personalissima con un certo genere che ciascun soggetto compie inconsciamente, guardando anche alla propria fisicità, senza esserne definitivamente determinat*. La dimensione normativa e quella intima, la ‘norma’ e l’‘identità’ di genere, coesistono e sono in continua tensione dal momento che ogni soggetto si identifica inconsciamente con un certo genere affermandolo e, al contempo, rielaborando le norme di genere che ne restringono le possibilità di esistenza.

Si badi bene: dire che genere e sesso sono entrambi dei costrutti non significa svuotare le due categorie della loro relazionalità che ne rende imprescindibile la concretezza. Detta diversamente, non ci si sveglia un giorno e si inventa un genere, sciolto da tutto e da tutt*. Il nostro esistere nel mondo è, infatti, intrinsecamente dipendente dalle norme di genere che lo governano, con cui ciascuna soggettività si incontra, scontra e negozia la propria posizione (rispetto alle norme e agli altri individui) ed identità (rispetto a se stessa). La dimensione corporea è indispensabile perché è sul corpo che la norma di genere si esplica (Butler, p. 146) ed è attraverso il corpo che il soggetto afferma e manifesta il proprio genere. Agiamo e siamo agiti: genere e sesso agiscono nel e sul nostro corpo, condizionando il modo in cui lo concepiamo (Fausto-Sterling 2019).

La questione è intricata, ma quale che sia la spiegazione dell’interrelazione tra genere e sesso, una cosa è chiara: se il genere è una categoria relazionale, che esiste nella misura in cui due o più soggetti interagiscono, è indispensabile affrontare le relazioni che il genere implica e che ruotano attorno ad esso. La prossima sezione descrive tre delle possibili risposte, o narrazioni, sui rapporti di genere che hanno prevalso ad oggi nei diritti umani a livello internazionale: (i) genere come sinonimo di donne; (ii) uomo versus donna; e, infine, (iii) dominio maschile e subordinazione femminile

5. Tre narrazioni

  • Genere = donne

Questa prima narrazione è il punto di partenza per le due successive. Guardando ai rapporti di genere, i diritti umani si sono concentrati sulla parte ‘debole’, ‘vulnerabile’, ‘svantaggiata’ della dinamica di potere. Esiste, quindi, una seconda risposta alla domanda ‘che cosa è il genere nei diritti umani?’. La risposta è: il genere sono le donne. Si tratta di una conclusione fondata sulla maggior parte degli strumenti e dei documenti globali e regionali dei diritti umani. La stessa CEDAW nasce come strumento sui diritti delle donne e non come convenzione sul genere come categoria discriminatoria, nonostante il modello per la sua creazione sia stata la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, quest’ultima articolata intorno alla categoria ‘razza’, piuttosto che ad uno specifico gruppo. Un’ulteriore conferma di genere = donne nell’arena dei diritti umani si rintraccia nella pratica delle istituzioni internazionali: si pensi alle iniziative di ‘gender mainstreaming’ e ‘gender budgeting’ oppure ai vari ‘gender team’ costituiti all’interno di divisioni o dipartimenti specializzati.

Va da sé che le motivazioni alla base della metonimia tra donne e genere sono antiche, evidenti e certamente più complesse della sintesi che segue (si v. Hernandez-Truyol, p. 215). CEDAW ed i successivi sviluppi interpretativi sono la risposta all’urgenza di rivendicazione (femminista) di diritti contro l’assoggettamento delle donne al patriarcato. Le donne erano e sono sproporzionatamente e strutturalmente soggette a discriminazione e violenza – che è, quest’ultima, essa stessa una forma di discriminazione. Dire che il genere è anche altro rispetto alle donne non significa negare le conquiste in termini di protezione dei diritti umani degli ultimi decenni, né, tantomeno, relegare la lotta per l’eguaglianza ad altri ambiti. Piuttosto, l’utilizzo del genere come categoria di analisi del diritto implica l’esame di tutte quelle situazioni giuridiche in cui il genere come costrutto giochi un ruolo centrale, che riguardano le donne, gli uomini e qualsiasi genere. Le altre due narrazioni sono intimamente connesse a genere = donne, nella misura in cui collocano uomo e donna nelle posizioni di dominio e oppressione rispettivamente, tali da far comprendere perché il genere sia soltanto ‘roba da donne.’

