diritto dell'Unione europea

Patti chiari, amicizia lunga: l’accordo sullo status del Regno Unito nell’Unione europea

Giulia Rossolillo, Università di Pavia

L’atteggiamento di rifiuto da parte del Regno Unito nei confronti di qualsiasi forma di unione politica tra gli Stati europei rappresenta una costante del processo di unificazione del Vecchio Continente. Fin dal suo ingresso nella Comunità economica europea, nel 1973, la Gran Bretagna ha infatti concepito l’integrazione europea come un processo volto alla creazione di un mercato unico e alla liberalizzazione degli scambi tra Stati membri, opponendosi tenacemente a ogni avanzamento istituzionale che minacciasse la sovranità del Regno Unito e del suo Parlamento. Tale visione, manifestatasi con particolare virulenza negli anni del governo di Margareth Thatcher, durante i quali il Regno Unito, invocando il principio del «giusto ritorno», ha ottenuto forme di compensazione del suo contributo al bilancio comunitario, non ha subito variazioni sostanziali in conseguenza dell’alternarsi al governo di laburisti e conservatori, e si è dunque consolidato come tratto caratterizzante della partecipazione britannica al processo di integrazione. Negli ultimi anni a subire un mutamento sono state tuttavia le forme nelle quali detto atteggiamento si è manifestato. Mentre infatti tradizionalmente l’opposizione britannica a forme di integrazione di carattere politico si è tradotta nel tentativo di impedire, attraverso il proprio veto, che tutti gli Stati membri procedessero in questa direzione, a partire soprattutto dal manifestarsi della crisi economica e finanziaria le preoccupazioni del Regno Unito sembrano piuttosto orientarsi verso la tutela della propria posizione di Stato che beneficia del mercato unico, ma che non intende opporsi a passi verso l’unione politica da parte degli altri Stati membri dell’Unione europea. In questo senso, particolarmente significativa è la posizione della House of Lords sul trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria (il c.d. Fiscal Compact), nella quale si sottolinea l’interesse del Regno Unito a un consolidamento dell’eurozona, nonostante la sua posizione di Stato esterno alla stessa e non intenzionato in futuro ad entrare a farne parte. Il mutato atteggiamento ora illustrato non è frutto del caso, ma sembra dettato dalla direzione imboccata dal processo di integrazione europea a partire dal Trattato di Maastricht. Nonostante forme di integrazione differenziata siano rintracciabili nel processo di integrazione fin dai primi anni del suo sviluppo, l’Unione economica e monetaria, e dunque la creazione di una moneta comune agli Stati che rientrassero in determinati parametri di carattere economico e giuridico, nonché la parallela manifestazione di volontà da parte di Regno Unito e Danimarca di non parteciparvi, hanno rappresentato in effetti il primo passo nella direzione di un’Europa a due velocità. Da un lato, infatti, la cessione della sovranità monetaria da parte di alcuni Stati membri ha implicato la creazione di un’istituzione – la Banca centrale europea – che gestisse la politica monetaria comune, in deroga dunque al principio di unità istituzionale, dal momento che degli organi della BCE fanno parte solo rappresentanti degli Stati membri dell’eurozona; dall’altro, la creazione della moneta ha comportato il sorgere di legami sempre più stretti tra gli Stati della zona euro e di esigenze comuni degli stessi, distinte da quelle degli Stati non partecipanti. La crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, se da un lato ha accentuato tale fenomeno, dall’altro ha messo in luce la forte interdipendenza tra consolidamento della moneta unica e prosecuzione del processo di integrazione, cui si ricollega la sostanziale impossibilità per l’Unione europea di mantenersi in vita in caso di fallimento della moneta unica. In effetti, il carattere incompleto dell’Unione economica e monetaria, dettato dal fatto che al trasferimento al livello europeo della competenza in materia di politica monetaria non ha corrisposto una parallela cessione della competenza in