diritto internazionale pubblico

Gli accordi di Minsk tra politica e diritto: prime considerazioni

Massimo Starita, Università di Palermo

1. Il 14 febbraio scorso, a mezzanotte, è entrato in vigore in Ucraina il cessate il fuoco previsto al primo punto di un accordo siglato a Minsk due giorni prima, recante il titolo «Pacchetto di misure per l’esecuzione degli accordi di Minsk del 5 e 19 settembre 2014» (reperibile qui in lingua ufficiale russa, qui in inglese e qui in francese). Il “cessate il fuoco” è la prima di una serie di misure contenute nel Pacchetto volte a risolvere il conflitto secessionista in corso nelle regioni orientali ucraine. Il Pacchetto, firmato dal governo ucraino, da rappresentanti dei gruppi ribelli dell’Est del Paese, dall’OSCE e dal governo russo per porre fine ai combattimenti nell’Est dell’Ucraina, costituisce un completamento di due precedenti accordi sottoscritti nella capitale bielorussa alcuni mesi fa: un Protocollo ed un Memorandum rispettivamente del 5 e del 19 settembre 2104. Al Pacchetto è collegata una dichiarazione congiunta dei Capi di Stato di Francia, Germania, Russia ed Ucraina, adottata lo stesso giorno.

Le violazioni del “cessate il fuoco” segnalate dalla Special Monitoring Mission dell’OSCE non fanno ben sperare sulla reale volontà delle parti, ed in particolare dei gruppi separatisti, di attenersi alle misure concordate. D’altra parte, già subito dopo la conclusione, il Pacchetto è stato definito fragile sulla stampa e in diversi blog. Un giudizio condivisibile per almeno quattro ragioni (par. 2 e 3). Tali ragioni non sono strettamente giuridiche, ma si legano a considerazioni che possono essere svolte su alcune questioni attinenti, invece, alla natura giuridica degli Accordi di Minsk ed agli effetti che essi sembrano idonei a produrre nel diritto internazionale (par. 4-6).

2. La prima ragione di debolezza del Pacchetto sta nelle sue modalità di funzionamento, che sono state concepite in modo tale che, qualora le violazioni del cessate il fuoco dovessero continuare, l’intero accordo sarebbe destinato a cadere. Ci riferiamo alla circostanza che il Pacchetto è costituito da un insieme di disposizioni che non hanno vita autonoma, ma che, al contrario, si reggono l’una sull’altra, delineando una sorta di processo “a catena”, in cui il rispetto della prima è condizione per il rispetto della successiva e via discorrendo.

La prima clausola a venire in rilievo in ordine cronologico consiste, come si è detto, in un cessate il fuoco «immediato e completo»nelle zone di guerra, identificate con l’espressione, già usata nel Protocollo e nel Memorandum, «certain areas of the Donetsk and Luhansk regions» (punto n. 1 del Pacchetto). In realtà, nonostante l’impressione ricavabile dalla formulazione letterale del punto n. 1, la misura non è di immediata applicazione, dato che il momento dell’entrata in vigore del cessate il fuoco è posticipato di circa due giorni rispetto al momento della firma. Ciò farebbe pensare che il termine «immediato» significhi solo che, a partire dalla mezzanotte del 14 febbraio la cessazione delle ostilità non sia graduale o a formazione progressiva, ma si applichi simultaneamente in tutti i territori interessati.

Il rispetto per un periodo di due giorni del cessate il fuoco è la condizione il cui avverarsi farebbe scattare una seconda misura di carattere militare, costituita dalla creazione di una zona di sicurezza (punto n. 2). A tal fine le parti s’impegnano a ritirare tutte le armi pesanti da un’area calcolata a partire da due diverse linee “di contatto” (la linea di contatto reale, o de facto, per le forze governative, e quella registrata a settembre nel Memorandum per le forze ribelli). La zona è dotata di un’ampiezza diversa a seconda della capacità di gittata delle varie armi possedute dai belligeranti. Diversamente dal cessate il fuoco, il ritiro delle armi deve essere attuato progressivamente nei quattordici giorni successivi all’entrata in vigore del cessate il fuoco.

