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Lo sfuggente articolo 3, paragrafo 3, del regolamento Roma I: tra autonomia delle parti e salvaguardia degli interessi statali

Giovanni Zarra, Università di Napoli Federico II

Il regolamento n. 593/2008 (c.d. Roma I), che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali nei processi celebrati dinnanzi ai giudici degli Stati dell’Unione europea, si fonda sul principio dell’autonomia delle parti. Quest’ultimo, secondo quanto affermato nel considerando 11 del regolamento stesso, è la «pietra angolare» del sistema europeo dei conflitti di leggi. Conferma di quanto appena detto è data dal fatto che il regolamento consente che due soggetti aventi la medesima nazionalità possano decidere che un contratto relativo a una situazione interamente interna a uno Stato sia disciplinato da un diritto straniero. Ciò perché, nel mondo degli scambi commerciali, sovente accade che un sistema giuridico sia percepito come particolarmente sviluppato nella regolamentazione di un dato tipo di rapporti (si pensi, ad es., al diritto inglese con riguardo alle materie della navigazione o dei mercati finanziari).

Ciononostante, il legislatore europeo ha comunque voluto astrattamente scongiurare il rischio che la scelta di un diritto straniero in situazioni puramente interne possa avvenire al solo scopo di eludere l’applicazione di alcune norme inderogabili dell’ordinamento giuridico che sarebbero state altrimenti applicabili al caso di specie. Con una disposizione di carattere generale, dunque, l’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I introduce una limitazione al principio di autonomia delle parti, sancendo che «[q]ualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente».

Questa norma pone, a ben vedere, due problemi interpretativi estremamente complessi, rispetto ai quali proveremo, in questa breve riflessione, a offrire una soluzione (per una disamina più ampia del tema e per adeguati riferimenti normativi si rimanda a Zarra; per precedenti lavori in dottrina cfr. Boschiero, “I limiti al principio d’autonomia posti dalle norme generali del regolamento Roma I. Considerazioni sulla ‘conflict involution’ europea in materia contrattuale”, in Id., p. 67 ss.). Il primo di essi riguarda il concetto di «elementi pertinenti della situazione», mentre il secondo concerne la categoria delle «disposizioni di legge non derogabili convenzionalmente». Le questioni qui discusse – e le difficoltà a esse connesse – sono state di recente poste all’attenzione degli interpreti dall’Avvocato generale Szpunar nelle sue conclusioni nel caso Vynils, nel quale, tuttavia, la Corte di giustizia UE ha poi perso l’occasione per riempire di contenuto queste espressioni non facilmente intellegibili.

