diritto dell'Unione europea

I) Brexit: Should They Stay…

Emanuela Pistoia, Università degli Studi di Teramo

1. La vittoria dei “vote remain”, il 23 giugno prossimo, – per la precisione, la comunicazione di tale esito del referendum popolare sulla permanenza del Regno unito nell’Unione al Segretariato generale del Consiglio UE, da parte del governo britannico – determinerà l’applicazione di un new settlement for the United Kingdom within the European Union, secondo quanto stabilito dal Consiglio europeo nella riunione del 18-19 febbraio scorsi. Pertanto, volendo commentare tale new settlement, prioritario è puntualizzare la natura degli atti che lo prefigurano e disciplinano.

Si tratta di un pacchetto di sette atti a numerazione successiva di soggetti in parte diversi, tutti allegati ad un atto ulteriore, del Consiglio europeo, relativo solo nella prima parte al tema «The United Kingdom and the European Union» e denominato «Conclusions of the European Council» come da prassi pluriennale di quest’istituzione (le Conclusioni del Consiglio europeo e i suoi sette allegati sono qui). Il primo degli atti del pacchetto, recante «Decision of the Heads of State or Government, meeting within the European Council, concerning a New Settlement for the United Kingdom within the European Union» (d’ora innanzi Decision), ne è anche il principale. Gli altri costituiscono infatti il suo completamento in senso sia politico sia giuridico poiché contengono l’impegno delle singole istituzioni dell’Unione, ciascuna per le proprie competenze, a dare attuazione a specifiche parti della Decision.

Ebbene, una serie di elementi inducono a considerare la Decision un accordo in forma semplificata tra gli Stati membri, che il Consiglio europeo decide di considerare quale soluzione dell’Unione alle preoccupazioni e alle richieste espresse dal Primo ministro britannico nella lettera indirizzata al Presidente Donald Tusk il 10 Novembre 2015 (sul punto v. G. Rossolillo). Gli altri atti, relativi ad attività prefigurate nella Decision ma non riconducibili ai governi nazionali, rispondono al principio pacta tertiis neque nocent neque prosunt. Il primo degli elementi determinanti per la soluzione suddetta è la distinzione, che dagli atti in questione emerge in modo molto chiaro, tra il set of arrangements costituito dai sette allegati sopra ricordati, da un lato, e la deliberazione assunta in relazione ad essi dal Consiglio europeo, dall’altro lato. Rileva particolarmente la distinzione tra quest’ultima e la Decision of the Heads of State or Government: dal par. 3 delle Conclusioni si evince che la Decision è oggetto di esame e di deliberazione del Consiglio europeo, non un atto di quest’istituzione. D’altro canto, la sua esplicita attribuzione non al Consiglio europeo ma, per l’appunto, ai Capi di Stato o di governo, impedisce la semplificazione di ricondurla direttamente al primo: secondo l’art. 15, par. 2, TFUE la composizione del Consiglio europeo ne comprende anche il Presidente e il Presidente della Commissione. Infine, la distinzione in commento è rimarcata dal fatto che uno degli atti che completano la Decision poiché relativi ad attività di soggetti diversi dai suoi autori, l’Allegato III, sia una Dichiarazione del Consiglio europeo: di essa non si avrebbe necessità se a questo fosse attribuibile la Decision medesima.

Né appare discutibile la natura di accordo riconosciuta alla Decision, in luogo di quella di mero gentleman’s agreement: nel par. 3 delle Conclusioni, il Consiglio europeo precisa come, secondo i Capi di Stato o di governo che l’hanno sottoscritta, essa sia «legally binding».

Giova ricordare che la ricostruzione proposta corrisponde alla posizione del Servizio giuridico del Consiglio europeo sul punto.

2. Vanno ora precisati l’oggetto e le finalità dell’accordo in forma semplificata concluso tra gli Stati membri dell’Unione riguardo al «New Settlement for the United Kingdom within the European Union». Determinanti appaiono due elementi: la disposizione del preambolo della Decision secondo cui la stessa «will have to be taken into consideration as being an instrument of interpretation of the Treaties» e la dichiarazione dei Capi di Stato o di Governo riportata nella Sezione I, par. 3, lett. i) delle Conclusioni del Consiglio europeo, che recita «the content of the Decision is fully compatible with the Treaties». Si aggiunga che, riguardo alle note modifiche relative alla clausola sulla “ever closer union” (che si discuteranno nel prosieguo), la Decision rinvia a una futura revisione dei Trattati, mentre le modifiche al diritto derivato sono rimandate all’adozione di atti idonei. Posto che profili specifici di incompatibilità tra la suddetta Decision e i Trattati non possono certo essere cancellati dalle disposizioni ricordate, queste valgono senz’altro a testimoniare la mancata volontà degli Stati contraenti di modificare i Trattati e, quanto agli effetti, rappresentano uno strumento di interpretazione della medesima Decision e degli altri atti del “pacchetto” nel senso di favorire soluzioni compatibili con il diritto vigente.