L’esecuzione di questa seconda misura militare renderebbe a sua volta operative una serie di altre clausole dell’accordo. Si tratta sia di clausole umanitarie (al punto n. 6, si prevede che al più tardi entro il quinto giorno dal ritiro dovrebbe aver luogo lo scambio di ostaggi e dei detenuti) e soprattutto delle principali clausole politiche. Il primo giorno dopo il ritiro (non è chiaro se debba intendersi dopo l’inizio del ritiro o dopo il suo completamento) è previsto che inizi un «dialogo politico» tra le autorità ucraine ed i ribelli sulle modalità di svolgimento di elezioni locali (al fine di rendere possibile un’amministrazione autonoma transitoria nelle regioni del Donbass) e su una riforma della costituzione ucraina improntata ad un principio di ampio decentramento. Questo «comprehensive political settlement», che è il cuore dell’accordo, andrebbe negoziato direttamente con i «representatives of certain areas of the Donetsk and Luhansk regions» e dovrebbe essere completato entro la fine del 2015 (punti 4, 11 e 12).

L’esecuzione di queste clausole nei tempi previsti permetterebbe infine di avviare il processo di ristabilimento del pieno controllo da parte del governo centrale sulla frontiera orientale. Tale processo dovrebbe, infatti, cominciare il giorno dopo le elezioni locali per completarsi dopo l’entrata in vigore della nuova costituzione (punto n. 9).

Ora, è intuitivo che il meccanismo qui rapidamente descritto rischia d’incepparsi con una certa facilità, ove non sia sorretto dalla comune volontà delle parti su tutti i passaggi del procedimento. Tuttavia, sia i diversi casi di violazione del cessate il fuoco cui prima accennavamo che la cautela manifestata sin dalle prime ore dalla Francia e dalla Germania non permettono di essere certi che esista una simile comunità d’intenti. Non è chiaro, ad esempio, se il governo e i movimenti ribelli siano già davvero d’accordo sul significato da attribuire alla formula «regime speciale di autonomia» previsto per le regioni orientali ucraine, o sui confini dei territori interessati, o sulle modalità di svolgimento delle elezioni.

3. Il secondo elemento di debolezza sta nella mancanza di precisione di alcune clausole cruciali per il processo di pace. Si pensi al fatto che non sono stabiliti tempi precisi o specifiche modalità per l’organizzazione del ritiro delle formazioni armate straniere e dei mercenari dal Paese (punto n. 10). Altre clausole sono formulate in modo ambiguo e si prestano a più interpretazioni. Ad esempio, ai fini della celebrazione delle previste elezioni locali, il parlamento ucraino è chiamato ad adottare una «risoluzione» sui confini delle regioni che beneficeranno del regime di autonomia (punto n. 4, in base al quale tale risoluzione dovrà basarsi sulla linea stabilita nel Memorandum di Minsk del 19 settembre 2014, e cioè al territorio conquistato sul campo dai ribelli in quel momento). Non è chiaro, però, quale valore debba essere riconosciuto alla risoluzione stessa, se cioè sia un atto definitivo o piuttosto una proposta da portare al tavolo dei negoziati con i gruppi separatisti.

È il caso però di aggiungere che non appare fondata l’ interpretazione che i movimenti ribelli hanno dato dell’ambito di applicazione del “cessate il fuoco” stabilito all’art. 1, secondo cui la misura riguarderebbe solo il territorio tra le linee di contatto, e non anche il territorio al di qua delle linee medesime, con la conseguenza, in particolare, che le ostilità potrebbero continuare nella città di Debaltsevo dove, al momento della conclusione dell’accordo, risultavano asserragliate forze dell’esercito ucraino. Una simile interpretazione non trova fondamento nella lettera dell’art. 1, che parla, come abbiamo visto, di un cessate il fuoco «immediato e generale», ma neppure – si potrebbe aggiungere – in base ad un’interpretazione sistematica e teleologica dell’accordo medesimo. Poiché si tratta di un accordo di riconciliazione, di un accordo cioè che non prelude alla secessione, ma al contrario alla soluzione delle ragioni del conflitto entro una cornice politica unitaria, non avrebbe senso consentire ai gruppi ribelli di continuare nella lotta per il pieno controllo di un territorio il cui destino politico è quello di restare dentro i confini politici dello Stato ucraino.