materia di politica economica e fiscale ha determinato l’impossibilità, per le istituzioni europee, di far fronte efficacemente alla crisi e ha posto in evidenza l’urgenza di compiere riforme sostanziali dei suoi meccanismi di funzionamento. Come sottolineato dalla Commissione nella Comunicazione del 28 novembre 2012 «Verso un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita» e dal Rapporto dei quattro presidenti del 5 dicembre 2012 «Verso un’autentica unione economica e monetaria» (al quale è succeduto il ben più prudente Rapporto dei cinque Presidenti del 2015), la prospettiva è quella della progressiva realizzazione di un’unione bancaria, economica, fiscale e politica tra gli Stati dell’eurozona. Ora, se l’idea di un avanzamento verso un’unione politica è stata tradizionalmente avversata dal Regno Unito per timore di essere coinvolto in forme di approfondimento del processo di integrazione contrarie alla sua volontà, non va d’altro lato dimenticato che la rinuncia a tale prospettiva, che porterebbe negli anni al dissolvimento dell’Unione monetaria, rischia di avere effetti dirompenti anche sugli Stati membri – tra i quali lo stesso Regno Unito – che dell’eurozona non vogliono entrare a far parte. Il crollo della moneta unica comporterebbe infatti, con ogni probabilità, il venir meno di quel fondamento di fiducia e di solidarietà necessario per il mantenimento di un progetto di integrazione tra Stati, e dunque si tradurrebbe in un fallimento del progetto europeo nel suo complesso. Senza completamento dell’Unione economica e monetaria anche il mercato unico sarebbe in altre parole messo in pericolo. È in questo quadro che va collocata la lettera del Primo Ministro britannico Cameron al Presidente del Consiglio europeo Tusk del 10 novembre 2015. La lettera costituisce il tentativo di Cameron di definire uno status particolare del Regno Unito nell’ambito dell’Unione europea per far fronte al rischio di un esito negativo del referendum sull’appartenenza all’Unione europea indetto per il mese di giugno: la garanzia di non essere coinvolti in alcuna forma di integrazione politica e di approfondimento del processo di integrazione potrebbe infatti convincere gli elettori britannici ad esprimersi per la permanenza nell’Unione, dal momento che questa non comporterebbe ulteriori limitazioni della loro sovranità. Nelle richieste di Cameron si riflette la preoccupazione, prima messa in luce, di salvaguardare il buon funzionamento del mercato unico, senza impedire che gli Stati membri dell’eurozona procedano verso forme di unione economica e fiscale. Si tratta di una preoccupazione che emerge in particolare nelle proposte di riforma indicate sotto il titolo di «Economic Governance», laddove si afferma che esistono due tipologie di Stati membri dell’Unione europea, gli Stati membri dell’eurozona e gli Stati membri esterni ad essa, e che è interesse dei secondi che l’eurozona funzioni bene. Per questo motivo, il Regno Unito non pretende nuovi opt-out, né di esercitare un veto sulle scelte effettuate dagli Stati legati dalla moneta unica, bensì chiede che vengano riconosciuti determinati principi che assicurano la convivenza tra eurozona ed Europa a 28. Tra questi ultimi possono essere citati il riconoscimento della circostanza che l’euro non è l’unica moneta dell’Unione; la protezione dell’integrità del mercato unico; il principio per cui i contribuenti degli Stati non appartenenti all’eurozona non debbano sopportare i costi di operazioni di supporto di questa; l’esigenza che la stabilità finanziaria e la supervisione negli Stati non euro rimangano di competenza delle autorità nazionali. Strettamente legate alle richieste di riforma ora citate sono quelle contenute nel paragrafo dedicato alla sovranità. Il riconoscimento dell’esistenza di due gruppi di Stati all’interno dell’Unione e della necessità che le misure adottate dagli Stati della zona euro non interferiscano con il mercato unico e con le scelte degli Stati esterni alla moneta dovrebbe comportare infatti, secondo Cameron, da un lato che venga stabilito attraverso atti vincolanti che il Regno Unito