La ricostruzione proposta si colloca solidamente nel diritto internazionale: secondo l’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, sono strumento di interpretazione dei trattati gli accordi successivi tra Stati parti. In tal senso vi sono precedenti specifici nel quadro dell’Unione europea, peraltro con riferimento a situazioni somiglianti a quella attuale del Regno unito. Infatti, la Corte di giustizia ha utilizzato la Decisione dei Capi di Stato o di governo su «certain problems raised by Denmark on the Treaty on the European Union», avente natura di accordo in forma semplificata tra gli Stati membri dell’UE, precisamente ai fini interpretativi di una disposizione del Trattato CE: è quanto avvenuto nella sentenza Rottmann del 2010, al punto 40 (lo evidenzia C. Darwin, The new settlement agreement). Si noti come questa soluzione non desti problemi alla luce del fatto che il TUE prescrive rigide procedure per la modifica dei Trattati istitutivi: questa sembra dunque essere la ragione alla base della tecnica normativa adottata. Problemi potrebbero però derivare dall’invalidità della Decision ex art. 46 della Convenzione di Vienna, dal momento che la sua stipulazione con la forma semplificata potrebbe non essere conforme a norme di diritto interno di qualche Stato membro sulla competenza a stipulare, aventi importanza fondamentale (così A. Gianelli nelle conclusioni del seminario “A un mese dal referendum sul Brexit: riflessioni sugli aspetti giuridici di un evento senza precedenti”, Università Tor Vergata, 23 maggio 2016).

Sul piano concreto, l’orientamento assunto dalla Corte in Rottmann si rivela molto utile riguardo alle parti della Decision inerenti precisamente al significato e alla portata di norme dei Trattati, non ultimo perché l’accordo in gioco in quella sentenza è molto vicino, nell’occasio legis e nelle modalità di stipulazione, a quello ora in commento.

Il precedente Rottmann sembra invece meno utile al fine di utilizzare la Decision per l’interpretazione del diritto derivato, dal momento che all’adozione di quest’ultimo partecipano anche istituzioni dell’Unione con composizione diversa dai governi degli Stati membri, segnatamente il Parlamento europeo e la Commissione. Il punto merita attenzione poiché la Decision in vari casi reitera dicta della Corte di giustizia che costituiscono interpretazione del diritto derivato e per la cui elaborazione il diritto primario non ha avuto rilievo. In questi casi, un accordo tra gli Stati membri può essere uno degli strumenti di interpretazione; difficilmente, peraltro, quello decisivo.

Riguardo, infine, agli aspetti la cui attuazione richiede un’attività degli Stati membri, con la Decision questi hanno assunto precisi obblighi ad operare nel senso e per le finalità previste. Così, ad esempio, essi si sono impegnati ad adoperarsi al fine di emendare il TUE nel senso di escludere il Regno unito dalla clausola sulla “ever closer union among the peoples of Europe” (cfr. Section C, par. 1): beninteso, limitatamente al ruolo riconosciuto ai governi statali dall’art. 48 TUE. Un altro esempio riguarda l’adozione di atti di diritto derivato: nella Decision, gli Stati membri si sono impegnati ad adoperarsi al riguardo, naturalmente nei limiti del ruolo loro assegnato dal TFUE nelle procedure applicabili (cfr. Section D, par. 2, in fine).

L’endorsement del Consiglio europeo si fonda sull’art. 15, par. 1, TUE, poiché vale a fare dei contenuti della Decision l’orientamento dell’Unione in merito ai problemi pertinenti alla partecipazione del Regno unito all’Unione europea.

