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ANCORA SUL CASO REGENI: IL “DIRITTO ALLA SEGRETEZZA” DEI NEGOZIATI INTERNAZIONALI E LA COMPETENZA DEI GIUDICI INTERNI A DECIDERE SITUAZIONI DI RILEVANZA INTERNAZIONALISTICA ALLA LUCE DI ALCUNI RECENTI SVILUPPI DEL PROCESSO PENALE IN VIA DI (NON) SVOLGIMENTO IN ITALIA

Gianpaolo Maria Ruotolo (Università di Foggia)

1. Il drammatico caso dell’omicidio del dottorando di ricerca italiano Giulio Regeni, avvenuto in Egitto ormai sette anni or sono, oltre allo sdegno civile (si veda, ex multis, il Comunicato del Direttivo della Sidi del 17 dicembre 2020), ha comportato anche l’attenzione degli studiosi di diritto internazionale per le innumerevoli questioni giuridiche che solleva.

Molte di queste come, in particolare, quelle relative all’applicazione degli obblighi di diritto internazionale generale sulla protezione dello straniero, al divieto di tortura e di privazione arbitraria della vita (si vedano, tra gli altri, R. Pisillo Mazzeschi, e la nota di M. Lunardini che riassume le posizioni di G. Nesi, A. Marchesi, P. De Sena e A. Bultrini), nonché all’attivazione della clausola “giurisdizionale” prevista dall’art. 30 della Convenzione contro la tortura del 1984 (cfr. M. Buscemi, F. Violi) e ai problemi connessi all’assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento interno (G. Carella), sono stati oggetto di analisi.

Come pure noto, peraltro, la questione, oltre ad esser stata oggetto di un’ampia indagine condotta da una Commissione parlamentare di inchiesta che ha svolto quarantacinque audizioni, acquisito circa trentaduemila pagine di documenti, e adottato, il 1° dicembre 2021, una relazione finale di 460 pagine che conclude per la responsabilità degli apparati di intelligence egiziani, ha comportato l’avvio di un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Roma (Proc. Pen. n. 52239\18) nei confronti di quattro agenti dell’intelligence egiziana (Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) accusati di essere responsabili del rapimento e, almeno uno di costoro, dell’omicidio di Regeni.

Il processo in questione solleva una serie di aspetti giuridici di grande interesse, sia di diritto processuale penale interno, in particolare relativi alla prosecuzione del processo in assenza degli imputati, ai quali non è stato possibile notificarne gli atti (e di cui non ci occuperemo), sia di diritto internazionale.

Su alcuni di questi ultimi, di recente emersione, intendiamo invece soffermarci, seppur brevemente, in questo scritto.

In particolare, il GUP aveva disposto, nell’ambito di tale procedimento, che fossero escussi il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Ministro degli Esteri Antonio Tajani in quanto informati su una serie di dichiarazioni che il Presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi avrebbe reso alla loro presenza, e che erano da costoro state riferite molto genericamente a organi di informazione, in particolare relative alla volontà di futura collaborazione del governo egiziano nelle indagini, collaborazione che, fino ad oggi, come del tutto noto, non c’è stata.

I due avrebbero dovuto essere sentiti in occasione dell’udienza del 3 marzo 2023.

Tuttavia l’Avvocatura dello Stato, poco prima dell’udienza, provvedeva a depositare una memoria con la quale dichiara l’impossibilità di procedere all’escussione dal momento che

Il contenuto dei colloqui si inscrive nell’abito delle relazioni di politica internazionale e riguarda attività svolta nell’esercizio di uno delle più rilevanti prerogative dell’azione di governo, nella sua più specifica accezione di politica estera. Secondo la prassi internazionale costantemente applicata dagli Stati i contenuti dei colloqui, bilaterali o plurilaterali, fra i rappresentanti di governo non possono essere divulgati se non attraverso comunicati congiunti e condivisi. La divulgazione dei medesimi contenuti senza il consenso dello stato estero interessato potrebbe incidere sulla credibilità nella comunità internazionale: il contenuto dei colloqui non è divulgabile” perché “c’è un segreto che non può essere violato”.

In buona sostanza, l’Avvocatura dello Stato, facendo riferimento all’esistenza di una non meglio specificata “prassi internazionale costantemente applicata dagli Stati” ci pare voglia rievocare un obbligo negativo di diritto internazionale generale (o quanto meno l’elemento materiale della relativa consuetudine) che, a suo dire, vieterebbe agli Stati di render noti all’esterno i risultati di un negoziato, sia esso bilaterale o multilaterale, tranne nel caso in cui l’esternazione avvenga congiuntamente o comunque in maniera consensuale.

Insomma, volendo concepire in alternativa l’obbligo come positivo, secondo l’Avvocatura, il diritto internazionale, addirittura generale, imporrebbe agli Stati, con riguardo al contenuto di negoziati, finanche di quelli già conclusi, una sorta di obbligo di “comunicato stampa a firma congiunta”.

