diritto internazionale pubblico

Sul riconoscimento di governo nella crisi venezuelana: la trasformazione alchemica è completa?

Grande il doppio della Francia e con riserve petrolifere superiori a quelle dell’Arabia Saudita, il Venezuela è oggetto da almeno un decennio di un processo di disgregazione sociale e di indebolimento istituzionale che colpisce per l’inesorabile lentezza e per l’apparente assenza di soluzioni. Per molti aspetti, la vicenda di questo – un tempo ricco – Paese di 32 milioni di abitanti integra perfettamente alcune delle acquisizioni teoriche della ormai abusata teoria della maledizione delle risorse. Un sistema economico indebolito dalla scarsa diversificazione e dalla progressiva perdita di rilevanza del settore manifatturiero, si espone agli shock derivanti dal cambiamento del prezzo della materia prima di riferimento. Il sistema politico si avvita allo stesso tempo verso forme di autocrazia che derivano anche dall’esposizione alle ingerenze esterne e dal rischio endemico del colpo di Stato. Le autorità di governo si proteggono dal rischio politico e « fisico » ipotecando la ricchezza del Paese, garantendosi la fedeltà di un esercito ricco di colonelli e generali e creando milizie paramilitari. Contestualmente, l’equilibrio dei poteri tra le istituzioni va in frantumi e la catena della legittimazione politica che dovrebbe legare governanti e governati s’indebolisce sempre più fino alla repressione del dissenso e ai tentativi di svolta autoritaria.

Sul piano geopolitico, la crisi venezuelana suscita un forte senso di déjà vu, pur evidenziando anche alcuni elementi di originalità. Quanto al déjà vu, basti pensare che ancora una volta nel continente americano un governo che si dichiara socialista denuncia i tentativi di colpo di Stato e l’aggressione economica dei Paesi capitalisti. Questi ultimi descrivono, invece, la situazione come una crisi umanitaria e ricollegano la crisi dell’economia del Paese alla stoltezza delle decisioni politiche di una leadership corrotta e delegittimata. Quanto agli elementi di originalità, spicca il coinvolgimento della Federazione russa e della Cina nella crisi politica di un Paese latinoamericano. La nazionalizzazione delle concessioni petrolifere, la politica dei prezzi bloccati e le sanzioni economiche hanno portato infatti il Venezuela a gravitare sempre più nell’orbita della Federazione russa e della Cina, che vantano ingenti crediti nei confronti del Governo di Nicolás Maduro.

Storicamente è peraltro importante ricordare che il Venezuela è il Paese dove l’intervento negli affari interni ha trovato controverse applicazioni pratiche. Come è stato già sottolineato, all’inizio del ‘900 la politica delle cannoniere delle potenze europee, tra cui l’Italia, rivolta proprio contro il Venezuela, creò le condizioni per la trasformazione della dottrina Monroe, attraverso il corollario Roosevelt, da manifesto anti-colonialista a rivendicazione della sfera di influenza statunitense sul continente americano. Istituti del diritto internazionale come la dottrina Drago, secondo cui la sospensione dei pagamenti del debito pubblico non poteva giustificare l’intervento armato dei Paesi creditori, trovano quindi nelle vicende storiche del Venezuela una parte determinante del proprio substrato sociale. È inoltre interessante notare come, nel secondo dopoguerra, il Venezuela si sia fatto portatore di una politica estera orientata al rispetto della democrazia. Già a partire dal 1949, il Presidente Betancourt, attraverso una dottrina che ispirerà l’adozione della Carta democratica interamericana del 2001, sosteneva che dovesse essere negato collettivamente il riconoscimento ai governi nati da un atto di forza in Paesi dove fosse presente un regime nato da consultazione elettorale. Con parole che sembrano oggi premonitrici, nel 1959, egli affermava anche che “un cordone sanitario” di non riconoscimento dovesse essere creato attorno ai Paesi che non rispettavano i diritti dei propri cittadini adottando politiche totalitarie.