non è obbligato a contribuire a creare un’unione sempre più stretta tra gli Stati dell’Unione; dall’altro un rafforzamento del principio di sussidiarietà attraverso un controllo più stringente da parte dei parlamenti nazionali. In relazione alla competitività, infine, la lettera si limita a richieste piuttosto generiche, mentre per quanto concerne l’immigrazione, oltre a misure che contribuiscano ad evitare abusi della libertà di circolazione, le richieste si concentrano sulla possibilità di limitare la concessione di alcune prestazioni sociali ai lavoratori migranti e ai loro figli. Le conclusioni del Consiglio europeo del 19 febbraio 2016 costituiscono la risposta alle preoccupazioni britanniche e, riprendendo molte delle richieste avanzate nella lettera di Cameron, definiscono gli strumenti attraverso i quali, nel caso di esito positivo del referendum di giugno, configurare un nuovo status del Regno Unito all’interno dell’Unione. Si tratta di un atto piuttosto articolato: le conclusioni contemplano infatti una lunga serie di allegati, le cui disposizioni prenderanno effetto dal momento in cui il governo del Regno Unito informerà il Consiglio di aver deciso di continuare ad essere uno Stato membro dell’Unione. In particolare, alla decisione dei Capi di Stato e di Governo riuniti in sede di Consiglio europeo, relativa a una nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea, seguono una Dichiarazione degli stessi contenente un progetto di decisione del Consiglio su alcune disposizioni relative all’Unione bancaria e alle conseguenze di un’ulteriore integrazione della zona euro, una Dichiarazione del Consiglio europeo sulla competitività, e quattro Dichiarazioni della Commissione (su un meccanismo di attuazione della sussidiarietà e della riduzione degli oneri, sull’indicizzazione delle prestazioni per i figli a carico esportate verso altri Stati membri, su un meccanismo di salvaguardia in caso di afflusso eccezionale di lavoratori provenienti da altri Stati membri, e su questioni connesse all’abuso del diritto di libera circolazione). Mentre la decisione dei Capi di Stato e di Governo riuniti in sede di Consiglio traccia il quadro generale dei rapporti tra Regno Unito e Unione europea in tutte le sue articolazioni, le singole dichiarazioni si concentrano sulle misure specifiche da adottare nei vari ambiti citati nella decisione. Ciò che qui preme mettere in luce non sono tanto i singoli aspetti tecnico-giuridici dell’accordo raggiunto con il Regno Unito (sui quali si rinvia a Peers), né le procedure che dovranno essere messe in atto una volta accertata la volontà di detto Stato di mantenere il proprio status di Stato membro dell’Unione: sembra pacifico, infatti, che si tratti di un accordo in forma semplificata tra gli Stati membri dell’Unione europea e che, proprio perché si tratta di un compromesso che avrà un’influenza determinante sulla scelta dei cittadini britannici di rimanere o meno nell’Unione, in caso di esito positivo del referendum nel Regno Unito costituirà la base da cui prendere avvio per la revisione dei trattati. È piuttosto invece sul significato complessivo dello stesso e sulle prospettive che esso apre per lo sviluppo del processo di integrazione che si concentrerà l’attenzione. Ora, il fatto che molte delle richieste avanzate dal Primo Ministro britannico siano state accolte dai Capi di Stato e di governo degli Stati membri non deve meravigliare: il principio secondo il quale il Regno Unito non ostacolerà l’avanzamento dell’integrazione all’interno dell’eurozona a patto che sia salvaguardato il mercato comune, e dunque la sanzione formale dell’esistenza di due velocità all’interno dell’Unione, se da un lato garantisce al Regno Unito la salvaguardia della propria sovranità, dall’altro consente agli Stati dell’eurozona e agli Stati intenzionati ad entrare a farvi parte di dar vita a forme di integrazione politica senza essere ostacolati dal veto degli Stati esterni alla stessa. Il superamento dell’ambiguità che caratterizza allo stato attuale i rapporti tra Regno Unito e Unione europea rappresenta dunque un vantaggio per