diritto dell'Unione europea

La limitazione del diritto di voto per condanne penali: alcune osservazioni sulla sentenza Delvigne

Marco Borraccetti, Università di Bologna

Con la sentenza Delvigne (causa C-650/13 del 6 ottobre 2015), la Grande Sezione della Corte di giustizia si è pronunciata sulla compatibilità con l’ordinamento dell’UE di una misura limitativa dell’esercizio del diritto di voto al Parlamento europeo (“PE”), inflitta in seguito ad una condanna per grave reato.

La sentenza si inserisce nel filone giurisprudenziale relativo al diritto di voto in generale, compiendo, per la prima volta, un’analisi mirata delle condizioni fissate dagli Stati membri per il suo esercizio. In particolare, si ragiona sulla possibilità statale di limitare l’esercizio di tale diritto da parte di coloro che hanno commesso un grave reato.

Il quadro normativo dell’Unione

Il quadro normativo dell’Unione è sul punto estremamente lineare: se si guarda al diritto primario, rilevano l’art. 39 della Carta dei diritti fondamentali (“CDFUE”), oltre che l’art. 14 TUE e l’art. 22 TFUE.

Il primo riconosce, quale diritto fondamentale dei cittadini dell’UE, il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato in cui si risiede, alle medesime condizioni dei cittadini di quello Stato; il secondo comma, invece, stabilisce che i parlamentari europei siano eletti a suffragio universale diretto, libero e segreto.

Se il primo comma è ripreso dall’art. 22, par. 2, TFUE, ciò che è stabilito nel secondo comma si ritrova nell’art. 14, par. 3, TUE, che precisa altresì la durata del mandato parlamentare.

Inoltre, rileva l’art. 49 della Carta, sul principio di retroattività della norma penale favorevole, poiché il caso in discussione innanzi al giudice di rinvio concerne l’applicazione di un regime sostituito nel tempo da uno apparentemente più favorevole al cittadino francese coinvolto.

Dal punto di vista del diritto derivato, invece, si deve considerare l’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto, il cui art. 1 prevede che: «1. In ciascuno Stato membro, i membri del Parlamento europeo sono eletti a scrutinio di lista o uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale … 3. L’elezione si svolge a suffragio universale diretto, libero e segreto». Il successivo art. 8 prevede che la procedura elettorale sia «disciplinata in ciascuno Stato membro dalle disposizioni nazionali», col solo limite di non pregiudicare il carattere proporzionale del voto, oltre agli altri requisiti fissati nell’Atto.

Si nota, quindi, l’assenza di una disposizione dell’Unione che stabilisca una procedura uniforme. Nemmeno la modifica intervenuta col Trattato di Lisbona ha portato a nuovi cambiamenti: infatti, l’art. 223, par. 1, TFUE – parzialmente riformulato – contiene l’auspicio che sia adottata una procedura uniforme; tuttavia, quasi premunendosi innanzi alla più che probabile difficoltà di darvi corso, si è previsto comunque che le disposizioni nazionali seguano «principi comuni a tutti gli Stati membri», quali per l’appunto i requisiti essenziali fissati dall’art. 14 TUE e art. 39 CDFUE.

 La norma francese

Nell’ordinamento francese, l’articolo 28, comma 1, del codice penale, applicabile al momento dei fatti, prevedeva che la condanna penale comportasse de iure la degradazione civica, ovvero la privazione del diritto di voto, di elettorato, di eleggibilità e, in generale, di tutti i diritti civili e politici. Secondo la legge relativa all’elezione dei rappresentanti francesi al PE, «Non possono essere iscritti nella lista elettorale, per il periodo stabilito nella sentenza, coloro che siano stati privati dell’elettorato attivo e passivo dall’autorità giudiziaria in applicazione delle leggi che autorizzano tale privazione».

La successiva legge del 16 dicembre 1992 aveva abrogato detta pena accessoria prevedendo, nel nuovo codice penale, entrato in vigore il 1º marzo 1994, che l’interdizione dai diritti civili sia pronunciata da un giudice e, nell’ipotesi di condanna per delitto, per un massimo di dieci anni.

La situazione è rimasta immutata per le condanne in via definitiva intervenute prima dell’entrata in vigore del nuovo codice penale; in questi casi, tuttavia, è riconosciuta la possibilità di presentare istanza al giudice competente per territorio per la revisione della sentenza.

In specie

La condanna a dodici anni per un delitto grave, avvenuta nel 1988, aveva comportato per il Sig. Delvigne la privazione de iure del diritto di voto, di elettorato e di eleggibilità; nel 2012 egli è stato quindi radiato dalle liste elettorali del Comune di Lesparre‑Médoc.