  • Uomo/donna

Le dinamiche di potere di genere riprodotte nella maggior parte degli strumenti internazionali dei diritti umani riproducono, di fatto, il binarismo di genere della società (occidentale del XXI secolo). Si prenda, ad esempio, l’art. 2(1) del Patto internazionale sui diritti civili e politici:

«Each State Party to the present Covenant undertakes to respect and to ensure to all individuals within its territory and subject to its jurisdiction the rights recognized in the present Covenant, without distinction of any kind, such as race, colour, sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin, property, birth or other status.»

Il divieto di discriminazione sulla base del genere (‘sesso’, nel testo) è considerato strumentale alla realizzazione dell’eguaglianza tra due specifici gruppi di genere: uomini e donne. Una simile definizione si trova anche all’art. 2(2) del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali.

Nel contesto della dicotomia uomo-donna, le fonti internazionali dei diritti umani guardano alla donna come se fosse l’unico soggetto segnato dal genere (Charlesworth 2005). Forse non pensavano alle fonti dei diritti umani Monique Wittig e Luce Irigaray, quando avanzarono la loro critica sul genere come uno ed uno solo. Wittig affermava che il genere è singolare, costituendo il soggetto maschile l’universalità senza segno, mentre quello femminile la particolarità, dunque l’unico genere (p. 59 ss.). Irigaray, seppur aderendo alla teoria del genere singolare, descriveva il genere maschile come l’unico che produce e rende ‘altro’ quello femminile (p. 11 ss.).

Quale che sia la genesi del ‘secondo’ genere (de Beauvoir), la narrazione che oppone l’uomo alla donna nei diritti umani si basa sull’esistenza di due sole soggettività di genere. È questa la seconda risposta quesito su che cosa sia il genere nei diritti umani. In concreto, il dualismo uomo/donna è condizione di operatività dell’asimmetria di potere tra i due generi, ovvero uomo > donna.

  • Uomo > donna

La terza risposta alla domanda sul genere nei diritti umani è quella ulteriore narrazione aggiunge una connotazione di dominio dal lato maschile e sottomissione da quello femminile alla precedente uomo/donna. L’asimmetria tra uomo e donna si incontra già in apertura di CEDAW. All’articolo 1 la discriminazione contro le donne è definita come:

«Any distinction, exclusion or restriction made on the basis of sex which has the effect or purpose of impairing or nullifying the recognition, enjoyment or exercise by women, irrespective of their marital status, on a basis of equality of men and women, of human rights and fundamental freedoms in the political, economic, social, cultural, civil or any other field.»

Nel focalizzarsi sul gruppo sociale ‘donne’, CEDAW ne valuta e misura il godimento dei diritti rispetto a quello dell’ ‘altro’ gruppo sociale, gli ‘uomini.’ Non si tratta di un confronto tra pari, poiché è il lato maschile ad essere il benchmark.

Gran parte dell’attività interpretativa degli organi internazionali dei diritti umani ha delineato (almeno) tre diverse forme di passività della donna, cui corrispondono altrettante posizioni di autorità maschile. La prima è quella della donna come bisognosa di un uomo ‘protettore’ (Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, par. 2). La seconda è la proclamazione di uguaglianza formale della donna all’uomo nella vita pubblica, lì dove quest’ultimo costituisce il termine di paragone in base a cui costruire l’uguaglianza, nonché l’ostacolo da rimuovere nella ‘corsa’ verso l’uguaglianza (Comitato per i diritti umani, par. 20-24). La terza dimensione di passività descrive la donna come soggetto estremamente vulnerabile e si connette, in questo senso, all’immagine della donna vittima di violenza commessa dall’uomo perpetratore (Otto, “Disconcerting “Masculinities”: Reinventing the Gendered Subject(s) of International Human Rights Law” in Manji e Buss, p. 108 ss.). Tra gli altri, il Comitato per i diritti umani (par. 8) sottolinea la posizione di vulnerabilità delle donne in tempi di guerra:

«Women are particularly vulnerable in times of internal or international armed conflicts. States parties should inform the Committee of all measures taken during these situations to protect women from rape, abduction and other forms of gender-based violence.»