Partiamo dalla prima delle questioni indicate. Quand’è che possiamo dire che tutti gli elementi pertinenti della situazione siano riconducibili a un solo Stato? La risposta potrebbe essere fornita sia guardando agli elementi giuridici del caso dinnanzi al giudice, sia svolgendo un’analisi meramente fattuale delle circostanze concrete della controversia. La prima prospettiva, di recente sostenuta nelle conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar (par. 141-149) nel già citato caso Vynils, consente di evitare che le parti possano artatamente modificare la cornice fattuale del caso introducendo elementi volti a «internazionalizzare» la vicenda. Quest’approccio, tuttavia, a differenza di quello che privilegia l’analisi delle circostanze fattuali, è probabilmente più lontano dall’oggetto e dallo scopo del regolamento Roma I, il quale – come espressamente previsto al considerando n. 37 – nel sancire la primazia dell’autonomia delle parti dispone anche che qualsiasi limitazione a tale principio debba essere interpretata in modo restrittivo. Questo è stato, infatti, l’approccio che la Corte di giustizia UE ha privilegiato nei casi Unamar (par. 49) e Nikoforidis (par. 44), nei quali era stata chiamata a esprimersi sulla categoria delle «norme di applicazione necessaria» e ha chiarito che, in quanto misura derogatoria, l’art. 9 (che disciplina tali norme) deve essere interpretato sempre restrittivamente. Non a caso, anche la dottrina (Biagioni, “Art. 3”, in Salerno, Franzina, p. 631) e la giurisprudenza degli Stati membri che si sono occupate della questione hanno prediletto l’opinione qui sostenuta. Già nel 2004, in Caterpillar v. SNC, la High Court di Londra ha chiarito che «[a]rticle 3.3 refers to elements “relevant to the situation” which is wider than “elements relevant to the contract”» (par. 18). In seguito, i giudici del Regno Unito sono stati anche più espliciti: in Banco Santander v. Companhia Carris de Ferro de Lisboa la stessa High Court (con una decisione poi confermata dalla Corte d’appello) ha affermato che, in una controversia che dal punto di vista giuridico presentava legami con il solo ordinamento portoghese, la presenza di alcuni elementi fattuali estranei al Portogallo – tra i quali spiccava l’utilizzo ad opera delle parti di un modello contrattuale predisposto dalla International Swaps and Derivatives Association con sede a New York – giustificava la scelta delle parti in favore del diritto inglese (par. 366 ss.) e consentiva quindi al giudice di non dar luogo alla limitazione di cui all’art. 3, par. 3, e quindi di non applicare le norme portoghesi alle quali non è permesso derogare convenzionalmente. Quest’approccio è stato altresì confermato, in simili circostanze, dalla Corte d’appello di Londra in Dexia v. Comune di Prato, in cui i giudici hanno ulteriormente affermato (par. 134) che l’uso del già citato modello contrattuale è comune nel mondo della finanza proprio perché esso consente di «sconnettere» i rapporti giuridici da dimensioni puramente nazionali. Ciò giustifica, di per sé, la non applicazione di cui all’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I.

Quanto appena detto, in ogni caso, non sembra porre in discussione l’esistenza di un certo margine di discrezionalità per i giudici interni. Posto che la disposizione parla di elementi pertinenti della situazione, è evidente che l’interprete ha facoltà di determinare quali, a suo parere, siano gli elementi fattuali della situazione ai quali bisogna dare rilievo, in relazione alle circostanze del caso concreto, per determinare se la controversia possa considerarsi o meno connessa a più di un ordinamento giuridico. Questa valutazione non può che avvenire tenendo conto dei principi e dei valori in gioco che vanno ragionevolmente bilanciati (applicando una metodologia proposta da Perlingieri, p. 14). Sarà dunque un’analisi caso per caso a guidare il giudice nello stabilire se, poste le circostanze fattuali della controversia, sia maggiormente meritevole di tutela il valore della salvaguardia dell’autonomia delle parti – il che giustificherà l’attribuzione di un valore più significativo agli elementi fattuali di estraneità rispetto all’ordinamento con cui il caso è maggiormente connesso – o quello della tutela di alcuni interessi statali che sarebbero pregiudicati ove non si desse applicazione alle norme giuridiche dell’ordinamento con cui il caso presenta maggiori connessioni – ciò che, al contrario, consentirà una minimizzazione del rilievo di tali elementi. A titolo di esempio è possibile menzionare un caso, tutt’ora pendente nel Regno Unito, riguardante un contratto tra due enti greci regolato dalla legge italiana (per effetto di una clausola di scelta) per la compravendita di una compagnia di navigazione, anch’essa greca, in cui si è posto il problema di valutare se le circostanze che (i) la compagnia oggetto della compravendita svolgesse regolarmente trasporti tra la Grecia e l’Italia e (ii) che una delle parti fosse interamente controllata da una società italiana, potessero essere elementi sufficienti a giustificare la non applicazione dell’art. 3, par. 3. Sebbene qui certamente si tratti di capire se le due circostanze menzionate siano sufficienti a escludere che la situazione sia puramente interna o meno, per le ragioni suesposte riterremmo che al giudice possa competere anche una valutazione di pertinenza di tali circostanze fattuali rispetto al caso (e dunque, in qualche modo, di opportunità rispetto alla possibilità di applicare anche la legge greca). Da un lato, infatti, il meccanismo dell’art. 3.3 – proprio per garantire che non diventi idoneo a consentire di restringere ad libitum lo spazio dell’autonomia – deve basarsi in linea di principio non su valutazioni di convenienza, ma su un’analisi fattuale. Dall’altro lato, come anticipato, ci pare però che, di là da considerazioni di carattere formalistico, la norma lasci comunque un certo margine di valutazione al giudicante nel valutare se gli elementi di fatto siano pertinenti per il caso e dunque al fine dell’applicazione del diritto greco (e, quindi, tenendo conto della controversia nel suo complesso, se sia opportuno applicare le norme imperative semplici di diritto greco).