Ora, come noto, la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, all’art. 31, par. 2 prevede che “l’agente diplomatico non è tenuto a prestare testimonianza”, ma, evidentemente, oltre a fare riferimento a soggetti (e funzioni) del tutto peculiari, si riferisce alla testimonianza dinanzi al giudice dello Stato di accreditamento, cioè a uno Stato diverso rispetto a quello per il quale l’escusso presta servizio, come invece era nel caso di specie. 

Peraltro, con riguardo alla trasparenza riguardo al contenuto dei negoziati internazionali, la prassi, quella più recente, almeno, sembra, piuttosto, deporre in senso contrario a quanto sostenuto dalla difesa erariale, nel senso di ritenere che la comunicazione all’esterno del contenuto delle attività negoziali sia, oggi, strumento fondamentale per il controllo democratico della attività di rilevanza internazionale dei governi.

Infatti, sebbene sia certamente vero che la segretezza dei negoziati ha, in passato, giocato un ruolo di rilievo nella storia delle relazioni tra Stati, e probabilmente è stata a suo tempo oggetto di un comportamento piuttosto consolidato degli Stati (che però è dubbio abbia prodotto una norma consuetudinaria), in particolare a partire dalla fine della guerra fredda, il trend pare essersi invertito, e questo specialmente con riguardo ai contesti e alle situazioni relative alla violazione di diritti fondamentali. Da ultimo, infatti, la tendenza sembra quella di considerare che la diffusione del contenuto dei negoziati da parte degli Stati rappresenti, come dicevamo, un meccanismo per ovviare a un più volte contestato deficit democratico (al riguardo si vedano A.L. Davérède e, soprattutto, S. Duquet, J. Wouters).

E quindi, se è vero che l’esternazione del contenuto di un negoziato può, legittimamente e opportunamente, essere procrastinata nel corso del medesimo (specie se multilaterale) al fine di non pregiudicare la posizione dei negoziatori, un approccio siffatto ci sembra abbia meno giustificazioni per casi come quello in esame, in cui le posizioni negoziali, essendo il medesimo negoziato bilaterale, sono ovviamente già note a tutte le parti del medesimo.

E questo in particolare, poi, quando il negoziato, come nel caso in esame, dovesse riguardare (anche) una situazione relativa a una gravissima violazione di diritti fondamentali, qual è quella in esame: la tutela del diritto alla vita e a non esser sottoposti alla sua privazione arbitraria, né a torture e a trattamenti disumani e degradanti, infatti, sono oggetto di norme di jus cogens, i cui corrispondenti obblighi non potrebbero che prevalere su una norma quale quella che imporrebbe o consentirebbe il silenzio, anche qualora se ne volesse ammettere l’esistenza.

La relativa prassi recente, sviluppatasi soprattutto con riguardo ai negoziati relativi ad accordi commerciali, ci pare deponga proprio in questo senso: a mero titolo di esempio si pensi al comportamento adottato dalla Commissione europea con riguardo al negoziato relativo alla – poi fallita – Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con gli Stati Uniti, dapprima segretato e poi reso noto, in accoglimento di numerosissime istanze provenienti dalla società civile che ne contestavano, a torto o a ragione, l’incompatibilità proprio con numerosi diritti fondamentali.

E non a caso abbiamo fatto riferimento alla prassi relativa ad accordi commerciali, dal momento che appare plausibile pensare che il contenuto dei contatti tra i Governi italiano ed egiziano abbia, tra gli altri, anche contenuto commerciale, pure in conseguenza della scoperta in Egitto, da parte dell’ENI, di un enorme giacimento di gas metano, il più grande mai individuato nel Mediterraneo, denominato Zohr.

2. Invece di invocare un secondo noi inesistente “diritto al segreto” di derivazione internazionalistica, un’altra strada che il Governo avrebbe forse potuto percorrere (ma che, ci pare significativo, non ha utilizzato), sarebbe stata quella di invocare, qualora ve ne fossero i requisiti, il segreto di Stato.

Esso, infatti, lo ricordiamo, è astrattamente opponibile anche con riguardo ad attività di rilevanza internazionalistica.

In tal senso il pensiero corre, anche in quel caso con riferimento a una fattispecie che riguardava i rapporti tra Italia ed Egitto, al caso Abu Omar, in cui, nel 2003, un cittadino egiziano veniva rapito in Italia da una squadra di agenti statunitensi e italiani di intelligence nell’ambito di una c.d. “extraordinary rendition” per esser trasferito in Egitto dove subiva torture per estorcergli informazioni su attività terroristiche.

