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“IMPERATIVITÀ” DELLA NORMA DI CONFLITTO UE E PRINCIPIO DISPOSITIVO NEL PROCESSO CIVILE ITALIANO

Omar Vanin, Università di Ferrara

Le norme sui conflitti di leggi adottate dall’UE sulla base dell’art. 81, par. 2, lett. c, Tratt. FUE mirano fondamentalmente a far sì che un rapporto giuridico sia disciplinato dalla medesima legge quale che sia lo Stato membro dal cui punto di vista esso viene osservato. Tale obiettivo rischia di non essere soddisfatto allorché le norme in questione ricevano negli Stati membri un’applicazione non uniforme. Accresce questo rischio il fatto che le norme di conflitto, quando sono evocate nel quadro di un processo, possono subire l’influenza delle regole processuali del foro: regole di fonte interna, che variano talora in modo molto marcato da uno Stato membro a un altro.

L’influenza ora segnalata può esprimersi diversamente, a seconda delle questioni considerate e del sistema processuale che viene preso a riferimento. Centrale, al riguardo, è la questione consistente nello stabilire se le norme di conflitto, una volta rilevato un elemento di internazionalità nella fattispecie, trovino applicazione d’ufficio nel giudizio, o piuttosto presuppongano l’iniziativa di una delle parti. Questione, questa, da non confondere con quella della inderogabilità delle medesime norme. Un conto, infatti, è stabilire come entri nel dibattito processuale la questione della legge applicabile, un altro è stabilire se i criteri che presiedono alla soluzione di tale questione siano rigidamente stabiliti dalla legge o se possano essere plasmati in qualche misura dalla volontà negoziale delle parti. Nell’ordinamento italiano, la natura imperativa delle norme di conflitto dell’ordinamento italiano non è mai stata veramente oggetto di contesa fra gli studiosi (cfr. Boschiero, Norme di diritto internazionale privato “facoltative”?, in Riv. dir. int. priv. e proc.), mentre altri ordinamenti seguono tradizionalmente l’approccio opposto, o riconoscono alle norme di conflitto un’imperatività in vario modo attenuata (per una visione di insieme delle esperienze di altri ordinamenti nazionali sul tema, cfr. de Boer).

È stato osservato che, per quanto il diritto dell’Unione garantisca in linea generale l’autonomia degli Stati membri nel campo del processo, non tutte le soluzioni accolte nei sistemi processuali nazionali sono egualmente capaci di garantire l’effetto utile delle norme regionali. Si è detto, in questo senso, che le norme di conflitto dell’UE devono ritenersi senz’altro imperative: intendendole in questo modo, si evita che le parti, qualora inerti in giudizio sulla questione della legge applicabile, pregiudichino in concreto l’uniformità di soluzioni che quelle norme intendono invece propiziare (Franzina, L’applicazione genuina del diritto straniero richiamato dalle norme di conflitto dell’Unione europea, in Cherubini et al, p. 1115).

Questo scritto si propone di esaminare il rischio che, nel contesto del processo civile, il principio dispositivo e quello della domanda impediscano al giudice di garantire l’applicazione della norma di conflitto dell’UE. Di qui, si individueranno gli istituti del diritto processuale civile italiano che possano prevenire il rischio descritto, nelle ipotesi in cui le parti non abbiano invocato la sua applicazione o, sebbene invocata, non abbiano dato prova del criterio di collegamento che innesca l’applicazione della stessa. In ultimo, si darà conto delle posizioni assunte su questi temi nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

Prima di procedere, si deve dare atto che talune disposizioni contenute nei regolamenti dell’Unione inerenti al diritto applicabile sembrerebbero allontanarsi dal paradigma della imperatività. Così, ad esempio, gli artt. 26 dei regolamenti “gemelli” (UE) 2016, nn. 1103 e 1104, relativi ai regimi patrimoniali tra coniugi e tra partner di unioni registrate, dispongono che «[i]n via di eccezione e su richiesta di uno dei coniugi, l’autorità giurisdizionale […] può decidere che la legge di uno Stato diverso da quello la cui legge è applicabile […] disciplini il regime patrimoniale» . Del pari, l’art. 7 del regolamento (CE) n. 864/2007 (c.d. Roma II), in tema di legge applicabile all’illecito civile derivante da un danno ambientale, permette al danneggiato di invocare l’applicazione della legge del paese in cui si è verificato l’evento nocivo, in deroga al criterio di collegamento generale di cui all’art. 4, par. 1, del medesimo regolamento. Le norme di conflitto ora richiamate, in effetti, subordinano l’applicazione della legge straniera all’esplicita sollecitazione della parte interessata. Si tratta, tuttavia, di deroghe eccezionali che non esprimono un canone generale, laddove invece, in genere, il legislatore europeo elabora la norma di conflitto con locuzioni che ne esaltano il carattere prescrittivo. In difetto di diversa indicazione del legislatore, dunque, le norme di conflitto dell’Unione vanno intese come immediatamente precettive e la loro applicazione non può, di regola, essere rimessa all’iniziativa processuale delle parti.