Dal 1959, in effetti, il Venezuela fu considerato per almeno un trentennio come uno dei paesi più stabili dell’America latina in quanto governato ininterrottamente da presidenti eletti. La storia più recente del Paese evidenzia però almeno due tentativi di colpo di Stato falliti. Il primo, condotto da Hugo Chávez nel 1992, si era concluso con l’arresto e la detenzione del golpista che era stato poi amnistiato. Il secondo, ai danni dello stesso Chávez, nel 2002, si era concluso con un tentativo di svolta autoritaria da parte del nuovo Presidente, mentre la reazione dei sostenitori del precedente governo nel Paese spingeva i militari golpisti alla marcia indietro. In quest’ultimo caso, un’ampia maggioranza dei paesi latino americani aveva chiarito di non essere disposta a riconoscere il nuovo governo, mentre Spagna e Stati Uniti si erano astenuti dal condannare il colpo di Stato in attesa di comprendere come si sarebbero stabilizzati gli eventi. Il Presidente Chávez aveva peraltro accusato apertamente l’amministrazione Bush di avere appoggiato il colpo di Stato e di avere finanziato l’opposizione.

Nel 2013, alla sua morte, Hugo Chávez lasciava un Venezuela dove le forti disuguaglianze che storicamente caratterizzavano il Paese erano diminuite grazie all’investimento dei proventi del petrolio in programmi sociali. La situazione economica era però allo stesso tempo oggetto di fiammate inflazionistiche in un contesto in cui un’importante “fuga dei cervelli” e l’emigrazione della classe media erano solo in parte compensate dall’afflusso di lavoratori non qualificati attratti dal welfare venezuelano. Dopo una prima vittoria – risicata nei numeri e contestata dalle opposizioni – alle elezioni presidenziali suppletive del 2013, il delfino designato del Presidente Chávez, Nicolás Maduro, dovette fronteggiare una sconfitta alle elezioni politiche del 2015 per l’Assemblea parlamentare. La crisi economica dovuta al calo delle quotazioni del greggio e alla produzione stagnante colpiva intanto il Paese, provocando disordini che venivano repressi in modo sempre più brutale. Già nel 2014 gli scontri tra manifestanti di opposte fazioni con il coinvolgimento delle forze governative avevano portato alla morte di più di quaranta persone. La cifra delle vittime salì a 130 assieme a centinaia di feriti nel 2017. Precedentemente, nel 2016, il tentativo delle opposizioni di convocare un referendum confermativo della presidenza attraverso una petizione che raggiunse 1.900.000 firme era stato insabbiato dalla Consiglio elettorale nazionale. Nel 2017 Maduro convocò per decreto elezioni per la riforma della costituzione, sostituendo e di fatto esautorando l’Assemblea parlamentare con una nuova Assemblea costituzionale. Nel 2018 il presidente uscente ottenne la riconferma in un clima politico incandescente: le elezioni presidenziali, con un’affluenza del 46%, furono boicottate da un’ampia parte dei partiti di opposizione che denunciava il controllo del governo sui media pubblici, sull’Assemblea costituzionale, sul sistema giudiziario e sul Consiglio nazionale elettorale. Contestualmente, Maduro denunciava i tentativi dell’opposizione venezuelana, degli Stati Uniti e della Colombia di ucciderlo. Maduro sarebbe stato in effetti oggetto di un misterioso attentato con due droni commerciali nel mese di agosto 2019 e aveva già denunciato l’esistenza di un piano per ucciderlo nel 2014. Nel frattempo, l’aggravarsi della crisi economica si traduceva in una penuria di beni di prima necessità e l’emigrazione assumeva dimensioni importanti. Secondo l’UNHCR, nel periodo 2014-2018, i richiedenti asilo provenienti dal Venezuela erano 414.570, mentre il totale dei venezuelani che avevano ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato a fine 2018 era di 1.373.347. A fine febbraio 2019, invece, la stima totale di rifugiati e migranti era di quasi tre milioni e mezzo.