Un terzo punto di debolezza è costituito dalla debolezza dei meccanismi internazionali previsti nell’accordo per garantire il rispetto delle clausole militari e politiche. In particolare, il controllo sul rispetto delle clausole militari è affidato all’OSCE, mediante l’uso di «all technical equipment necessary, including satellites, drones, radar systems, etc.» (punto 3). L’apparente generosità di quest’ultima espressione non deve trarre in inganno. Il compito assegnato all’OSCE in questo settore è soltanto di osservazione («effective monitoring and verification») e non certo di peace-keeping. Anche il controllo sul ritiro delle forze straniere e dei militari è affidato ad un meccanismo analogo («under monitoring of the OSCE»).

L’ultimo profilo che va sottolineato riguarda l’ambiguità della posizione assunta dalla Russia che, nonostante sia accusata dal governo ucraino e da Stati terzi (anche nell’ambito del Consiglio di sicurezza), di sostenere con proprie forze ed armi i ribelli, ha cercato di apparire nel corso dei negoziati nel ruolo di “terzo” mediatore. Tale atteggiamento ha trovato un riscontro formale nella Dichiarazione congiunta dei Capi di Stato di Francia, Germania, Russia ed Ucraina, adottata lo stesso giorno del Pacchetto. Nella dichiarazione si legge, infatti, che il Presidente russo s’impegna, negli stessi termini degli altri Capi di Stato (e dello stesso Presidente ucraino!), ad usare la propria “influenza” sulle parti del Pacchetto medesimo per facilitarne l’esecuzione. L’ambiguità della posizione russa è un elemento che, anche più di quelli finora esaminati, potrebbe pesare sulle possibilità di successo del processo di pace, ma che deve essere valutato alla luce di alcune considerazioni più strettamente giuridiche che possono essere svolte riguardo al Pacchetto e agli accordi di Minsk nel loro insieme.

4. Dal punto di vista giuridico, gli accordi di Minsk sollevano diverse questioni interessanti. Su tre di esse vorremmo adesso concentrarci brevemente.

Il primo problema consiste nel chiedersi se la conclusione degli accordi abbia prodotto conseguenze sulla soggettività internazionale dei movimenti insurrezionali che li hanno firmati, se cioè questi gruppi siano divenuti soggetti di diritto internazionale per effetto della conclusione degli accordi con il governo.

A tale problema pare debba rispondersi in senso negativo, per le seguenti ragioni. In primo luogo, una risposta positiva invertirebbe l’ordine logico che deve essere seguito: un movimento insurrezionale può essere considerato un soggetto internazionale – ancorché provvisorio, come si usa dire in dottrina – quando pervenga al controllo di una porzione di territorio, mantenendolo poi in modo indipendente da stati terzi. La capacità di concludere accordi è pertanto una manifestazione dello status acquisito e non una condizione per il suo acquisto.

Inoltre vanno considerati l’oggetto e lo scopo degli accordi di Minsk. Questi accordi mirano a risolvere la guerra civile – scatenata dalle ambizioni secessioniste dei movimenti insurrezionali del Donbass – mediante la concessione di un regime speciale di autonomia ai territori sui quali si era scatenata la ribellione. Ciò impedisce evidentemente di considerare la conclusione degli accordi in questione quale fattore che concorra all’acquisto della soggettività internazionale dei movimenti insurrezionali. Casomai potrebbe essere sostenuto il contrario, e cioè che gli accordi costituiscano un atto di disposizione da parte dei movimenti in questione di un’acquisita soggettività. Si potrebbe sostenere, in altri termini, che i gruppi stessi, dopo aver raggiunto un livello di controllo territoriale sufficiente ai fini dell’acquisto della soggettività internazionale, avrebbero deciso di rinunciarvi, a condizione di ottenere nello Stato di origine un certo livello di autonomia.

Infine, gli accordi non sembrano utilizzabili per considerare i movimenti insurrezionali come dei comitati di liberazione o degli enti esponenziali della minoranza russa che vive nella regione in lotta per l’autodeterminazione. Anche se si volesse accedere alla tesi della “secessione rimedio”, si deve tenere presente che, secondo questa tesi, un gruppo etnico minoritario avrebbe diritto alla secessione solo quando dei suoi membri siano gravemente violati i diritti fondamentali o la partecipazione all’esercizio del potere di governo.