tutti. Filo conduttore dell’accordo è in effetti il principio, ribadito più volte e con declinazioni differenti, secondo il quale «gli Stati membri che non partecipano all’ulteriore approfondimento dell’Unione economica e monetaria non ostacoleranno, bensì agevoleranno, tale ulteriore approfondimento, mentre detto processo, viceversa, rispetterà i diritti e le competenze degli Stati membri non partecipanti». Così, quanto alla governance economica, si sottolinea che «gli Stati membri la cui moneta non è l’euro non ostacolano l’attuazione di atti giuridici direttamente collegati al funzionamento della zona euro e si astengono da misure che rischiano di mettere in pericolo la realizzazione dell’Unione economica e monetaria». Similmente, in relazione all’unione bancaria, si legge che la normativa sull’unione bancaria che conferisce funzioni di vigilanza alla Banca centrale europea, al Comitato di risoluzione unico e agli organi dell’Unione che esercitano funzioni simili è applicabile unicamente agli enti creditizi situati in Stati membri dell’eurozona o in Stati membri che hanno concluso con la BCE un accordo di cooperazione stretta in materia di vigilanza prudenziale; e che le misure di emergenza destinate a salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro non comporteranno responsabilità di bilancio per gli Stati membri esterni ad essa o per quelli che non partecipano all’unione bancaria. Il medesimo principio è ribadito poi nella sezione dedicata alla sovranità, laddove si riconosce che il Regno Unito non è vincolato a prendere parte a un’ulteriore integrazione politica nell’Unione europea e si sottolinea che i riferimenti a un’unione sempre più stretta fra i popoli europei non si applicano al Regno Unito. Va peraltro notato che numerose disposizioni contenute nelle Conclusioni e negli atti allegati si limitano a ribadire obblighi o principi già presenti nei Trattati istitutivi o in atti di diritto derivato, o sanciti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, a testimonianza del valore in gran parte politico e “pedagogico” dell’accordo, volto da un lato a rassicurare gli elettori britannici, dall’altro a definire con chiarezza per il futuro i rispettivi margini di azione dell’eurozona da un lato e dei Paesi esterni ad essa dall’altro. Quanto alle “concessioni” alla Gran Bretagna, esse riguardano essenzialmente il rafforzamento del controllo del principio di sussidiarietà da parte dei Parlamenti nazionali, l’introduzione di un meccanismo simile al compromesso di Lussemburgo riguardo a deliberazioni relative all’unione bancaria che debbano essere adottate da tutti gli Stati membri, e alcune limitazioni relative a prestazioni sociali nei confronti di cittadini di altri Stati membri, in particolare la previsione di una sorta di freno di emergenza nel caso di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale per un periodo di tempo prolungato. Per quanto concerne il rafforzamento del principio di sussidiarietà, esso consiste nella previsione secondo la quale se i pareri dei parlamenti nazionali sul mancato rispetto di tale principio di sussidiarietà da parte di un progetto di atto legislativo inviati entro 12 settimane dalla trasmissione dello stesso rappresentano più del 55% dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, la questione verrà posta all’ordine del giorno del Consiglio, che dovrà svolgere una discussione esauriente su tali pareri e interrompere l’esame del progetto in questione, a meno che questo non venga modificato per rispondere alle preoccupazioni dei parlamenti nazionali. Si tratta di una proposta di modifica del Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, volta da un lato ad allungare (da otto a dodici settimane) il termine entro il quale i parlamenti nazionali potranno pronunciarsi, dall’altro ad inasprire le conseguenze del mancato rispetto del principio di sussidiarietà. Va tuttavia messo in luce che per un verso la maggioranza di voti dei parlamenti richiesta è elevata, e dunque non facile da raggiungere; per altro verso la maggioranza ad oggi richiesta è stata raggiunta in rarissime