Tra i tentativi di mediazione internazionale si segnalano un primo tentativo del Vaticano nel 2016 e un secondo tentativo sempre del Vaticano nel mese di febbraio 2019, su cui sembrava all’inizio convergere il consenso di entrambe le parti, con una successiva manifestazione di indisponibilità da parte del Presidente dell’Assemblea Parlamentare Guaidó che condizionava l’inizio della trattativa all’uscita di scena di Maduro. Nel 2019 un altro tentativo di mediazione da parte del gruppo di contatto convocato dall’Unione europea si esauriva per i dissensi interni al gruppo stesso e in particolare per il rifiuto da parte di alcuni membri di appoggiare la richiesta di nuove elezioni. Un successivo tentativo di Uruguay, Messico e Bolivia, senza alcuna precondizione, veniva nuovamente rifiutato da Guaidó.

Una questione di particolare importanza nella crisi venezuelana riguarda l’adozione di sanzioni nei confronti del governo Maduro. Come è noto, il Consiglio di sicurezza non ha potuto adottare alcuna risoluzione relativa alla situazione in Venezuela a causa della forte diversità di vedute tra i membri permanenti. La questione venezuelana è stata discussa per tre volte in dibattiti al Consiglio di sicurezza, ma senza l’assunzione di alcuna decisione. Ciononostante, un ampio numero di Paesi ha adottato unilateralmente sanzioni nei confronti del governo venezuelano di Maduro già nel periodo antecedente alla crisi politica del 2019. A partire dalla decisione dell’amministrazione Obama nel 2015 di adottare sanzioni contro i responsabili dell’indebolimento dei processi e delle istituzioni democratiche, le misure adottate assunsero in una prima fase principalmente la forma delle sanzioni mirate nei confronti di individui membri del governo o dei servizi di sicurezza venezuelani. Una svolta importante si verificò però già a partire dal 2017 quando l’amministrazione Trump adottò sanzioni più generali con un ampio effetto sull’economia venezuelana. Tali sanzioni comprendono misure volte a impedire al governo venezuelano e all’impresa petrolifera nazionale PdVSA di avere accesso al sistema finanziario statunitense, a impedire acquisti negli Stati Uniti del Petro, la nuova criptovaluta venezuelana, a impedire le transazioni aventi per oggetto oro proveniente dal Venezuela, a impedire che i profitti generati dalla vendita del petrolio negli Stati Uniti entrino nella disponibilità del governo Maduro. Talvolta, le sanzioni hanno un chiaro effetto nei confronti di Paesi terzi, come in occasione della decisione di inserire nelle liste due società, rispettivamente liberiana e greca, che avevano operato nel trasporto di petrolio dal Venezuela a Cuba.

All’inizio del 2019, la legittimità del nuovo mandato presidenziale di Maduro non fu riconosciuta dalle forze di opposizione e venne apertamente contestata a livello internazionale. Il 23 gennaio 2019, circa due settimane dopo la proclamazione del Presidente Maduro, il Presidente dell’Assemblea Guaidó proclamava di assumere la presidenza ad interim del Paese, invocando gli articoli 233, 333 e 350 della Costituzione venezuelana, in vista della convocazione di nuove elezioni. Secondo l’articolo 233, in particolare, in caso di “assenza assoluta” del Presidente della Repubblica prima dell’assunzione dell’incarico, l’incarico stesso sarà assunto dal Presidente dell’Assemblea parlamentare al fine di portare il Paese a nuove elezioni nei trenta giorni successivi. L’articolo elenca precisamente i casi in cui un’assenza assoluta del Presidente si verifica: la morte, la rinuncia, la destituzione decretata dal Tribunale supremo di giustizia, l’incapacità mentale certificata e non sembra in franchezza applicabile alla situazione attuale. Più credibile sembra invece l’invocazione degli articoli 333 e 350 che contemplano un diritto alla disobbedienza civile e alla resistenza a fronte di svolte autoritarie al di fuori del perimetro della Costituzione.