Da ultimo e per completezza, giova ricordare che la tecnica “legislativa” fin qui commentata è desunta da quella già adottata in passato per superare alcune importanti impasse politico-giuridiche del processo di integrazione europea. La combinazione di una decision dei Capi di Stato o di governo di tutti gli Stati membri, avente chiaramente natura di accordo in forma semplificata, e del suo endorsement da parte del Consiglio europeo è infatti stata la via seguita anche in esito ai fallimenti dei referendum popolari aventi ad oggetto la ratifica del Trattato di Maastricht in Danimarca (vedi qui le Conclusioni del Consiglio europeo di Edimburgo, dell’11-12 dicembre 1992, in particolare la Parte B) e quella del Trattato di Lisbona in Irlanda (vedi qui le Conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles, del 18-19 giugno 2009).

3. Nonostante la Decision abbia ad oggetto un «settlement for the UK within the European Union», la grande maggioranza delle sue disposizioni sono destinate ad essere applicate alla generalità degli Stati membri. Le eccezioni sono solo due: una è la governance economica (Section A della Decision); l’altra, la già citata clausola preambolare del TUE per cui lo stesso costituisce una tappa nella costruzione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’europa (Section C, par. 1, della Decision). La differenziazione tra gli Stati operata nei due ambiti suddetti non è omogenea in quanto nel primo caso si afferma l’esistenza di due gruppi di Stati, individuati a seconda che adottino o meno l’euro, mentre nel secondo il Regno Unito verrebbe a trovarsi in una posizione diversa da tutti gli altri membri.

L’integrazione differenziata rispetto all’unione economica e monetaria, tale per cui gli Stati che adottano come moneta l’euro hanno raggiunto uno stadio considerevolmente più avanzato di integrazione in senso verticale e sono destinatari, attuali e potenziali, di norme non applicabili agli altri, è una realtà del processo di integrazione europea fin dal Trattato di Maastricht. Nel quadro del Titolo VIII TFUE, dedicato alla politica economica e monetaria, però, tale integrazione differenziata sfuma alquanto, poiché le disposizioni che si applicano esclusivamente agli Stati partecipanti all’euro sono limitate, ed altrettanto lo sono quelle specifiche per gli Stati «riguardo ai quali il Consiglio non ha deciso che soddisfano le condizioni necessarie per l’adozione dell’euro» (c.d. “Stati membri con deroga”). Riguardo alle molto più numerose misure ad applicazione generalizzata, l’integrazione differenziata interessa talvolta il solo Regno Unito, per effetto delle eccezioni stabilite nel Protocollo n. 15; talvolta i soli Stati membri con deroga (ai quali, se ben si comprende il par. 1 del Protocollo 16, è equiparata la Danimarca), sulla base dell’art. 139, par. 2, TFUE; talvolta, infine, sia il primo che i secondi. Quanto alle disposizioni che consentono l’adozione di atti di diritto derivato, le più numerose riguardano atti indirizzati a tutti gli Stati membri, essendo molte basi giuridiche previste al di fuori del Capo 4 (artt. 136-138), recante «Disposizioni specifiche agli Stati membri la cui moneta è l’euro». Talvolta – come è il caso dell’art. 121, par. 6, che tra gli altri, costituisce la base giuridica del regolamento (UE) n. 1175/2011 relativo alla procedura di Semestre europeo – le disposizioni in questione si applicano addirittura anche al Regno Unito. Del resto, anche il c.d. Fiscal Compact del 2012 – Trattato adottato al di fuori del quadro giuridico dell’UE a causa dell’opposizione di alcuni membri, che costituisce un elemento essenziale dell’integrazione in ambito economico – vede tra le sue parti contraenti numerosi Stati non partecipanti all’euro.