occasioni (v. Ponzano) ed è dunque probabile che, anche con le modifiche proposte, il nuovo meccanismo non costituisca un’arma nelle mani dei legislatori nazionali per bloccare l’attività legislativa dell’Unione. Per quanto riguarda invece l’unione bancaria, l’allegato II alle Conclusioni del Consiglio europeo contiene un progetto di decisione del Consiglio volto ad introdurre in materia di governance economica un meccanismo a prima vista simile per alcuni aspetti al Compromesso di Lussemburgo (1966). Nel progetto di decisione si legge, infatti, che, qualora debba essere adottato a maggioranza qualificata un atto da parte di tutti i membri del Consiglio e almeno uno di essi che non partecipa all’unione bancaria si opponga a tale adozione e motivi la sua opposizione, il Consiglio deve discutere la questione e adottare le iniziative necessarie a raggiungere una più ampia base di accordo in seno al Consiglio. Tali iniziative possono consistere anche in una richiesta di discussione della questione nell’ambito del Consiglio europeo, che poi rimetterà la questione al Consiglio per la sua decisione. Ora, se per alcuni aspetti la possibilità per uno Stato di far sì che la discussione proceda per ottenere una base più ampia di consenso tra gli Stati ricorda il sopra citato compromesso di Lussemburgo – che ha di fatto consentito fino all’Atto Unico ad ogni Stato membro di esercitare un diritto di veto in seno al Consiglio – non deve trascurarsi che il progetto di decisione si preoccupa di neutralizzare gli effetti deleteri che un simile meccanismo potrebbe produrre. La decisione di investire della questione il Consiglio europeo – si specifica infatti nel progetto di decisione – dovrà tener conto dell’eventuale urgenza della questione e in ogni caso non pregiudica il normale funzionamento della procedura legislativa dell’Unione, né può dar luogo a una situazione che consenta a uno Stato membro di porre un veto. Va poi sottolineato che il Progetto di decisione riguarda gli atti che debbano essere adottati da tutti e 28 gli Stati membri: esso non incide dunque sulle disposizioni la cui adozione è subordinata al voto favorevole dei soli Stati membri della zona euro. Infine, quanto alle misure relative alle prestazioni di sicurezza sociale per i lavoratori migranti, da un lato la decisione dei Capi di Stato e di governo riuniti in sede di Consiglio si preoccupa di dettare dei principi interpretativi delle norme vigenti in detta materia, dall’altro sottolinea che la Commissione, una volta che la decisione in questione prenderà effetto (e dunque nel momento in cui il Regno Unito comunicherà la sua volontà di rimanere nell’Unione) presenterà proposte volte alla modifica di alcune disposizioni del regolamento 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale e del regolamento 492/2011 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione. Quanto alle indicazioni di carattere interpretativo, le più rilevanti riguardano l’affermazione della possibilità per gli Stati membri di condizionare alcune prestazioni all’esistenza di un collegamento effettivo e reale tra la persona interessata e il mercato del lavoro dello Stato ospitante, e di negare la concessione di prestazioni di sicurezza sociale a persone che esercitino la libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di uno Stato membro (con particolare riguardo alle prestazioni la cui funzione predominante è quella di garantire i mezzi minimi di sussistenza), pur non disponendo delle risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno. In relazione a quest’ultimo profilo, nella decisione si prevede che la Commissione sottoporrà una proposta di modifica del regolamento 492/2011, volta a istituire un meccanismo di allerta e di salvaguardia nell’ipotesi in cui uno Stato membro sia sottoposto a un afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale e per un periodo di tempo prolungato. Lo Stato in questione dovrebbe notificare alla Commissione e al Consiglio l’esistenza di una simile situazione e comunicare il fatto che essa lede aspetti essenziali del suo regime di prestazioni sociali, o