Sia come sia, l’assunzione della presidenza ad interim da parte di Guaidó venne immediatamente sostenuta dagli Stati Uniti e da quasi tutti i Paesi del Gruppo di Lima ad esclusione di Messico ed Uruguay (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Guatemala, Honduras, Panama, Paraguay, Perù). Più cauta fu invece la posizione dell’Unione europea che espresse in primo luogo la richiesta che in Venezuela fossero convocate in tempi rapidi nuove elezioni. La richiesta divenne poi un vero e proprio ultimatum rivolto però soltanto da alcuni Stati europei al Governo Maduro: in assenza della convocazione di nuove elezioni entro 8 giorni la Francia, il Regno Unito, la Spagna, la Germania e altri 15 Paesi europei avrebbero riconosciuto Juan Guaidó come Presidente ad interim. Cosa che in effetti avvenne. La posizione italiana esprimeva invece la richiesta di nuove elezioni e il sostegno per l’Assemblea parlamentare senza spingersi fino a riconoscere Guaidó come Presidente ad interim. Tra i Paesi europei che non decisero di procedere al riconoscimento della Presidenza ad interim di Guaidó si contano anche la Grecia, la Slovacchia, Cipro e la Norvegia (tra i Paesi EFTA). Cina, Russia, Turchia, Sudafrica, Bolivia, Cuba, e altri Stati caraibici espressero invece il proprio sostegno per il Governo di Maduro. In un quadro così diversificato, i resoconti giornalistici offrono una conta da pallottoliere della posizione degli Stati affermando che i Paesi che “riconoscono” Guaidó e l’Assemblea parlamentare sarebbero più di 50, i Paesi che sostengono il Governo Maduro tra 15 e 20, mentre una decina di Paesi avrebbero espresso una posizione a cavallo tra l’aperta neutralità, l’invocazione di nuove elezioni o il mero appoggio all’Assemblea parlamentare.

A fronte di queste contrapposte dichiarazioni statali, i primi commenti dottrinali si sono però giustamente soffermati sul contenuto delle dichiarazioni stesse offrendone un’analisi testuale dettagliata (à la Talmon), nel tentativo di definirne la portata. Dall’analisi delle dichiarazioni e della prassi successiva emerge tra i Paesi che supportano Guaidó una frattura piuttosto netta. Mentre le dichiarazioni di riconoscimento di alcuni Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, il Canada e il Paraguay, sono molto chiare nel definire Guaidó il Presidente ad interim del Venezuela, la posizione di altri Paesi si sofferma piuttosto sulla legittimità del Presidente Guaidó o dell’Assemblea parlamentare implicando la possibilità che continui a sussistere anche il riconoscimento di un’autorità legale (ma non legittima), il governo di Maduro. È il caso, ad esempio, della dichiarazione resa dalla Spagna tra i Paesi europei. Non tutte le dichiarazioni di sostegno a Guaidó o all’Assemblea parlamentare possono quindi essere equiparate ad un atto di riconoscimento di governo. In alcuni casi, in linea con quanto già evidenziato dalla prassi relativa alla Libia e alla Siria, le dichiarazioni di sostegno devono essere considerate semplicemente come un atto politico di sostegno ai partiti di opposizione. Decisivo sembra essere da questo punto di vista il fatto che in un certo numero di casi (Spagna, Francia, Cile, Germania) il “riconoscimento” di Guaidó non abbia portato ad un’interruzione dei rapporti diplomatici con il Governo Maduro e che non sia stato riconosciuto lo status diplomatico ai rappresentanti di Guaidó nel Paese. Altri Paesi, invece, come gli Stati Uniti e il Paraguay intrattengono le proprie relazioni diplomatiche con il Venezuela interagendo soltanto con i rappresentanti del Presidente ad interim Guaidó. Degno di nota è inoltre il fatto che le dichiarazioni di sostegno da parte dei Paesi europei sembrano in ogni caso assumere i contorni di un riconoscimento condizionato in cui la celebrazione di nuove elezioni diventa l’elemento cruciale della dichiarazione stessa. In altre parole, più che l’identità del Presidente, nelle dichiarazioni dei Paesi europei, sembra contare il fatto che il Paese venga condotto a nuove elezioni in tempi rapidi. Secondo questo approccio la posizione del Presidente ad interim sembra essere equiparata a quella di un “commissario ad acta” e resta tutto da verificare il contenuto dei poteri di governo che i terzi sarebbero disposti a riconoscere.