L’idea che le norme di conflitto dell’UE siano per regola applicabili d’ufficio sembra non porre problemi di sorta per quegli ordinamenti – come quello italiano, e altri ascrivibili al modello di civil law – che si informano al principio iura novit curia. Un esame più attento, tuttavia, rivela che talune questioni di carattere processuale incidono sulla problematica anche per tali ordinamenti, rischiando o di comprimere i poteri del giudice finalizzati ad assicurare l’applicazione officiosa delle norme, o di estenderli eccessivamente.

Il problema si verifica quando il giudice introduce nel dibattito processuale una questione non sollevata dalle parti, come quella della potenziale applicabilità del diritto straniero. La natura imperativa della norma di conflitto, invero, si scontra in questo scenario con due cardini del processo civile italiano: il principio della domanda e quello del contraddittorio, con i rispettivi ancoraggi negli artt. 24 e 111, comma 2°, Cost. In ossequio a tali principi, il giudice, ravvisando la potenziale rilevanza di una norma di conflitto non invocata dalle parti, dovrà quindi ricorrere a quel particolare meccanismo di ripristino del contraddittorio sancito all’art. 101, comma 2°, c.p.c. Il giudice deve cioè invitare le parti a esprimere le rispettive posizioni ove ritenga di porre a fondamento della decisione una questione rilevabile d’ufficio, sotto pena di nullità della decisione (cfr. Ferraris, Principio del contraddittorio e divieto di decisioni «a sorpresa»: questioni di fatto e questioni di diritto, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1182 ss.). L’istituto è noto anche ad altri ordinamenti processuali, quale quello francese, ove l’art. 16 del Code de procédure civile dispone che il giudice «ne peut fonder sa décision sur les moyens de droit qu’il a relevés d’office sans avoir au préalable invité les parties à présenter leurs observations» (su tale previsione normativa v. Couchez, Principe de la contradiction, in Juris classeur de procédure civile, 1998, p. 12 ss.; per una comparazione con altri ordinamenti, v. H. Foyer De Costil et al).

L’intervento officioso deve comunque essere il più possibile contenuto, consistendo nella semplice rappresentazione alle parti della potenziale rilevanza della norma di conflitto. Segnalata la circostanza, il principio dispositivo tornerà ad espandersi, cosicché spetterà alle parti allegare e provare i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa dedotta in giudizio, come valorizzati dal diritto richiamato dalla norma di conflitto.

Il tema dell’onere probatorio rileva anche con riguardo al secondo profilo dell’indagine qui proposta, relativo alla ricerca degli elementi di prova concernenti i fatti che innescano la norma di conflitto (i criteri di collegamento). Si tratta, in sostanza, di comprendere se il giudice sia tenuto o meno a ricercare d’ufficio tali elementi. La questione, come si vedrà, è particolarmente delicata nell’ipotesi in cui i fatti in questione siano rilevanti anche ai fini delle decisione relativa al merito. Si consideri, ad esempio, l’accertamento del locus commissi delicti ai fini della individuazione della legge applicabile a una obbligazione extracontrattuale secondo l’art. 4, par. 1, del regolamento (CE) n. 864/2007. Le prove che localizzano l’evento lesivo, in questa situazione, sono con molta probabilità le stesse atte a dimostrare che l’evento si è verificato, e con quali modalità, provando così un fatto costitutivo della pretesa dedotta in giudizio.

Le questioni ora emerse richiedono un’analisi per gradi. In generale, il principio iura novit curia, di per sé, non impone al giudice di provare d’ufficio i fatti che fondano l’applicazione di una qualunque norma che pure rivesta, nel senso indicato, una natura imperativa. Può infatti bastare che il giudice applichi la norma una volta che le parti ne hanno rappresentato tutti i presupposti fattuali. Tale assunto, tuttavia, non è immediatamente trasponibile nella disciplina dei conflitti di leggi. Le norme di conflitto, infatti, specie se appartenenti a un ordinamento sovranazionale, coordinano e ripartiscono la potestà normativa degli ordinamenti nazionali nel disciplinare i rapporti di diritto privato. Trascurare l’imperatività della norma di conflitto, dunque, significa pregiudicare l’applicazione di quella legge nazionale che ha vocazione a disciplinare una data fattispecie transnazionale. In caso di inerzia delle parti nel provare i fatti rilevanti per la norma di conflitto, è quindi più ragionevole concludere che il giudice possa in effetti dare rilievo ad elementi probatori acquisiti allo stato degli atti, se del caso integrandoli tramite un’istruzione officiosa sommaria: soluzione, questa, adottata dalla giurisprudenza francese, come riporta Corneloup 2014, p. 368, che evidenzia che il giudice è chiamato ad utilizzare a tal fine «tous les éléments qu’il peut trouver dans le dossier, ce qui comprend l’acte d’assignation, les conclusions des parties et tous les éléments de preuve présentés». Una decisione allo stato degli atti, del resto, è già prevista dal codice di rito con riguardo ad un’altra tipologia di questione preliminare sollevabile d’ufficio, ossia l’accertamento della competenza del giudice a norma dell’art. 38, comma 4° c.p.c.