Ora, al di là del problema della corrispondenza della dottrina della “remedial secession” al diritto internazionale (su cui v. in senso critico Tancredi), la conclusione degli accordi di Minsk, da un lato, non costituisce una forma di riparazione per violazioni precedentemente perpetrate dal governo ucraino nei confronti della minoranza russa delle regioni orientali del Paese, e, dall’altro, non è idonea a modificare i presupposti per l’applicazione dell’estremo rimedio della secessione. Dal primo punto di vista, non erano state riportate “gravi violazioni” del tipo e della dimensione che, secondo la dottrina stessa, costituirebbero condizione per l’esercizio del diritto di secessione rimedio. Dal secondo punto di vista, una rottura momentanea del processo di pace potrebbe difficilmente apparire quale fatto costitutivo di una grave violazione dei diritti della minoranza russa.

In conclusione, a noi sembra che gli accordi di Minsk non aggiungano elementi a favore della soggettività internazionale dei gruppi ribelli considerati, la quale va valutata, anche dopo il più recente Pacchetto, soltanto in base al principio di effettività, e dunque a considerazioni attinenti alla stabilità del controllo territoriale, ed al grado d’indipendenza mantenuto rispetto a Stati terzi (in particolare rispetto alla Russia).

5. Il secondo problema riguarda la natura giuridica degli accordi di Minsk, problema che si colloca entro la più ampia questione, oggetto di un crescente interesse della dottrina, concernente la natura giuridica dei “peace agreements”.

A stare ad una certa impostazione, si tratterebbe di accordi di diritto interno. La tesi si basa essenzialmente sull’argomento della natura non statuale di una o più parti (che in alcuni casi sarebbero anche prive di controllo territoriale effettivo) e sulla limitata capacità dei movimenti insurrezionali – anche una volta pervenuti al controllo di una certa porzione di territorio statale – di concludere accordi internazionali (v. per es. Schmalenbach, Article 3, in Dörr e Schmalenbach, pp. 69-71). Secondo quest’orientamento, la firma eventualmente apposta da stati terzi e/o organizzazioni internazionali non renderebbe gli accordi degli strumenti giuridici internazionali, poiché essa sarebbe espressione solo del ruolo di “testimoni” o “garanti morali” svolto da tali soggetti. Una simile soluzione ha avuto un riscontro nella giurisprudenza internazionale. Si tratta soprattutto della decisione del 13 marzo 2004 della Camera d’appello per la Corte speciale per la Sierra Leone nel caso Prosecutor against Kallon and Kamara e della sentenza del tribunale arbitrale tra il Sudan e il Sudan People’s Liberation Movement/Army nell’affare della Delimitazione della regione di Abey.

Secondo una tesi opposta, questi accordi potrebbero assumere la natura di trattati internazionali. All’interno di questa posizione si può distinguere tra chi ritiene che la suddetta prospettiva possa trovare applicazione solo in relazione ad accordi di pace firmati anche da Stati terzi (per es. Kooijmans, “The Security Council and Non-State-Entities as Parties to Conflict”, in Wellens, p. 333 ss.) e chi considera, invece, che ciò sia possibile, anche a prescindere dall’elemento da ultimo segnalato, purché peraltro il contraente non statale possa essere considerato un soggetto internazionale, e cioè quando esso abbia il controllo effettivo di un territorio (così Cassese).

Una ulteriore impostazione considera poi gli accordi di pace come strumenti dalla natura giuridica mista o ibrida: interni dal punto di vista delle parti; internazionali dal punto di vista delle garanzie (Goy; Corten e Klein). Si tratterebbe di due tipi di garanzia. Anzitutto, tale funzione sarebbe svolta dai meccanismi di monitoraggio o di peace keeping che gli accordi stessi affidano all’ONU o ad altre organizzazioni internazionali. Inoltre, secondo alcuni autori, la violazione degli accordi potrebbe essere considerata una violazione della pace e, in quanto tale, atta a provocare l’esercizio dei poteri del Consiglio di sicurezza ai sensi del capitolo VII (Roucounnas). Per altri, infine, gli accordi di pace sarebbero per lo più degli accordi interni internazionalmente garantiti, salvi quelli volti a regolare la condotta delle ostilità e quelli che disciplinano certi rapporti con gli Stati terzi, i quali andrebbero considerati dei trattati (Vierucci).

