diritto internazionale pubblico

Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari

Marco Pelissero, Università degli Studi di Torino

L’affermazione delle garanzie individuali nel sistema penale è sempre l’effetto di un processo che si sviluppa per gradi, complice la diversa sensibilità nella interpretazione delle norme di fonte legislativa, il loro contestualizzarsi rispetto ai mutamenti sociali e culturali, la valorizzazione delle garanzie costituzionali e sovranazionali, il diverso apprezzamento nel contemperamento degli interessi in campo. Il sistema sanzionatorio penale costituisce un osservatorio privilegiato per apprezzare questo processo di sviluppo: è sufficiente mettere a confronto le posizioni assunte dalla Corte costituzionale all’inizio del suo operare e quelle assunte di recente sulla disciplina delle pene per comprendere quanto profonda sia la distanza nella sensibilità culturale e giuridica che è alla base delle pronunce (si pensi, tanto per richiamare due pronunce citate dalla Corte EDU nella sentenza qui oggetto di riflessione, alle sent. n. 12/1966 e 149/2018). Ci sono, però, anche momenti che, pur preparati dalla evoluzione pregressa nella interpretazione delle norme, costituiscono momenti di cesura, capaci di segnare svolte importanti nelle scelte di politica sanzionatoria. A questi momenti appartiene la sentenza della Corte europea nel caso Viola c. Italia del 13 giugno scorso, nella quale i giudici della I Sezione dichiarano che sussiste la violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani e degradanti) nella disciplina del combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit., nella parte in cui subordina la concessione della liberazione condizionale, ai condannati alla pena dell’ergastolo per uno dei delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis cit., alla collaborazione con l’autorità giudiziaria (per un primo commento della sentenza si veda Mauri su questo blog).

Si tratta di una sentenza fondamentale per diverse ragioni: restringe i limiti di legittimità della pena dell’ergastolo; inficia la ratio delle preclusioni a base premiale nell’accesso alle misure alternative; pone al centro della pena in executivis la personalità in divenire del detenuto; fissa limiti invalicabili alla logica della differenziazione dei percorsi penitenziari, anche quando la pena, come in questo caso, riguarda gli autori di gravissimi reati; valorizza in modo spiccato il dialogo con la Corte costituzionale italiana e con l’evoluzione della sue pronunce in tema di funzioni della pena.

Procederò a evidenziare quelli che, ad una prima lettura, mi paiono i punti più qualificanti della decisione, che si apprezza non solo per l’esito a cui giunge, ma anche per i percorsi argomentativi che avranno un’indubbia ricaduta sul sistema penale interno. Terrò conto anche della giurisprudenza costituzionale, della quale la stessa Corte EDU si avvale, anche perché la prima sezione della Corte di cassazione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 4-bis, comma 1 ord. penit. «nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio» (Cass., Sez. I, ord. 20 novembre 2018, n. 57913).

Come noto, la Corte europea non ha mai messo in discussione la conformità al quadro delle garanzie della CEDU delle pene perpetue, sempre che sussista un rapporto di proporzione tra il fatto e la sanzione e, soprattutto, a condizione che di fatto e di diritto sussista la possibilità per il condannato di vedere interrotta la detenzione sulla base dei progressi compiuti nello sviluppo della sua personalità; è necessario che siano chiare le condizioni richieste per interrompere lo stato di detenzione sulla base di una procedura che assicuri termini temporali di riesame (il primo dei quali decorsi venticinque anni dall’inizio dell’esecuzione della pena) e idonee garanzie difensive. Diciamo che la Corte ha definito una legittimità condizionata della pena perpetua.

Anche la Corte costituzionale si è pronunciata in termini analoghi, in quanto la presenza nel nostro ordinamento dell’istituto della liberazione condizionale (alla quale possono accedere anche gli ergastolani dopo aver trascorso 26 anni di pena detentiva, riducibili sino a un quarto per effetto della liberazione anticipata che consente uno sconto di 45 giorni di pena ogni semestre di pena scontata, qualora il detenuto abbia dato prova di partecipare all’opera di rieducazione) garantisce che, di diritto e di fatto, la pena perpetua possa essere non più tale.