Nel corso del procedimento generato dall’impugnazione di tale provvedimento, il giudice ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire se: a) l’art. 39 CDFUE, relativo alle elezioni del Parlamento europeo, debba essere interpretato nel senso che esso impone agli Stati membri dell’Unione europea di non prevedere un divieto generale, indefinito e automatico di esercitare i diritti civili e politici, al fine di non creare una disparità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri; b) l’art. 49 della Carta debba essere interpretato nel senso che osta a che una disposizione di legge nazionale mantenga un divieto, indefinito e sproporzionato, di far beneficiare di una pena più lieve le persone condannate in via definitiva prima dell’entrata in vigore della legge penale più favorevole.

 Sulla competenza della Corte

Alcuni governi hanno eccepito la competenza della Corte a rispondere: a loro modo di vedere, le disposizioni nazionali interessate si sarebbero situate al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.

Sul punto, la risposta della Corte è stata chiara: a norma del diritto dell’UE, in particolare l’art. 8 dell’Atto del 1976, la procedura elettorale va disciplinata a livello statale  (sul punto, si vedano le sentenze Spagna/Regno Unito, punti 70 e 78; Eman e Sevinger, punti 43 e 45); tuttavia, questo non esclude a priori la possibilità di un sindacato da parte dei giudici di Lussemburgo.

Invero, la norma francese sulla quale si fonda il provvedimento di radiazione, ossia l’art. 2 della legge del 7 luglio 1977, fa esplicito rinvio alle condizioni fissate tanto dall’articolo 1, par. 3, dell’Atto del 1976, che dall’articolo 14, par. 3, TUE, per assicurare che l’elezione dei membri del Parlamento europeo si svolga a suffragio universale diretto, libero e segreto.

Perciò, a pieno titolo si può considerare che tale norma dà attuazione al diritto dell’Unione: risulta così acclarata la competenza della Corte a pronunciarsi sulle questioni pregiudiziali proposte.

Di diverso avviso, invece, è stato l’Avvocato Generale Cruz Villalón che, nelle conclusioni presentate il 4 giugno 2015, ha escluso la competenza dell’UE a pronunciarsi rispetto all’incidenza dell’art. 49, par. 1, CDFUE sul principio di retroattività della norma penale. In pratica, egli ha ritenuto di dover focalizzare la propria analisi sulla sanzione penale in sé e non sugli effetti che questa comporta; così facendo, ha sottolineato come non si possa affermare che la sanzione è stata inflitta in attuazione del diritto dell’Unione.

Appare però evidente che siffatta impostazione non consentirebbe mai di prendere in considerazione all’atto pratico gli effetti di una misura statale, legittimamente adottata al di fuori del diritto dell’UE, sul rispetto e l’attuazione di diritti riconosciuti dall’ordinamento dell’Unione; così, eventuali limitazioni non troverebbero alcun ostacolo al verificarsi ed all’essere poste in essere, con grave nocumento dell’esercizio del diritto in sé e dell’applicazione uniforme del medesimo nell’intero territorio dell’Unione.

 Nel merito

Dopo aver escluso l’applicazione del primo comma dell’art. 39 CDFUE – dal momento che esso si riferisce alla non discriminazione in base alla nazionalità, è evidente che non si applica al caso che riguarda un cittadino francese in Francia – i giudici concentrano la loro attenzione sul secondo comma, che «costituisce, l’espressione nella Carta del diritto di voto dei cittadini dell’Unione alle elezioni al Parlamento europeo, ai sensi degli articoli 14, paragrafo 3, TUE e 1, paragrafo 3, dell’atto del 1976».

Sicuramente, l’interdizione inflitta al Sig. Delvigne rappresenta una limitazione all’esercizio del diritto di voto e di elettorato passivo; è dunque decisivo comprendere se e in quale misura i diritti riconosciuti dalla Carta possano essere oggetto di limitazione.

Tanto la giurisprudenza dell’Unione che quella della Corte EDU contribuiscono alla soluzione della questione in modo ampiamente favorevole.

Da un lato, la Corte di giustizia ha già avvalorato tale ipotesi, purché ciò avvenga per previsione di legge e nel rispetto del contenuto essenziale dei diritti interessati; inoltre, in forza del principio di proporzionalità, la limitazione in parola deve essere necessaria e rispondere effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (sentenza Volker und Markus Schecke e Eifert, punto 50; nonché Lanigan, punto 55).

Dall’altro, nella valutazione della legislazione nazionale esistente, la giurisprudenza della Corte EDU – con puntuale riferimento all’art. 3 del Protocollo 1 – è ferma a ritenere che una restrizione generale, automatica e indifferenziata di un diritto sancito dalla CEDU, e che riveste un’importanza fondamentale, oltrepassa il limite di discrezionalità ammissibile. (sentenze Hirst c. UK, par. 82; Frodl c. Austria, par. 25-26; Scoppola c. Italia, par. 92).