La portata delle dichiarazioni rese dagli Stati terzi in seguito all’autoproclamazione di Guaidó può quindi assumere maggiore chiarezza solo alla luce della prassi successiva. Dopo la propria autoproclamazione, Guaidó, nonostante non controlli assolutamente il territorio venezuelano, ha interpretato i suoi poteri in modo molto ampio e per nulla condizionato alle attività connesse all’indizione di nuove elezioni. Egli ha nominato nuovi rappresentanti diplomatici presso le organizzazioni internazionali riuscendo in alcuni casi (IADB, OAS) a sostituire i rappresentanti nominati dal governo Maduro; ha autorizzato l’ingresso (mai avvenuto nei fatti) di aiuti umanitari nel territorio venezuelano; ha invitato i Paesi terzi a congelare i beni e le attività economiche rendendoli indisponibili al governo Maduro; ha affermato, infine, di non escludere l’eventualità di invitare Paesi terzi a usare la forza sul territorio venezuelano. Effetti economici significativi per il Governo Maduro sono quindi derivati non solo da alcune delle sanzioni unilaterali descritte in precedenza, ma direttamente dal riconoscimento della presidenza ad interim di Guaidó negli ordinamenti interni. Degni di nota da questo punto di vista sono episodi come la sostituzione, negli Stati Uniti, dei membri del Consiglio di Amministrazione della controllata CITGO della compagnia petrolifera statale PdVSA con individui indicati da Guaidó o la decisione della Banca di Inghilterra, avanzando dubbi sull’autorizzazione alla transazione della controparte, di non permettere al Governo Maduro di rimpatriare l’equivalente in oro di 1,2 miliardi di dollari.

Quanto alla delicata questione dell’uso della forza armata nella crisi venezuelana, è interessante notare che esiste un ampio consenso, anche tra i Paesi che sostengono Guaidó, sull’opportunità di non ricorrere a mezzi coercitivi. Non è dato comprendere se la ritrosia ad ammettere il ricorso alla forza derivi dalla persuasione di illiceità di un intervento armato contro un governo costituito o sia piuttosto il portato della complessità operativa di un tale intervento e dei problemi geopolitici che lo stesso genererebbe. Resta il fatto che tra i Paesi che sostengono Guaidó soltanto gli Stati Uniti (in modo esplicito e ripetuto) ammettono il ricorso alla forza armata. È al riguardo anche degno di nota il fatto che la stessa Federazione russa, che sostiene il Governo Maduro – e potrebbe quindi fare ricorso alla dottrina dell’intervento su invito da parte del Governo costituito – si è affrettata a chiarire che i propri consiglieri militari presenti sul territorio sono in Venezuela in forza di accordi di cooperazione militare pregressi. In occasione dell’insurrezione organizzata da Guaidó e sostenuta da alcuni settori delle forze armate il 30 aprile, dichiarazioni di supporto all’opposizione venezuelana sono state rese dai Paesi del Gruppo di Lima e dagli Stati Uniti, ma solo questi ultimi hanno ribadito di ammettere anche l’opzione dell’intervento armato esterno. Il Gruppo di Lima si è limitato a invitare i militari venezuelani a prendere le parti di Guaidó e anche l’Unione europea, che pure aveva in larga parte dei suoi Stati membri sostenuto esplicitamente Guaidó, ha espresso la sua contrarietà ad ogni soluzione che implichi il ricorso alla violenza e ha reiterato la propria richiesta di elezioni libere e democratiche. La Federazione russa ha definito l’interferenza degli Stati Uniti negli affari interni del Venezuela come una delle più “grossolane” violazioni del diritto internazionale e ha avvertito che la continuazione di “passi aggressivi” avrebbe avuto “le conseguenze più drastiche”. Gli Stati Uniti evocano invece esplicitamente un deterioramento delle relazioni bilaterali con la Federazione russa, senza addurre argomenti giuridici a sostegno della loro richiesta di cessare ogni influenza nella crisi venezuelana.