Tuttavia, l’utilizzo esclusivo dello schema uomo > donna cristallizza mascolinità e femminilità nelle sole forme di mascolinità egemone (o tossica) e femminilità come vulnerabilità, trascurando che varie e plurali mascolinità e femminilità sono sottese alle relazioni di potere. Di conseguenza, molte violazioni di genere rimangono invisibili: per esempio, i casi di stupro tra uomini, che recano la ‘macchia’ dell’omosessualità (Sivakumaran); la violenza tra donne nella coppia (Stemple et al.); oppure gli abusi intergenerazionali tra adulto e minore dello stesso o diversi generi, al di fuori dell’asimmetria uomo > donna, come quelli commessi da leader di comunità o sacerdoti. Questi sono alcuni degli esempi che potrebbero portare alla luce una concezione dinamica del genere, inteso come l’apparato di potere che muove le interazioni tra una molteplicità di soggettività.

6. Tre formule non conclusive ed alcune risposte alternative

Tre formule riassumono tre delle possibili risposte alla domanda, tutt’altro che semplice, su cosa sia il genere nei diritti umani, con cui questo contributo si è aperto. Per i diritti umani, ‘genere’ si riferisce alle donne (genere = donne), situate sul binario uomo / donna che esaurisce le possibilità di esistenza giuridica del soggetto di genere. Le interpretazioni dominanti riconducono la responsabilità della violazione dei diritti all’uomo, rappresentante di un’unica mascolinità, quella tossica, cui è subordinata l’unica femminilità della donna, quella vulnerabile (uomo > donna). Queste tre risposte-narrazioni, che si intersecano nell’accumularsi di definizioni ed interpretazioni di genere e dei concetti connessi, non detengono, tuttavia, il monopolio della storia del genere nei diritti umani.

Esistono delle risposte alternative alla domanda-guida sulla forma del genere nei diritti umani, che guardano ad esso ed attraverso di esso come categoria globale di analisi. Abbandonando l’asimmetria uomo > donna, alcune di queste rintracciano l’esistenza di discriminazione contro gli uomini – ovviamente, non strutturalmente equiparabile a quella contro le donne visto il carattere sistematico della subordinazione di matrice patriarcale. Per esempio, il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (par. 20) condanna il rifiuto di concedere il congedo di paternità come segue:

«The Covenant guarantees the equal right of men and women to the enjoyment of economic, social and cultural rights. […] Refusal to grant paternity leave may also amount to discrimination against men.»

Altre interpretazioni, invece, spiegano che certe femminilità possono essere tossiche, alimentando forme di violenza (Comitato contro la tortura, par. 22), tra cui quella terroristica. C’è chi ha offerto una definizione ampia di genere, sia esplicitando il superamento della metonimia tra donne e genere, sia evidenziando lo stretto legame tra, da un lato, i costrutti sociali sottesi a ruoli e funzioni di genere e, dall’altro, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. È l’ex Relatore speciale per la lotta al terrorismo e i diritti umani, Martin Scheinin (par. 20):

«Gender is not synonymous with women but rather encompasses the social constructions that underlie how women’s and men’s roles, functions and responsibilities, including in relation to sexual orientation and gender identity, are defined and understood.» Nel complesso, però, il discorso dominante dei diritti umani si avvale delle interpretazioni-narrazioni metonimiche, binarie ed asimmetriche che escludono dall’orbita di taluni diritti umani una serie di soggetti e di relazioni tra soggetti. Queste ultime narrazioni alternative sono, di fatto, delle interpretazioni minoritarie dal momento che lo spazio da loro occupato nel discorso dei diritti umani resta, ad oggi, assai limitato e, spesso, privo di continuità istituzionale. Dimenticarle, tuttavia, sarebbe tradire la promessa di universalità dei diritti umani.

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Giovanna Gilleri

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