Venendo alla seconda questione sopra indicata, ovvero l’individuazione delle disposizioni di legge non derogabili convenzionalmente, è evidente che – posta la diversa formulazione e la diversa collocazione normativa – queste debbano essere distinte dalla categoria delle norme di applicazione necessaria. Questo è del resto affermato esplicitamente nel considerando n. 37 del regolamento Roma I, il quale stabilisce che «[i]l concetto di “norme di applicazione necessaria” dovrebbe essere distinto dall’espressione “disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente” e dovrebbe essere inteso in maniera più restrittiva». A contrario, sembra quindi evidente che l’art. 3, par. 3, intende riferirsi a una categoria più ampia di disposizioni (rispetto alla ristretta categoria delle norme di applicazione necessaria) e quindi non solo quelle «il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici» al punto da richiederne l’applicazione ad ogni costo (cfr. art. 9 del regolamento Roma I). In particolare, la previsione in esame potrebbe riguardare anche quelle norme che – espressione di meri principi tecnici, che non identificano l’ordinamento giuridico in un dato momento storico (per la differenza tra principi tecnici e fondamentali cfr. Perlingieri, Zarra, p. 60) – un sistema di diritto può decidere di imporre come limite per la libertà contrattuale nei rapporti puramente interni. Si parla, a tal riguardo, di c.d. «norme imperative semplici».

Quanto appena detto, tuttavia, non fuga tutti i dubbi relativi all’ambito applicativo della categoria in questione. C’è infatti da chiedersi se il riferimento dell’art. 3, par. 3, è alle sole disposizioni legislative volte a disciplinare i contratti (si pensi al Titolo II del Libro IV del codice civile italiano sul contratto in generale e alle norme che disciplinano i singoli contratti) o a tutte quelle norme che possono, anche indirettamente, esercitare un’influenza sul rapporto tra le parti. Entrambe le posizioni sono state sostenute in dottrina e hanno degli elementi di meritevolezza e dei punti deboli. Chi vorrebbe limitare l’ambito applicativo dell’art. 3, par. 3, alle sole norme relative alla disciplina legale dei contratti (De Cesari, «Disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente» e «norme di applicazione necessaria» nel regolamento Roma I, in Venturini, Bariatti, p. 257 ss.) trae conforto dallo spirito del regolamento Roma I, che, come abbiamo visto, impone di interpretare restrittivamente tutte le limitazioni alla libertà contrattuale. Al contrario, l’opinione di chi ritiene opportuno estendere tale ambito applicativo a tutte le norme di diritto che, secondo un certo ordinamento giuridico, non sono derogabili (Boschiero, cit., p. 98 s.), sembra poter godere di un maggior fondamento nella ratio dello stesso art. 3, par. 3 (ossia quella di salvaguardare gli interessi statali coinvolti da possibili elusioni). Quest’ultima, infatti, potrebbe essere frustrata dall’esclusione aprioristica di intere categorie di disposizioni dal novero di quelle rientranti nella previsione di cui discutiamo. E, del resto, se da un lato determinare la categoria delle norme che riguardano la disciplina dei contratti potrebbe essere compito eccessivamente arduo (si pensi, ad esempio, al difficile inquadramento di categorie c.d. «borderline», come le norme in materia tributaria relative alla registrazione dei contratti di locazione immobiliare), dall’altro lato un eccessivo ampliamento della categoria delle norme c.d. imperative semplici finirebbe per mortificare gli obiettivi del regolamento Roma I.