Ora, se si guarda al caso di specie, l’interdizione del diritto di voto risulta dal combinato disposto del codice elettorale e del codice penale: è pertanto prevista per legge. Inoltre, essa rispetta il contenuto essenziale del diritto di voto previsto dall’art. 39, par. 2, poiché «non rimette in questione questo diritto in quanto tale, ma produce come effetto l’esclusione – in condizioni specifiche e in ragione del loro comportamento – di alcune persone dal gruppo dei beneficiari del diritto di voto alle elezioni al Parlamento europeo». Infine, a detta del collegio giudicante, «una limitazione come quella oggetto del procedimento principale risulta proporzionata, dal momento che essa tiene conto della natura e della gravità dell’infrazione penale commessa nonché della durata della pena».

In pratica, l’interdizione dal diritto di voto è conseguenza della condanna per un delitto grave e ad una pena privativa della libertà compresa tra i cinque anni e l’ergastolo; per tali ragioni le disposizioni che derivano dall’ordinamento dell’Unione non sono contrarie alla sua presenza in un ordinamento statale.

Diversamente da ciò che era stato suggerito dall’Avvocato Generale, la Corte si è pronunciata anche sulla retroattività della legge penale più favorevole di cui all’art. 49, par. 1, ultima frase, della Carta: se, cioè, in forza di tale previsione, debba trovare applicazione una legge successiva alla commissione del reato che prevede una pena (nella specie, un’interdizione) più lieve.

In breve, i giudici sottolineano che, con la riforma del codice penale, la previsione de iure della pena accessoria della privazione del diritto di voto è stata abrogata e sostituita da una pena complementare, che dovrà essere decisa da un giudice e non avrà durata superiore ai dieci anni nell’ipotesi di condanne per delitto. La modifica non ha, tuttavia, influito sulla situazione del Sig. Delvigne, dal momento che, in ragione della condanna pronunciata prima del 1º marzo 1994, egli ha continuato ad essere assoggettato de iure all’interdizione dal diritto di voto indefinita; detta soluzione è stata voluta per evitare che l’entrata in vigore delle nuove disposizioni portassero ad un venire meno automatico dell’interdizione al voto.

Secondo la Grande Sezione, la regola della retroattività della legge penale più favorevole non confligge con una norma di tale tipo: da un lato, l’interdizione è mantenuta solo per le condanne definitive intervenute anteriormente alla novella legislativa; dall’altro, essa offre espressamente la possibilità, alle persone assoggettate a tale interdizione, di chiedere e ottenerne la revoca: la situazione individuale, su richiesta dell’interessato, potrà quindi essere rivalutata da un giudice. Proprio l’esistenza di tale possibilità consente una pronuncia finale che afferma la compatibilità della misura col dettato della Carta.

Conclusione

Affrontando per la prima volta la questione dei limiti all’applicazione nazionale dei requisiti minimi per la regolamentazione dell’esercizio del voto al Parlamento europeo, la Corte – ricorrendo all’interpretazione tanto dell’art. 39, par. 2, che dell’art. 49, par. 1, CDFUE – ammette la permanenza degli effetti dell’esclusione de iure dal diritto di voto per i soggetti condannati in via definitiva per delitto grave prima del 1º marzo 1994. Pur se il quadro normativo è sensibilmente mutato negli anni successivi, nemmeno l’art. 49, par. 1 CDFUE – sulla retroattività della norma penale favorevole – ne mette in discussione il permanere degli effetti, poiché – seppur solamente su istanza dell’interessato – la nuova disciplina consente il controllo giurisdizionale, al fine di ottenerne modifica o revoca.

Quest’ultima previsione, che nei fatti consente di ridurre fortemente – ma non eliminare – gli effetti dell’automatismo preesistente, costituisce l’appoggio cui i giudici ricorrono per considerare il sistema compatibile con quanto previsto e richiesto dall’ordinamento giuridico dell’Unione. Tuttavia qualche perplessità rimane, poiché non è detto che l’intervento del giudice porti alla modifica della misura interdittiva (perpetua) inflitta al condannato. In caso positivo, nulla questio; diversamente, sembra chiaro che continueranno a sussistere differenze fondate solo sull’elemento cronologico, con forti sospetti in merito alla compatibilità con l’art. 49 della Carta.

Infine, l’impostazione seguita nella sentenza non costituisce una novità assoluta nel panorama dell’Unione, poiché già fatta propria dall’Agenzia dei diritti fondamentali nei passati rapporti annuali sul rispetto dei diritti fondamentali nell’Unione. In particolare, è il rapporto 2013 – ultimo a contenere una parte dedicata sul punto – che affronta specificamente la questione del diritto di voto ai detenuti, ribadendo la necessità di seguire la giurisprudenza Scoppola della Corte EDU. Esattamente ciò che la Grande Sezione della Corte di giustizia ha compiuto nel caso d’origine francese.

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