In un lavoro di qualche anno fa abbiamo sostenuto che il problema della natura giuridica degli accordi di pace può essere risolto a partire dalla considerazione del contesto in cui si collocano, che è generalmente un processo costituente. In tale processo, gli accordi svolgono le due funzioni tipiche delle costituzioni provvisorie, e cioè reggere lo Stato in un periodo transitorio e stabilire i valori cui l’ordinamento statale sarà poi definitivamente improntato. In quanto costituzioni provvisorie, gli accordi andrebbero in linea di principio considerati al di fuori di qualsiasi ordinamento giuridico preesistente (dunque quali fonti extra ordinem) e la loro garanzia riposerebbe essenzialmente sull’effettività. Il fondamento della loro validità non potrebbe essere trovato nell’ordinamento interno, posto che le riforme previste sono concordate, ed entrano in vigore secondo modalità diverse da quelle previste nella costituzione statale fino a quel momento in vigore, ma neppure nell’ordinamento internazionale. Basterebbe pensare, da questo secondo punto di vista, che la loro violazione di solito non dà origine a richieste di riparazione o a contromisure “giuridiche”, cioè a violazioni di altri obblighi internazionali giustificate a titolo di autotutela. In caso di inadempimento di una delle parti, tutto ciò che la controparte tende a fare è non rispettare a sua volta l’accordo. Il ricorso al principio inadimplenti non est adimplendum, peraltro, di per sé solo, equivale ad affermare che l’accordo si regge sull’effettività e che dopo la sua violazione non c’è altro che il ritorno alla guerra.

L’impostazione proposta non intende negare, peraltro, che gli accordi di pace possano avere qualche rilievo giuridico sul piano internazionale. Tali effetti non sono sempre gli stessi, ma cambiano a seconda dei casi. In particolare, quando, come di frequente accade, Stati terzi o organizzazioni internazionali siano coinvolti nell’esercizio dei poteri di governo nel periodo transitorio, questi atti producono effetti anche sul piano del diritto internazionale. Il più importante di questi effetti è costituito dalla manifestazione del consenso, da parte del governo e delle varie forze che ad esso si oppongono, all’esercizio, da parte di organizzazioni internazionali di poteri transitori di governo, secondo le forme e nei limiti stabiliti negli accordi stessi. In un quadro concettuale di questo tipo, il rispetto delle clausole politiche dell’accordo potrebbe essere considerato una sorta di onere per accedere all’assistenza internazionale, di cui governo e movimenti insurrezionali hanno bisogno per il buon esito dell’intero processo.

Ci pare che il problema della natura giuridica degli accordi di Minsk vada risolto allo stesso modo. Tali strumenti esprimono anzitutto un compromesso politico tra parti che si fronteggiano nella guerra civile e la loro funzione dovrebbe essere quella di reggere il Paese transitoriamente e, contestualmente, imprimere all’ordinamento statale le modifiche istituzionali ritenute indispensabili per la soluzione del conflitto. Anche per questi accordi, poi, sembra possibile ritenere che il valore giuridico internazionale non sia da ricondurre tanto all’idoneità a creare diritti ed obblighi reciproci per le parti, quanto, piuttosto, alla circostanza che in essi il governo e i movimenti ribelli esprimono il proprio consenso all’esercizio di alcuni poteri nel periodo transitorio da parte dell’OSCE.

Va notato, tuttavia, che l’internazionalizzazione del potere politico nel periodo di transizione costituzionale è molto limitata nel caso ucraino, dal momento che, come si è potuto vedere, all’OSCE sono affidati solo poteri molto blandi e poco intrusivi, di osservazione e monitoraggio sul rispetto delle clausole militari degli accordi. Sempre sul piano delle garanzie, è poi assai agevole rendersi conto che per gli accordi di Minsk non è neanche prospettabile una forma di garanzia politica del Consiglio di sicurezza, a causa del coinvolgimento nel conflitto di un suo membro permanente. Il deficit di “garanzie” internazionali rende peraltro gli accordi di Minsk ancora più dipendenti dal principio di effettività.

6. Passiamo adesso ad accennare al terzo problema, che riguarda gli aspetti giuridici della posizione assunta dalla Russia. Come abbiamo ricordato, il governo di Mosca compare tra i firmatari di tutti e tre gli accordi di Minsk. A tale riguardo si deve notare in primo luogo che la firma non sembra in grado di elevare gli accordi di Minsk al rango di trattati internazionali (come si potrebbe sostenere se si partisse dal secondo degli orientamenti dottrinali ricordati più sopra). Al di là di ogni questione teorica, è sufficiente notare, a tale riguardo, che né il Pacchetto né i precedenti accordi assegnano alla Russia specifiche funzioni di garanzia che, come abbiamo visto, sono state attribuite soltanto all’OSCE.