Dopo questa descrizione dei fatti e della posizione degli Stati terzi, quali sono dunque gli insegnamenti che possiamo trarre dal caso venezuelano in relazione alle questioni chiave del riconoscimento di governo e dell’intervento negli affari interni?

Procedendo con ordine e partendo dalle osservazioni più banali, si può affermare in primo luogo che trova conferma negli eventi recenti la rinnovata importanza del riconoscimento di governo nella prassi internazionale, riconoscimento che aveva invece attraversato una fase recessiva sul finire del secolo scorso. Le cause devono essere probabilmente ricercate nell’ampia ridefinizione degli equilibri globali e regionali, con la riproposizione della politica delle sfere di influenza e con attori esterni pronti a un nuovo interventismo negli affari interni. Dal punto di vista giuridico la ripresa della pratica del riconoscimento di governo però dimostra a mio avviso una cosa già molto nota: nelle guerre civili e nelle crisi costituzionali in genere è ancora importante la distinzione tra governo e insorti o tra governo e opposizione. I poteri del governo, evidentemente, sono diversi e un intervento dei terzi a favore del governo è condonabile. La questione del rispetto del principio di non intervento negli affari interni scarica quindi tutto il suo peso sul tema preliminare del riconoscimento di governo.

In secondo luogo, gli eventi in corso in Venezuela ci permettono di osservare che le dichiarazioni di “riconoscimento” sono molto varie e che a volte è difficile distinguere tra casi di “vero” riconoscimento di governo e mere dichiarazioni di sostegno politico verso i partiti di opposizione. In questo senso, diventa cruciale l’osservazione della prassi successiva per capire la portata della dichiarazione. Saranno il più delle volte i comportamenti concreti successivi a chiarire la posizione dello Stato terzo nei rapporti bilaterali con gli attori della crisi. C’è peraltro da chiedersi sotto questo profilo se l’atto di riconoscimento, anche quando prematuro, possa di per sé costituire una violazione del diritto internazionale. La tendenza degli Stati ad analizzare sempre più apertamente e continuativamente questioni di legittimità interna riguardanti i governi di altri Paesi potrebbe far pensare che forme di interferenza minori, come il sostegno verbale all’opposizione o forse anche il riconoscimento dell’opposizione come governo, non costituiscano di per sé una violazione del principio di non intervento. Questa posizione si ricollega alla tesi secondo cui gli interventi vietati dal diritto internazionale devono essere di tipo “dittatoriale” nel senso di essere volti a impedire l’esercizio di prerogative sovrane da parte dello Stato verso cui l’intervento si rivolge. Seguendo questa tesi, la violazione del principio di non intervento deriverebbe non tanto dall’atto verbale del riconoscimento di governo, ma dagli atti materiali ad esso successivi e su di esso fondati come il sostegno economico e l’avvio di relazioni diplomatiche. È necessario in ogni caso approfondire questa posizione con molta cautela perché esistono Paesi, come la Federazione russa, la Cina e la Siria, che continuano ad affermare che il riconoscimento prematuro è interferenza vietata.

In terzo luogo, è evidente, anche nella crisi venezuelana, l’emersione di un criterio di legittimità che si affianca al criterio del controllo effettivo del territorio nel guidare le decisioni degli Stati in relazione al riconoscimento di governo o al sostegno alle forze di opposizione. In realtà anche questo dato non è nuovo: è stato notato da tempo che nella prassi le decisioni dei governi dei paesi terzi sono guidate da due parametri diversi come, da un lato, il tradizionale riferimento all’effettività del controllo sul territorio da parte del governo e, dall’altro, le sopra citate considerazioni di legittimità riconducibili al rispetto dell’ordinamento costituzionale e ai diritti umani. Esistono però importanti differenze tra questi due criteri guida: mentre l’effettività del controllo territoriale individua, almeno prima facie, un parametro di tipo oggettivo, il rispetto dell’ordinamento costituzionale e dei diritti umani impone agli osservatori esterni di addentrarsi in complesse valutazioni di tipo fattuale e giuridico. È difficile, oltreché potenzialmente arbitrario, per uno Stato terzo prendere posizione sull’attuazione dell’ordinamento costituzionale di un altro Paese.