Al contempo, però, il legislatore con d.l. 152/1991 convertito in legge 203/1991, in un momento della storia italiana caratterizzato dalla particolare recrudescenza del fenomeno mafioso, aveva disposto che ai condannati per determinate tipologie di delitto di tipo associativo l’accesso alle misure alternative alla detenzione (art. 4-bis, comma 1 ord. penit.) e alla liberazione condizionale fosse subordinato all’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Con successivo d.l. 306/1992 conv. in l. 356/1992 l’accesso a questi istituti fu condizionato anche alla collaborazione, consistente nell’essersi adoperati, anche dopo la condanna, per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori ovvero nell’aver aiutato l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati (art. 58-ter ord. penit.). Per i condannati alla pena dell’ergastolo, questa preclusione rischia di trasformare la condanna in pena di fatto perpetua: è il caso del c.d. ergastolo ostativo, nel quale la mancata collaborazione funge da condizione ostativa alla liberazione condizionale. Sta di fatto che nel 2015 su 1619 condannati alla pena a vita, 1174 (pari al 72, 5%) si trovavano in questa condizione: la ragione di un così elevato numero di casi di ergastolo ostativo sta nel fatto che la maggior parte delle condanne a pena perpetua riguarda reati in materia di criminalità organizzata che rientrano tra le fattispecie ostative.

La Corte costituzionale, prima, e il legislatore, poi, hanno ridefinito i limiti della preclusione nell’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale, escludendola nei casi in cui la collaborazione con l’autorità giudiziaria risulti impossibile (perché i fatti e le responsabilità sono già stati accertati) o inesigibile (in ragione della limitata partecipazione al fatto, solitamente in quanto si tratta di persona che riveste un ruolo marginale nell’associazione). Con questi limiti, la Corte costituzionale nella sent. n. 135/2003 ha sancito la legittimità dell’assetto di disciplina: la preclusione non comporta un vulnus alla funzione rieducativa della pena, perché il detenuto, non collaborando con l’autorità giudiziaria, manifesta una volontà contraria al percorso rieducativo e sintomatica di persistente pericolosità sociale: «non vi è dubbio che la disciplina censurata non impedisce in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale, ma ancora il divieto alla perdurante scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia; scelta che è assunta dal legislatore a criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il ‘sicuro ravvedimento’ del condannato (sentenza n. 273 del 2001)». La Consulta ha, pertanto, sancito la fondatezza della presunzione assoluta della equazione tra “mancata collaborazione” e “mancata rieducazione”; la pima diventa prova legale della seconda.

La sentenza della Corte EDU smonta pezzo a pezzo la rigidità del ragionamento seguito dalla Corte costituzionale del 2003, valorizzando, da un lato, le garanzie convenzionali, dall’altro – punto importante – lo sviluppo successivo della giurisprudenza costituzionale sui limiti di ricorso legittimo alle presunzioni.

Anzitutto, la Corte premette che nel caso in esame non è in discussione la proporzionalità della pena rispetto ai reati commessi, né la disciplina generale dell’ergastolo, in quanto nel sistema penale italiano l’istituto della liberazione condizionale garantisce, di diritto e di fatto, che il condannato possa essere rilasciato. Dunque, la Corte ribadisce la sua posizione non contraria alle pene perpetue, richiamando tuttavia i principi della sentenza Vinter e altri c. Regno Unito che aveva valorizzato due importanti condizioni di legittimazione dell’ergastolo: il diritto insopprimibile alla speranza di un rilascio anticipato; la necessità che il condannato sappia, sin dal momento della condanna, cosa deve fare per assicurare le condizioni della liberazione e quale sia il tempo necessario per richiedere una revisione (termine che la Corte individua in venticinque anni).

In secondo luogo, nel caso Viola c. Italia non sarebbe possibile far saltare le preclusioni attraverso i casi di collaborazione impossibile o irrilevante, in quanto il ricorrente era stato capo dell’associazione criminale ancora operante sul territorio calabrese.

La Corte europea si concentra, dunque, su una specifica questione: se la collaborazione con l’autorità giudiziaria ex art. 58-ter ord. penit. garantisca una effettiva possibilità di interrompere l’esecuzione della pena, perché il combinato disposto con l’art. 4-bis, comma 1, introduce un ostacolo, giuridico e di fatto, nell’accesso alla liberazione condizionale.