determina conseguenze gravi sul suo mercato del lavoro, o mette sotto eccessiva pressione il corretto funzionamento dei servizi pubblici. Su proposta della Commissione, il Consiglio potrebbe allora autorizzare lo Stato membro a limitare nella misura necessaria l’accesso alle prestazioni sociali a carattere non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa, nei confronti dei lavoratori nuovi arrivati, per un periodo massimo di quattro anni dall’inizio del rapporto di lavoro. L’autorizzazione avrebbe comunque durata limitata, applicandosi ai lavoratori nuovi arrivati per un periodo di sette anni. In relazione al Regno Unito, la previsione di tale misura, come emerge anche dal cenno contenuto nelle disposizioni interpretative della decisione in questione, sembra motivata dall’esistenza in tale Stato di una legislazione relativa al reddito minimo particolarmente favorevole, la cui applicazione illimitata a tutti i lavoratori migranti, in caso di afflusso eccezionale, potrebbe gravare in modo eccessivo sul sistema di sicurezza sociale di tale Stato. In ogni caso, si tratterebbe di un meccanismo di carattere eccezionale, di durata limitata e che non toccherebbe le prestazioni contributive. Quanto alla di proposta modifica del regolamento 883/2004, essa riguarda la possibilità per gli Stati membri, nel caso di esportazione delle prestazioni per i figli a carico verso uno Stato membro diverso da quello in cui il lavoratore soggiorna, di indicizzare tali prestazioni alle condizioni dello Stato membro nel quale i figli risiedono. Anche in relazione alle misure di sicurezza sociale nei confronti dei lavoratori migranti, dunque, non sembra che l’accordo incida in modo particolarmente severo sulle disposizioni attualmente vigenti, dal momento che queste ultime prevedono già la possibilità di apporre limiti all’accesso alle prestazioni sociali di carattere non contributivo e che la stessa Corte di giustizia ha adottato un approccio restrittivo in materia in alcune recenti sentenze (sentenza 11 novembre 2014, C-333/13, Dano; sentenza 15 settembre 2015, C-67/14, Alimanovic). Come sottolineato dal Presidente della BCE Draghi in un discorso tenuto al “Süddeutsche Zeitung Finance Day” il 16 marzo 2015, una riforma strutturale e profonda dell’eurozona non è oggi una scelta politica, bensì una necessità. L’Unione monetaria ha infatti inevitabilmente portato alla creazione di legami sempre più stretti tra gli Stati membri della zona euro, ma non a una convergenza economica tra questi. In una situazione nella quale la competenza in materia fiscale è rimasta nelle mani degli Stati membri, tale divergenza non può essere compensata con trasferimenti di risorse fiscali da un Paese all’altro, con la conseguenza che i cittadini dei Paesi in difficoltà iniziano a chiedersi se non sia più conveniente tornare alle monete nazionali e alla conseguente gestione da parte dei singoli Stati degli strumenti di politica monetaria. Da questa situazione – sottolinea Draghi – è possibile uscire solo se a un sistema fondato su regole – che per essere credibili devono essere rigide, e non si possono adattare ai mutamenti del contesto economico e politico – si decida di sostituirne uno fondato su istituzioni, in grado di prendere decisioni politiche nel caso concreto. L’accordo sancito dal Vertice del 19 febbraio apre la strada al compimento di questo passo, come emerge anche dalle proposte contenute nel documento del governo italiano immediatamente successivo all’accordo stesso. Se il Regno Unito, infatti, deciderà di rimanere nell’Unione europea, cadrà l’ostacolo alle riforme strutturali dell’eurozona costituito dal veto di tale Paese. Spetterà dunque agli Stati che condividono la moneta unica decidere se continuare a vincolarsi a regole sempre più stringenti (v. la dichiarazione comune dei Ministri delle Finanze tedesco e francese “Europa braucht ein gemeinsames Finanzministerium”) o creare istituzioni democratiche che gestiscano la politica economica e fiscale dell’eurozona e consentano di completare l’Unione economica e monetaria.

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