Invece, la governance economica concordata nel Settlement è nettamente ispirata alla distinzione fra l’Eurozona e la non-Eurozona. Tale distinzione si realizza con alcuni strumenti di carattere istituzionale o procedurale e alcune regole materiali. Meritevoli di commento appaiono particolarmente i primi, dal momento che le seconde sembrano costituire una riaffermazione di regole già esistenti o comunque di orientamenti già affermatisi. A quest’ultimo riguardo è significativa la disposizione per cui «Emergency and crisis measures designed to safeguard the financial stability of the euro area will not entail budgetary responsibility for Member States whose currency is not the euro, or, as the case may be, for those not participating in the banking union» (Section A, par. 3). Infatti, nel TFUE, la disposizione che consente l’adozione di misure siffatte è l’art. 136, par. 2, la quale corrisponde precisamente alla stessa idea. Per giunta, com’è noto, l’art. 136, par. 2, è stato inserito nel TFUE con procedura di modifica semplificata proprio al fine di predisporre uno strumento finanziario atto a tutelare la stabilità della zona euro, non semplicemente di uno Stato membro in presenza di particolari condizioni. Gli Stati e le istituzioni dell’Unione hanno infatti ritenuto che l’unica disposizione, già presente nel TFUE, sulla possibilità di assistenza finanziaria in caso di crisi – l’art. 122, par. 2 – fosse utilizzabile solo per sostenere la stabilità di uno Stato specifico (peraltro, anche eventualmente non partecipante all’euro), non dell’Eurozona nel suo complesso. Di qui la necessità, sulla quale ha concordato la Corte di giustizia con la sentenza Pringle (cfr. soprattutto il punto 65), di dotare l’Unione di una diversa base giuridica (l’attuale art. 136, par. 2) per la seconda evenienza, che si è quindi affrontata con la stipulazione del Trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (MES). In aderenza all’orientamento (ri)affermato nella Decision, la nuova base giuridica è stata collocata nel TFUE tra le «Disposizioni specifiche agli Stati membri la cui moneta è l’euro». Diversamente, l’assistenza finanziaria accordabile ex art. 122, par. 2, proviene da tutta l’Unione.

Gli strumenti istituzionali o procedurali preposti alla più netta distinzione fra Eurozona e non-Eurozona sono tre. I primi due (in parte sovrapposti) stabiliscono che alcuni atti di diritto derivato dovranno riguardare i soli Stati membri partecipanti all’euro: si tratta rispettivamente delle «measures, the purpose of which is to further deepen economic and monetary union» (parte iniziale della Section A) e dello «Union law on the banking union conferring upon the European Central Bank, the Single Resolution Board or Union bodies exercising similar functions, authority over credit institutions» (Section A, par. 2). Tale distinzione tra Stati-euro e Stati-non euro deve però essere flessibile. Infatti, riguardo alle «measures, the purpose of which is to further deepen Economic and Monetary Union» (che in verità sembrano comprendere in termini generali anche quelle sull’unione bancaria), se la regola dovrà diventare che esse si applichino ai soli Stati partecipanti all’euro, gli altri potranno decidere di accettarne taluna con modalità à-la-carte (ciascuno individualmente, s’intende) e, comunque, le misure in questione dovranno essere sempre aperte alla partecipazione degli Stati non-euro. Dovendo individuare gli strumenti atti ad attuare questo profilo della Decision nei Trattati vigenti, si deve osservare che la scelta di una base giuridica nel Capo 4 piuttosto che altrove, nel Titolo VIII, non è del tutto soddisfacente. Infatti, le disposizioni del Capo 4 riguardano i soli Stati la cui moneta è l’euro, cosicché non si prestano all’adozione di misure rivolte a uno o più Stati non-euro. Inoltre, se la flessibilità di cui si è detto dovesse essere intesa anche con riferimento a momenti successivi all’adozione di un atto, le basi giuridiche dell’art. 136 non sarebbero adeguate neppure se al momento dell’adozione nessuno Stato non-euro manifestasse la volontà di parteciparvi. Ne consegue che lo strumento con cui attuare la distinzione flessibile fra Eurozona e non, prefigurato nel Settlement, sembra essere la scelta di una base giuridica applicabile a tutti gli Stati membri in regime di cooperazione rafforzata.

Per quanto specificamente concerne l’unione bancaria, l’assetto delineato nella Decision costituisce una mera fotografia dell’approccio già in uso, il quale realizza la distinzione tra Stati-euro e Stati non-euro con uno strumento non previsto nei Trattati istitutivi: ci si può attendere che proprio questo continui ad essere utilizzato anche per atti normativi futuri. Così, da un lato gli atti pertinenti all’unione bancaria si fondano su basi giuridiche applicabili a tutti gli Stati membri incluso il Regno Unito: tale risulta pertanto essere il disegno dei Trattati istitutivi a questo riguardo. Dall’altro lato, il Regolamento (UE) n. 1024/2013 – atto capostipite dell’unione bancaria in quanto attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi – all’art. 7 stabilisce che in relazione agli enti creditizi stabiliti in uno Stato non-euro esso si applica solo se la BCE «e l’autorità nazionale competente dello Stato membro in questione abbiano instaurato una cooperazione stretta» nel senso disciplinato nella medesima disposizione, cioè a dire se la BCE abbia adottato una decisione in tal senso, in presenza di certe condizioni oggettive e della volontà dello Stato interessato. Tale decisione potrà essere revocata se, secondo la BCE, lo Stato non soddisfi più le condizioni previste ovvero se tale Stato chieda di porre fine alla cooperazione stretta. Gli atti successivi (cfr. i Regolamenti (UE) nn. 468/2014 e 806/2014) replicano il suddetto approccio facendo affidamento sulla distinzione fra “Stato membro partecipante” e “Stato membro non partecipante”: quest’ultimo è definito come Stato non-euro che ha instaurato una collaborazione stretta ai sensi dell’art. 7 del regolamento 1024/2013.