Più complessa è la situazione in cui, prospettata in giudizio l’applicabilità di una norma di conflitto, occorra provare una circostanza che funga da criterio di collegamento della norma di conflitto medesima e – al tempo stesso – rilevi nel merito del giudizio. Il rischio, in questo caso, risiede nel fatto che l’accertamento d’ufficio di tale circostanza alteri in qualche modo il riparto dell’onere della prova: profilo che la disciplina dei conflitti di leggi dell’Unione europea rimette alla lex causae, come risulta, in particolare, dall’art. 18 del regolamento (CE) n. 593/2008, e dall’art. 22 del regolamento (CE) n. 864/2007. La soluzione passa per il c.d. principio di acquisizione. Questo postula che, una volta introdotto nel processo un elemento di prova, anche su sollecitazione officiosa, tale elemento può essere liberamente utilizzato per fondare qualunque domanda od eccezione, prescindendo da chi abbia originariamente introdotto la prova (in argomento v. per tutti S. Patti, La disponibilità delle prove, in Aa.Vv., p. 80). Per la giurisprudenza di legittimità, il principio si inquadra nel principio del giusto processo, consacrato all’art. 111 Cost., e, a livello di fonte primaria, sull’art. 245, comma 2°, c.p.c., che sancisce l’inefficacia della rinuncia all’audizione del testimone laddove le parti e il giudice non vi acconsentano (in questi termini Cass. 21 settembre 2013, n. 21909). Per la dottrina, «una volta che la prova sia entrata nel processo […] il giudice può prescindere dal fatto che vi sia entrata per iniziativa della parte onerata, oppure dell’altra parte, o, nei casi in cui ciò è possibile, per iniziativa dello stesso giudice, purché però i fatti oggetto di prova siano stati allegati dalla parte che fruisce della prova»: così Carratta et al, p. 197 s. (corsivo nostro). In questo senso, è ammissibile che il giudice, per accertare i fatti rilevanti ai fini della norma di conflitto, introduca nel processo le prove idonee a fondare (o confutare) nel merito anche la domanda avanzata in giudizio. Tale potere dovrà comunque essere preceduto dall’impiego del già ricordato strumento di “ripristino” del contraddittorio di cui all’art. 101, comma 2°, c.p.c. Solo a seguito dell’inerzia delle parti invitate a dedurre sul punto, il giudice potrà procedere all’accertamento officioso dei fatti innescanti la norma di conflitto.

La giurisprudenza di legittimità non ha avuto modo di esaminare di recente, in tutti i suoi aspetti, il tema della natura imperativa della norma di conflitto. Una pronuncia della Suprema Corte del 2014, tuttavia, segnala che una certa sensibilità nei confronti del problema è presente. Prima di dar conto di tale pronuncia è bene segnalare che, in passato, la giurisprudenza onerava la parte interessata all’applicazione del diritto straniero di allegare e di provare gli elementi di fatto costituenti il criterio di collegamento della pertinente norma di conflitto. A questo filone giurisprudenziale appartiene Cass. 5 giugno 2009, n. 13087, secondo cui «i presupposti di applicabilità di una determinata legge straniera dipendono pur sempre dalla sussistenza di criteri di collegamento fondati su elementi di fatto, che devono essere ritualmente acquisiti alla causa». La Corte, nell’occasione, ha così configurato l’identificazione del diritto applicabile come «una questione la cui soluzione dipende da accertamenti di fatto che [devono] essere richiesti al giudice del merito e nel rispetto del principio del contraddittorio». Secondo la stessa logica, Cass. 30 ottobre 2008, n. 26063, aveva imposto allo straniero che invocava in giudizio l’applicazione della legge italiana di allegare e dimostrare, ai sensi dell’art. 16 disp. prel. c.c., che la rispettiva lex patriae garantisse al cittadino italiano il medesimo diritto che lo straniero deduceva dinanzi al giudice italiano (la c.d. “condizione di reciprocità”).