Ciò detto, ci si potrebbe chiedere se, per effetto della firma apposta, la Russia non abbia acquisito diritti o assunto obblighi nei riguardi dell’Ucraina. Non si tratta più di chiedersi se la firma della Russia abbia influito sulla natura degli accordi di Minsk nel loro insieme, ma se questi documenti non contengano al loro interno anche un accordo internazionale tra Russia ed Ucraina. Il Pacchetto (come già del resto il Protocollo e il Memorandum) potrebbe essere considerato, cioè, quale documento integrante due diversi accordi. Da un lato, un accordo di pace tra le parti ucraine (garantito essenzialmente dall’effettività, salvo i limitati meccanismi di controllo affidati all’OSCE) e, da un altro lato, un accordo tra due Stati (garantito dall’ordinamento internazionale). È chiaro che vagliare una simile possibilità è di un certo interesse nel caso  di specie, stante le accuse rivolte alla Russia di sostegno militare agli insorti anche mediante truppe. Si potrebbe in particolare sostenere che un accordo internazionale tra la Russia e l’Ucraina si sia formato sul punto n. 10 del Pacchetto, concernente il ritiro delle forze straniere dalle regioni orientali del Paese.

La prospettiva in esame stride, però, con la volontà manifestata dalla Russia, la quale ha sempre negato di firmare gli accordi in quanto parte nel conflitto ed ha ripetutamente riportato il suo ruolo a quello di “moral guarantor”. È bene chiarire che un simile atteggiamento sembra, peraltro, idoneo ad incidere in modo negativo più sulla posizione della Russia che su quella dell’Ucraina. Vediamo perché.

Da un lato, se, come affermato da più parti, armi e soldati russi fossero davvero presenti sul territorio orientale ucraino, il fatto che la Russia non si sia impegnata convenzionalmente al ritiro non comporterebbe conseguenze sull’obbligo di procedere in tal senso, obbligo che le sarebbe imposto dal diritto internazionale generale. L’obbligo di procedere al ritiro costituirebbe, infatti, una misura di cessazione del fatto illecito causato dalla violazione della sovranità statale ucraina e del divieto di uso della forza nei rapporti internazionali.

Da un altro lato, invece, la Russia non potrebbe sostenere che, in ragione del particolare modo di funzionamento “a catena” del Pacchetto, il governo di Kiev abbia manifestato implicitamente il suo consenso alla presenza sul suo territorio di forze armate straniere fino a quando non siano state eseguite le altre clausole politiche e militari dell’accordo. Una simile costruzione non appare prospettabile, d’altra parte, anche per un’altra ragione (diversa cioè dall’argomento in base al quale i documenti firmati a Minsk non contengono un accordo internazionale vincolante). Ci riferiamo al fatto che la disposizione concernente il ritiro delle truppe straniere è una delle poche dell’accordo che non è subordinata in modo espresso alla condizione della previa esecuzione di altre clausole. Inoltre, anche se la collocazione della clausola in esame nel contesto di un “procedimento” di esecuzione in più fasi lasciasse qualche dubbio, l’atteggiamento assunto dall’Ucraina (in particolare tra la data dei primi due accordi di Minsk e quella del Pacchetto) dimostra che il governo di Kiev non ha mai acconsentito alla presenza russa sul suo territorio (elementi che, secondo la Corte internazionale di giustizia, devono essere presi in considerazione quando il testo di un accordo in subiecta materia sia ambiguo: v. la sentenza del 19 dicembre 2005 nell’affare Attività armate sul territorio del Congo, par. 46). È utile ricordare a tale riguardo che secondo la Commissione di diritto internazionale (par. 6 del commento all’art 20 del progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per fatto illecito), tale consenso «must be clearly established. It must be actually expressed rather than merely presumed».

Ci sembra pertanto che la clausola contenuta al punto n. 10 del Pacchetto non esprima il consenso del governo ucraino a subordinare il ritiro delle truppe straniere presenti sul suo territorio alla previa esecuzione di altre clausole del Pacchetto stesso.

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