Ove non si trovi convincente alla luce dei Trattati vigenti l’approccio illustrato, va sottolineato che il Settlement non può certamente valere a sanarne i vizi: come si è detto, esso non vale a modificare i Trattati.

Infine, lo strumento procedurale atto a rafforzare la distinzione fra Stati-euro e Stati-non-euro attiene alla procedura decisionale nel Consiglio ed è previsto in una decisione del medesimo, allegata in bozza alle conclusioni del Consiglio europeo (Annex II), che sarà adottata in caso di esito negativo del referendum britannico. Anche in questo caso si è riprodotta una tecnica “legislativa” collaudata, cioè a dire quella seguita per introdurre un “ammorbidimento” nella procedura di voto della maggioranza qualificata disciplinata dai Trattati (il c.d. nuovo compromesso di Ioannina): infatti la dichiarazione n. 7, allegata ai Trattati istitutivi quali modificati dal Trattato di Lisbona, contiene una bozza di decisione del Consiglio relativa all’attuazione della procedura decisionale che, su impegno della conferenza intergovernativa, avrebbe dovuto essere adottata dallo stesso Consiglio «alla data della firma del trattato di Lisbona», per entrare in vigore «il giorno dell’entrata in vigore di detto trattato». Peraltro, la decisione prefigurata nell’Annex II contiene una variante della procedura già disciplinata nella dichiarazione n. 7 (ed effettivamente adottata quale Decisione del Consiglio del 13 dicembre 2007, 2009/857/CE, in GUUE L 314, 1.12.2009. Sull’affinità del meccanismo regolato nell’Annex II con il Compromesso di Lussemburgo v. G. Rossolillo). Essendo preordinata a rafforzare la distinzione fra Stati-euro e Stati non-euro, la variante si applica «to the legislative acts to which Section A of the Decision of the Heads of State or Government applies, the adoption of which is subject to the vote of all members of the Council», cioè a dire quando si usino basi giuridiche diverse dall’art. 136 TFUE, in relazione ai quali «[s]olo i membri del Consiglio che rappresentano gli Stati membri la cui moneta è l’euro prendono parte al voto» (art. 136, par. 2). La variante ha in comune con la procedura-base la finalità di pervenire a decisioni condivise anche quando tecnicamente non necessario per l’adozione di una misura: essa si applica qualora il Consiglio voti a maggioranza qualificata, ma è attivabile (senza sfociare in un veto) anche da un solo Stato avente perplessità sui contenuti dell’atto in discussione. La possibile attivazione da parte di un solo Stato fa sì, però, che rispetto alla procedura-base la variante rappresenti un ammorbidimento della maggioranza qualificata molto più pronunciato, poiché la prima può iniziare se più Stati (sebbene in numero non sufficiente a raggiungere una minoranza di blocco) si oppongano all’adozione di una misura. Inoltre, diversamente dalla procedura-base, rispetto alla quale gli Stati sono tutti uguali, quelli che possono attivare la variante sono solo i partecipanti all’unione bancaria e per un’unica finalità: quella di far valere che l’atto in discussione non rispetterebbe i principi in tema di governance economica stabiliti nel Settlement, vale a dire quelli che regolano la distinzione tra Eurozona e non-Eurozona.

4. Il Regno Unito sarebbe, dopo la finalizzazione di un’apposita modifica dei Trattati, l’unico Stato membro non impegnato a far avanzare il processo di integrazione europea.

È questa una differenziazione squisitamente politica.