Come procedere, quindi? In assenza di una previa identificazione delle norme inderogabili da parte del legislatore, a noi pare che l’identificazione della categoria delle norme imperative semplici non possa essere operata in astratto, ma che esse vadano individuate caso per caso, in relazione ai valori e ai principi di volta in volta in gioco. Sarà l’interprete a dover determinare, considerando gli interessi di cui le parti si fanno portatrici, se i principi alla base del regolamento Roma I e dell’eccezione contenuta nell’art. 3, par. 3, (l’autonomia delle parti, da un lato, e la necessità di salvaguardare gli interessi statali che sarebbero pregiudicati dall’applicazione del diritto straniero a un caso puramente interno, dall’altro) richiedano un’estensione o una compressione della categoria delle disposizioni alle quali non è permesso derogare convenzionalmente. L’applicazione di norme di diritto provenienti da un ordinamento diverso da quello scelto dalle parti – ma pur strettamente legato al caso da decidere – sarà quindi disposta se, in concreto, si dimostri che gli interessi alla base della pretesa applicazione di una certa norma giuridica siano tali da dover prevalere, nella situazione da decidere, sulla «pietra angolare» su cui si regge il diritto internazionale privato europeo, ossia il principio di autonomia delle parti.

Si pensi, per meglio comprendere la distinzione, a tutte quelle norme che nell’ordinamento italiano determinano la c.d. «illegalità» di un contratto per la sua non conformità a un modello legislativo; queste disposizioni si distinguono da quelle che invece esprimono un giudizio di disvalore aprioristico verso il negozio (si pensi al contratto volto a far consumare un delitto) e che determinano la c.d. «illiceità» del contratto. Mentre queste ultime, tendenzialmente, sono previsioni che – in via di bilanciamento – potranno imporsi sempre sul principio di autonomia delle parti (esse sono, dunque, sempre imperative ai fini dell’applicazione del regolamento Roma I), per quanto concerne le prime la valutazione non potrà che dipendere dagli interessi concretamente coinvolti, nel senso che l’imperatività di una certa disposizione non potrà che essere determinata che caso per caso. Rimanendo nel diritto italiano, ciò è confermato da due riflessioni. Primo, perché lo stesso art. 1418 c.c. – che ai commi 2 e 3 prevede alcuni casi di nullità positivamente determinati – al primo comma invece afferma che il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative (c.d. nullità virtuale), salvo che la legge disponga diversamente, cosí lasciando all’interprete il compito di determinare in quali circostanze si sia in presenza di una norma imperativa e quali siano i casi in cui si può ritenere che la legge abbia disposto diversamente. Secondo, perché, come vedremo, vi sono vari casi in cui – pur se la legge preveda espressamente la nullità di un certo contratto (c.d. nullità testuale, a cui fa riferimento il terzo comma dell’art. 1418 c.c.) – l’ordinamento ammette, espressamente o implicitamente, una sanatoria della nullità stessa. Di conseguenza, ove in quest’ultimo caso si disponesse ex art. 3, comma 3, l’applicabilità di una norma di diritto italiano senza tenere conto delle possibili modalità applicative di tale norma nel caso di specie, si otterrebbe l’effetto di applicare – in deroga alla espressa volontà delle parti – una legge sulla base della sua astratta categorizzazione come imperativa, quando quella stessa legge avrebbe potuto non essere applicata in un analogo caso retto dal diritto interno.

Per i motivi che abbiamo visto, in conclusione, qualsiasi soluzione aprioristica e astratta ai problemi interpretativi posti dall’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I rischia di pregiudicare interessi meritevoli di tutela. Di conseguenza, l’individuazione di una categoria di norme imperative semplici «a geometria variabile» sembra essere l’unica soluzione a un problema che – se non esaminato attraverso il prisma di un caso concreto – potrebbe rivelarsi inesorabilmente sfuggente.

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