Il problema è che, come il caso del Venezuela dimostra, non si può confinare il riconoscimento alla sfera del politico senza essere consapevoli del fatto che da quest’ultimo discendono evidenti conseguenze nell’applicazione delle regole del diritto internazionale che disciplinano il comportamento dei terzi rispetto agli affari interni dello Stato. Se si accetta, infatti, l’opinione prevalente secondo cui esisterebbe una presunzione di conformità al diritto internazionale quando l’attività dei terzi avvenga in forza di un’autorizzazione da parte del governo in carica, il riconoscimento di governo diventa determinante non tanto di per sé, ma per i suoi impatti sul divieto dell’uso della forza, sul principio di non intervento negli affari interni e financo sul principio di autodeterminazione. L’assenza di una regola chiara sui presupposti del riconoscimento e il continuo intersecarsi del criterio di legittimità e di quello di effettività mostrano tutta la loro problematicità soprattutto quando la distanza tra i due criteri è massima. Schematizzando, nel caso del Venezuela, ci troviamo di fronte ad una competizione tra un ente che controlla il territorio, ma è scarsamente legittimato e un altro ente che sembra godere di maggiore legittimità a livello internazionale, ma non controlla il territorio. In queste condizioni può verificarsi una forte spinta degli Stati terzi a riconoscere la parte che vanta una pretesa legittima all’assunzione del governo, ma l’assenza di controllo del territorio impedisce comunque l’esercizio di una parte determinante delle prerogative governative. L’analisi della prassi non permette però di riconoscere con certezza nella sola invocazione di ragioni di legittimità, a fronte dell’assenza di controllo territoriale, un criterio sufficiente per smettere di riconoscere il governo in carica a favore dell’opposizione. A ben vedere esistono dei casi in cui ragioni di legittimità hanno portato la comunità internazionale alla decisione di intervenire militarmente per reagire a un colpo di Stato anche a fronte di un controllo territoriale debole o addirittura assente, ma tutti i “precedenti” presentano almeno due profili di diversità rispetto alla situazione attuale del Presidente dell’Assemblea parlamentare Guaidó. ll riferimento è ovviamente a casi di intervento internazionale come ad Haiti nel 1994, in Sierra Leone nel 1998, in Costa d’Avorio nel 2011 e, recentemente, in Gambia nel 2017. In questi “precedenti” si trattava sempre di un Presidente eletto ed esisteva un forte consenso sull’identità del governo legittimo a livello regionale (organizzazione regionale di riferimento) e/o globale (Consiglio di sicurezza). Il Presidente dell’Assemblea parlamentare Guaidó, invece, non è stato eletto Presidente del Venezuela e la sua posizione non è sorretta, allo stato attuale, da un sostegno unanime (o quasi) da parte della comunità internazionale.

Non può essere quindi questo riconoscimento di governo, come pietra filosofale, a trasformare un’ampia serie di atti di intervento negli affari interni in attività lecite di sostegno a un governo. Il diritto internazionale non è ancora ridotto ad alchimia o, forse, nel processo alchemico di trasmutazione di un’opposizione in nuovo governo mancano ancora alcuni passaggi fondamentali. Per dirla proprio prendendo a prestito i termini dell’arte alchemica, in Venezuela la materia si sta putrefacendo (nigredo), ma non si è ancora purificata (albedo), né si è ricomposta in nuova forma (rubedo). Ciò che è nascosto non è ancora del tutto manifesto.

 

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Marco Pertile

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