Infatti, sotto nessun profilo sembra possibile ravvisare una componente giuridica del commitment degli Stati membri dell’UE ad approfondire il processo di integrazione. Rispetto ai progressi realizzabili al livello del diritto primario, è ovvio che in nessun modo gli Stati possono dirsi obbligati a impegnarsi nella negoziazione e nella stipulazione di trattati di revisione, né tantomeno possono dirsi obbligati a ratificare quelli finalizzati a mezzo delle procedure previste. Rispetto ai progressi realizzabili a mezzo del diritto derivato, è altrettanto ovvio che gli Stati non sono obbligati a esprimere il proprio voto positivo nel Consiglio per favorire l’adozione degli atti rilevanti. C’è di più: lo strumento preposto alla realizzazione dell’integrazione differenziata al livello del diritto derivato, la cooperazione rafforzata, è stato pensato proprio per consentire agli Stati non pronti ad approfondire l’integrazione in alcuni settori specifici – riguardo ai quali nei Trattati sono già presenti le basi giuridiche per procedere in tal senso! – di farsi da parte. Del resto, la disposizione dei trattati che esprime la continuità del processo di integrazione europea attraverso i vari trattati di revisione è contenuta nel preambolo, il quale non si presta a contenere disposizioni ad effetti vincolanti per gli Stati contraenti.

In termini più generali, la mancata natura giuridica del commitment degli Stati al processo di integrazione europea emerge con evidenza dall’art. 48, par. 1, TUE, secondo cui la revisione dei Trattati può essere intesa a ridurre le competenze attribuite all’Unione, e dalla Dichiarazione n. 18, la quale chiarisce che quest’ultima può decidere di cessare di esercitare una propria competenza di natura concorrente.

Infine, contrariamente a quanto ventilato nella Section C, par. 1, della Decision, il riferimento dei Trattati al processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa finora non sembra aver mai costituito lo strumento giuridico per ampliare l’ambito di applicazione di norme del diritto derivato, né per abbracciare interpretazioni estensive delle competenze dell’Unione o dei poteri delle istituzioni, né infine per influenzare il modus operandi dei principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità.

Quanto sopra puntualizzato non può servire a minimizzare i contenuti della Decision sul punto, tanto più che, stando ai termini in cui è formulato l’incipit della Section C, par. 1 («It is recognised that the United Kingdom […] is not committed to further political integration into the European Union»; corsivo aggiunto), con l’assenso degli altri 27 membri il Regno Unito si nega al committment suddetto già al momento attuale, cosicché la futura revisione dei Trattati sul punto servirà solo a rappresentare una situazione esistente. Questa lettura non è in contraddizione con l’oggetto e gli effetti della Decision quali si sono individuati in precedenza, appunto a causa della natura politica degli impegni in discussione.

Concludendo, la gravità del mancato commitment politico del Regno Unito alla ever closer union sta nella diversità della situazione risultante rispetto ai tanti casi di integrazione differenziata ormai presenti nei Trattati istitutivi. Questi si caratterizzano infatti per non arrecare pregiudizio al disegno politico unitario dell’integrazione europea, il che emerge anche dal fatto che quasi sempre i Trattati stabiliscono modalità di riassorbimento delle posizioni differenziate de quibus (clausole di opt-in, apertura delle cooperazioni rafforzate, etc). Il Settlement costituisce invece un vulnus al disegno politico unitario dell’integrazione europea.

5. L’altro aspetto, oltre a quello del commitment alla ever closer union, sotto il quale la Decision intende salvaguardare la sovranità degli Stati membri (qui senza differenziazioni di sorta), riguarda il rafforzamento del principio di sussidiarietà. La Section C, par. 3, stabilisce un meccanismo procedurale che si sovrappone alla procedura indicata nel Protocollo n. 2, apparentemente integrandola (v. in dettaglio K. Granat). Esso riguarda in generale gli atti legislativi dell’Unione e si aggiunge pertanto sia alla procedura c.d. di cartellino giallo prevista nell’art. 7, par. 2 del Protocollo n. 2 (del pari relativa a ogni atto legislativo), sia a quella disciplinata nell’art. 7, par. 3 (riservata agli atti da adottare con procedura legislativa ordinaria). Il meccanismo prevede che, quando i pareri motivati sul mancato rispetto del principio di sussidiarietà espressi dai Parlamenti nazionali riguardo ad una bozza di atto legislativo entro 12 settimane dalla sua trasmissione rappresentino più del 55% dei voti attribuiti ai Parlamenti stessi, la Presidenza del Consiglio debba includere la relativa questione nell’ordine del giorno di quest’istituzione affinché abbia luogo una discussione ampia su tali pareri. All’esito della discussione, i rappresentanti degli Stati membri nel Consiglio dovranno interrompere l’esame della bozza di atto, a meno che questa non sia modificata per tenere conto dei pareri suddetti.