Con riguardo ai limiti imposti dal diritto internazionale al segreto di Stato italiano va pure ricordato che, con la sentenza del 23 febbraio 2016 “Nasr e Ghali c. Italia”, relativa proprio al caso Abu Omar, però, la Corte europea dei diritti dell’uomo riteneva l’Italia responsabile delle violazioni degli art. 3 (divieto di tortura), 5 (diritto alla libertà e sicurezza), 8 (diritto alla vita privata e familiare) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) della CEDU proprio in considerazione dell’apposizione del segreto di Stato nel corso di un procedimento penale svoltosi in Italia nei confronti di cinque agenti italiani,

Esso, infatti, impedendo una decisione nel merito aveva condotto all’impunità degli imputati.

Va pure detto che nell’occasione la Corte non giungeva ad affermare con chiarezza che, in applicazione del diritto umano alla verità, il Segreto di Stato non potrebbe mai essere opposto nei procedimenti che riguardano gravi violazioni dei diritti umani (così T. Scovazzi; sul “diritto alla verità” con specifico riguardo al caso Regeni v. pure L. Pasquet).

Per altro verso a noi pare che la memoria della Difesa erariale, anche se non in maniera esplicita, stia quasi insinuando (anche se mai esplicitamente, va detto) addirittura l’assenza di una competenza per così dire generale dell’ordine giudiziario a decidere su tutta la questione Regeni sottoposta alla sua attenzione. E infatti, ad oggi, il processo è bloccato.  

La memoria pare infatti rievocare l’applicazione, in salsa italica, della political question doctrine elaborata dalla Corte suprema statunitense, che, oltre un secolo fa, aveva già individuato sei fattispecie distinte di questioni di rilievo politico, in quanto tali sottratte al controllo del potere giudiziario. Secondo questa teoria, dunque, ci si troverebbe in presenza di una questione siffatta: 1) qualora una norma costituzionale attribuisca la relativa competenza ad un determinato “political departement”; 2) quando vi sia l’assenza di “judicially discoverable and manageable standards” per risolvere la stessa; 3) ogniqualvolta vi sia l’impossibilità di dirimere una controversia senza una “initial policy determination”; 4) qualora una decisione giurisdizionale comporti comunque il rischio di un “lack of respect due to coordinate branches of government”; 5) quando vi sia l’incontestabile necessità di “adherence to a political decision”; 6) qualora vi sia il rischio di un conflitto di decisioni tra “various departements on one question” (United States v. Curtiss Wright Export Corp.).

Un corollario di siffatta political question doctrine, la c.d. one voice theory, come noto, suggerisce che nell’ambito dei rapporti internazionali uno Stato debba esprimere verso l’esterno una posizione univoca, che promani cioè da tutti gli organi competenti anche qualora vi possa conseguire la necessità “to defy judicial application” (Colegrove v. Green); da ciò è derivata, in tutti i paesi di lingua anglosassone, una sorta di deferenza del potere giudiziario nei confronti del potere esecutivo in materia di relazioni estere (cfr. L. Collins), al fine di tutelare, per usare le parole della Corte suprema statunitense, “the very delicate, plenary and exclusive power of the President as the sole organ of the federal government in the field of international relations” (United States v. Curtiss Wright Export Corp).

Questa ricostruzione, però, va detto, ha incontrato forti critiche della dottrina, secondo la quale la rule of law – e quindi la decisione da parte di un giudice sottratto alle influenze politiche dell’Esecutivo – costituisce “the most efficacious approach to international as well as domestic disputes” (C. Flinterman).

E finanche l’Institut de droit international nella risoluzione su L’activité du juge interne et les relations internationales de l’Etat, special rapporteur Benedetto Conforti, dopo aver chiaramente affermato, all’art. 1, che “les juridictions nationales devraient être habilitées par leur ordre juridique interne à interpréter et appliquer le droit international en toute indépendance”, all’art. 2 suggerisce che le medesime, qualora dovessero trovarsi “à juger une question liée à l’exercice du pouvoir exécutif, ne devraient pas refuser d’exercer leur compétence en raison de la nature politique de la question si cet exercice est soumis à une règle de droit international”.

E non a caso nei Paesi di civil law non è mai stata elaborata una teoria corrispondente alla political question: il problema da risolvere, da noi, non ha riguardato l’an della competenza delle Corti nazionali a pronunciarsi su questioni di rilevanza internazionalistica, essendo ciò sempre astrattamente possibile, ma il quomodo, ovvero l’estensione e i limiti di tale competenza.

In Italia, poi, in particolare, la questione assume essenzialmente o la forma della “discrezionalità del legislatore”, che impedisce alla Corte costituzionale di sostituirsi al Parlamento (ma che ha anche di recente comportato l’adozione di sentenze di “sollecito” a quest’ultimo), o quella del “conflitto di attribuzioni”, che però, con riferimento al caso Regeni non ci pare sia mai stato sollevato.

Insomma, in nessun modo il diritto internazionale legittima la sottrazione di informazioni in possesso al potere esecutivo, se ottenute nel corso di un negoziato internazionale, in particolare quando esse riguardino un caso relativo a gravissime violazioni di diritti fondamentali.


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