La Corte di cassazione, come si diceva, sembra aver poi mutato posizione. In particolare, con la sentenza 6 novembre 2014, n. 27547, la Corte, in un obiter dictum, ha precisato che «la rilevabilità di ufficio della legge applicabile presuppone che il caso dedotto in giudizio presenti oggettivamente un qualche collegamento con un ordinamento diverso da quello italiano», mentre qualora «la fattispecie sia interamente soggetta al diritto italiano e l’applicazione dell’ordinamento straniero sia frutto solo di una libera scelta delle parti, contenuta in una specifica clausola contrattuale […] la questione della legge applicabile diviene oggetto di un’eccezione soggetta ai medesimi principi che valgono con riguardo ad ogni altra clausola pattizia, i cui effetti debbono essere dedotti e allegati dalla parte che vi abbia interesse, non potendo il giudice far valere d’ufficio e di sua iniziativa i dettagli di accordi stipulati dalle parti nel loro privato interesse, qualora le parti medesime non dimostrino il loro concreto e attuale interesse ad avvalersene». Il ragionamento della Corte permette di inferire a contrario che, ove l’applicazione del diritto straniero non sia dettata da una clausola di scelta della legge, e sia quindi imposta da una norma di conflitto che impiega un criterio di collegamento diverso dalla mera volontà delle parti, la potenziale rilevanza di tale norma può e deve essere rilevata d’ufficio. Volendo completare il ragionamento della Corte con la sua stessa terminologia, sarà compito del giudice attivare i propri strumenti officiosi e, per mezzo di essi, accertare quel “collegamento con un ordinamento diverso da quello italiano” che “oggettivamente” qualifica la controversia come transnazionale.

La posizione della Corte è comprensibile sul piano pratico: non ci si può attendere che il giudice intervenga d’ufficio per accertare la transnazionalità di un rapporto giuridico quando gli elementi di estraneità dello stesso non siano manifesti. Dietro questa esigenza pragmatica, tuttavia, riaffiora anche il principio dispositivo, qui declinato come onere per la parte interessata di allegare l’esistenza del pactum de lege utenda e di invocarne l’operatività. In questo senso, allora, questo orientamento mostra alcune comunanze con la posizione che la Cour de cassation francese ha assunto sul tema a partire dall’arrêt Coveco del 4 dicembre 1990 (in Journ. dr. int., 1991, p. 372 ss., con nota di Bureau) e ancor più dopo l’arrêt Mutuelle du Mans del 26 maggio 1999 (in Rev. crit. dr. int. privé, 1999, p. 707 ss., con nota di Muir Watt). Non è questa la sede per ripercorrere le tappe di questo percorso (per cui si rinvia piuttosto ad Ancel, L’invocation d’un droit étranger et le contrôle de la Cour de cassation, in Aa. Vv.). È sufficiente qui registrare come la Cour de cassation, sulla base dell’orientamento da ultimo assunto, applichi d’ufficio la norma di conflitto nei soli casi in cui la controversia inerisca a diritti indisponibili: orientamento recentemente confermato con la pronuncia 24 maggio 2018 (in Rev. crit. dr. int. privé, con nota di Corneloup, À l’horizon des droits indisponibles, rien de nouveau. Et pourtant …).

La soluzione francese, al di là delle difficoltà che circondano la verifica della “disponibilità” del diritto in contesa (occorrendo stabilire in base a che norma tale verifica vada condotta), rischia di pregiudicare – quando si tratti di norme di conflitto dell’UE – l’obiettivo dell’uniformità di soluzioni sopra evocato, in quanto non assicura l’applicazione della norma di conflitto nei casi in cui l’oggetto del contendere attenga ad un diritto disponibile (v. su tali profili Corneloup 2014, cit., p. 372 s.). Tale modello, inoltre, mina il principio di parità di trattamento della legge del foro rispetto al diritto straniero, poiché, nell’ipotesi in cui il diritto sia disponibile, l’inerzia delle parti conduce alla diretta applicazione della legge del foro.

L’applicazione officiosa della norma di conflitto rimane tutt’oggi un problema aperto. Dalle considerazioni che precedono, tuttavia, emergono chiaramente le ragioni per cui la soluzione francese mal si adatti alla natura imperativa della norma di conflitto, specialmente se scaturente dall’ordinamento dell’UE. Non è dunque auspicabile che la Corte di legittimità italiana si muova nel solco tracciato dalla giurisprudenza francese. Sarà invece più opportuno confinare le ipotesi di applicazione “eventuale” della norma di conflitto ai soli casi in cui il giudice versi nell’obiettiva impossibilità di apprezzare immediatamente ed autonomamente l’elemento di estraneità della fattispecie.

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