La formulazione letterale della Section C, par. 3, depone nel senso dell’assenza di discrezionalità dei membri del Consiglio circa la valutazione, ai fini del blocco della procedura di adozione dell’atto, della pertinenza delle obiezioni mosse dai Parlamenti nazionali. Si tratta di un’interpretazione problematica perché, se fosse fondata, il nuovo meccanismo introdurrebbe uno squilibrio difficilmente giustificabile tra Consiglio e Parlamento europeo (in particolar modo riguardo agli atti da adottare con procedura legislativa ordinaria) e attribuirebbe ai Parlamenti nazionali un ruolo apparentemente poco conciliabile con le prerogative delle istituzioni dell’Unione nell’adozione degli atti legislativi. D’altra parte, un’interpretazione diversa priverebbe di utilità la disposizione in commento la quale, riguardo agli atti da adottare con procedura legislativa ordinaria, si sovrapporrebbe quasi completamente al meccanismo già previsto nell’art. 7, par. 3, lett. b) del Protocollo n. 2.

6.  La parte della Decision relativa all’aspetto forse più scottante del dibattito pubblico concernente la Brexit è la Section DSocial Benefits and Free Movement. I suoi contenuti sono troppo articolati per un’analisi accurata in questa sede, per cui si cercherà di puntualizzarne solo alcuni profili “costituzionali” di carattere generale (per un commento specifico v. S. Peers).

Sulla parte intitolata «Interpretation of current EU rules» si può osservare che le relative disposizioni talvolta sembrano in verità forzare i contenuti del diritto vigente. Ad esempio, in tema di restrizioni della libertà di circolazione giustificate per ragioni di tutela dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza, l’art. 27, par. 2 della direttiva n. 2004/38/CE prescrive che l’individuo interessato debba costituire una minaccia attuale, mentre secondo il par. 1, lett. c) della Section D «the threat may not always need to be imminent». Ebbene, in conformità con l’oggetto e le finalità della Decision, di cui sopra si è detto, si dovranno privilegiare interpretazioni della stessa che si concilino con i Trattati e il diritto derivato applicabile. Tuttavia, ciò potrebbe rivelarsi impossibile. È ad esempio quanto sarebbe accaduto se la Corte avesse accolto il ricorso della Commissione proprio contro il Regno unito nella causa C-308/14 (sull’eventualità che la Commissione rinunciasse a questo ricorso, S. Peers). . Infatti, nella parte intitolata «Interpretation of current EU rules» la Decision stabilisce: «Member States may reject claims for social assistance by EU citizens from other Member States who do not enjoy a right of residence» (par. 1, lett. b)) (corsivi aggiunti). Secondo la Commissione, invece, per effetto del regolamento (CE) n. 883/2004 non doveva essere possibile accordare determinate prestazioni sociali ai cittadini di altri Stati membri subordinatamente alla condizione che questi risiedessero regolarmente nello Stato ospite a norma della direttiva 2004/38/CE, in particolare a seguito dell’esito positivo del controllo circa la regolarità del soggiorno. Con una sentenza del 14 giugno 2016 che forse contribuirà a indebolire le ragioni del “leave”, in extremis la Corte ha disatteso la posizione della Commissione, come peraltro aveva già fatto l’Avvocato generale nelle conclusioni presentate il 6 ottobre 2015. Ad ogni buon conto, in merito alle parti della Decision che ripropongono o addirittura cercano di modificare disposizioni di direttive o regolamenti ovvero loro interpretazioni da parte della Corte di giustizia, va rilevato che la stipulazione di un accordo internazionale tra Stati membri (qual è la Decision) su una materia già oggetto di diritto derivato dell’UE dovrebbe essere considerata una violazione, da parte degli Stati, dell’obbligo di leale collaborazione ex art. 4, par. 3, TUE. Quanto agli effetti, la Corte di giustizia potrebbe utilizzare il principio dell’effet utile delle norme dei Trattati istitutivi per considerare che la disposizione pattizia espressione della violazione suddetta non è applicabile. Anche l’endorsement del Consiglio europeo costituirebbe una violazione dei Trattati, in particolar modo dell’art. 13, par. 2, TUE, sull’obbligo delle istituzioni a collaborare lealmente tra di loro.

La parte più interessante della Section D è senz’altro quella intitolata «Changes to EU secondary legislation». Tali changes sarebbero due. La prima, relativa al regolamento (CE) n. 883/2004, consentirebbe agli Stati membri di indicizzare i child benefits pagati al lavoratore avente la cittadinanza di un altro Stato membro, i cui figli non risiedano con lui nello Stato ospite, alle condizioni dello Stato membro di residenza del figlio minore. La seconda, relativa al regolamento (UE) n. 492/2011, comporterebbe l’introduzione di un meccanismo in forza del quale uno Stato destinatario di un eccezionale flusso migratorio proveniente da altri Stati membri dell’UE potrebbe essere autorizzato, per un periodo massimo di 7 anni, a restringere l’accesso agli in-work benefits di carattere non contributivo ai “nuovi” lavoratori fino a 4 anni dall’inizio dell’impiego. Sotto un profilo istituzionale, si è osservato che le modifiche necessitano del voto positivo del Parlamento europeo, il quale non è impegnato a finalizzarle (mentre, grazie alle dichiarazioni rispettivamente contenute negli annessi V e VI, la Commissione si è impegnata a presentare proposte legislative, e gli Stati si sono obbligati a dare priorità all’esame di queste in seno al Consiglio e a fare quanto in loro potere per addivenire alla loro rapida adozione). Sul piano dei contenuti, va sottolineato che le modifiche del diritto derivato devono pur sempre rispettare il diritto primario. Il testo della Decision sembra risentire positivamente di questo vincolo: le modifiche sono infatti prefigurate in modo da tenere conto del principio di proporzionalità delle deroghe e del divieto di discriminazione tra i cittadini europei. In particolare l’idea stessa di sottoporre l’applicazione della deroga sugli in-work benefits ad una procedura di autorizzazione del Consiglio, attivabile su proposta della Commissione, sembra ispirarsi alle disposizioni suddette. C’è tuttavia da chiedersi se gli sforzi compiuti siano sufficienti, dal momento che la Corte di giustizia, nel corso di una giurisprudenza pluriennale, ha costantemente respinto le restrizioni applicate dagli Stati membri alle libertà di circolazione al fine di compensare gli squilibri e le differenze normative tra di essi che favoriscono o addirittura stimolano l’esercizio di tali libertà. In altre parole, secondo l’orientamento sempre adottato dalla Corte, il pull factor rappresentato dal sistema di in-work benefits di uno Stato membro, che nella Decision si intende limitare (Section D, par. 2, lett. b)), sembrerebbe connaturato al funzionamento delle libertà di circolazione previste nei Trattati. Pertanto, è necessario chiedersi se, alla luce delle stesse disposizioni dei Trattati che stabiliscono le libertà suddette, la Corte non dovrebbe considerare illegittime le modifiche legislative in discussione, o perlomeno trovare soluzioni interpretative che le ridimensionino.

Ma la riflessione più amara ispirata dalle modifiche al diritto derivato prefigurate nella Section D, par. 2, riguarda il tradimento del metodo funzionalista su cui fin qui si è fondato il processo di integrazione europea. È infatti evidente che le pressioni certamente eccessive sul sistema di welfare di alcuni Stati provocate dalla “immigrazione interna” all’UE sono dovute a un’integrazione ancora imperfetta. Il lamentato pull factor costituito dai sistemi di welfare più avanzati o più generosi sarebbe invece ridimensionato se i sistemi di welfare nazionali non fossero così diversi tra loro e sarebbe addirittura neutralizzato se esistesse un sistema di welfare dell’Unione. Ebbene, il metodo funzionalista vorrebbe che la soluzione al problema in discussione fosse un avanzamento del processo di integrazione in una delle direzioni prospettate. Tante volte e in tanti settori diversi questo metodo è stato applicato con successo. Invece, in spregio del metodo funzionalista, il prezzo da pagare per evitare, con la Brexit, un arretramento dell’integrazione orizzontale costituisce un arretramento dell’integrazione verticale.

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Emanuela Pistoia

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