È importante, per le ragioni che indicherò in seguito, sottolineare l’importanza che la Corte riconosce alla funzione rieducativa della pena, agganciando le proprie pronunce a quelle della Corte costituzionale: non solo la fondamentale sentenza 313/1990 che ha stabilito che la funzione rieducativa deve accompagnare tutto lo sviluppo della pena, dal momento della previsione legale sino alla sua concreta esecuzione, ma anche la più recente sent. 149/2018 che ha con forza ribadito i principi di flessibilità e progressività di trattamento come elementi di connotazione della funzione rieducativa. In quest’ultima pronuncia, che la Corte EDU mostra chiaramente di valorizzare nei suoi passaggi argomentativi, la Consulta chiarisce che retribuzione e deterrenza possono essere considerate «dal legislatore nella fase di comminazione della pena; ma – così come non possono fondare presunzioni assolute nella fase di verifica del grado e dell’adeguatezza delle misure cautelari durante il processo (sentenza n. 331 del 2011) – nemmeno possono, nella fase di esecuzione della pena, operare in chiave distonica rispetto all’imperativo costituzionale della funzione della pena medesima, da intendersi fondamentale orientamento di essa all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società (sentenza n. 450 del 1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessità di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l’intero arco dell’espiazione della pena».

La Corte europea fa saltare la presunzione legale che lega a doppio filo rieducazione e collaborazione, affermando che l’assenza di collaborazione non può essere un segnale certo della mancata rieducazione e che, di converso, la collaborazione non è un indice altrettanto certo di rieducazione, considerato che ben possono esserci chiamate di correo opportunisticamente interessate esclusivamente ai benefici penitenziari (su questo secondo rilievo la Corte trova un avallo nuovamente nella sent. 306/1993 della Corte costituzionale). La rigidità della disciplina dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. non permette di tenere conto di altre situazioni nelle quali, pur in mancanza di collaborazione, il percorso di sviluppo della personalità del condannato ne evidenzia, comunque, la rieducazione. La Corte valorizza i casi in cui la decisione di non collaborare è finalizzata a proteggere i familiari dai rischi di ritorsione da parte dell’organizzazione criminale (come spesso accade nei casi di condannati in ergastolo ostativo). Il ragionamento della Corte è supportato da due fondamentali argomentazioni.

La prima si fonda sulla considerazione della pena in executivis come processo in divenire che non può non considerare che la personalità del condannato muta, specie dopo molti anni, e che la preclusione impedisce di tenerne conto, disincentivando la partecipazione del condannato all’opera di rieducazione, che diventa priva di senso se non è finalizzata all’obiettivo di poter riacquistare la libertà personale. La preclusione – scrivono efficacemente i giudici di Strasburgo – «fissa in realtà la pericolosità del soggetto al momento di commissione del delitto, invece di tener conto del percorso di risocializzazione e degli eventuali progressi compiuti dopo la condanna» (§ 128 della motivazione). Una pericolosità cristallizzata nel passato, refrattaria a qualunque modificazione della personalità del detenuto e permeabile solo alla collaborazione ex art. 58-ter ord. penit.

La preclusione dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. viola, dunque, l’art. 3 CEDU, perché la funzione rieducativa della pena non può essere sacrificata sul terreno delle esigenze di prevenzione generale e difesa sociale, quand’anche si tratti di contrastare fenomeni gravi come la criminalità organizzata. Si tratta di un principio importante: l’art. 3 CEDU, che è garanzia inderogabile, assicura un nucleo duro di garanzie di cui il condannato, anche per i più gravi reati, non può essere privato secondo scelte di diritto penale d’autore; si delegittimano le scelte di politica criminale che potenziano la prevenzione generale negativa (deterrenza) della pena, sacrificando quella rieducativa, in quanto «la funzione risocializzativa mira in ultima istanza, ad evitare la recidiva ed a proteggere la società» (§ 130 della motivazione; in tal senso v. già Murray c. Paesi Bassi, 26 aprile 2016).

La seconda argomentazione si fonda sulla valorizzazione della giurisprudenza interna contraria alle presunzioni legali di pericolosità, come in effetti è la preclusione rigida di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit.: la Corte europea dialoga con la giurisprudenza della Corte costituzionale, di cui richiama l’importante sentenza n. 149/2018, e della Corte di cassazione che ha progressivamente limitato l’efficacia delle presunzioni in materia di ordinamento penitenziario e misure cautelari. La compatibilità delle presunzioni con il quadro dei principi costituzionali va sottoposta a un vaglio rigoroso sulla loro ragionevole rispondenza a dati di esperienza generalizzati.

Quali gli effetti della pronuncia? Anzitutto bisognerà vedere se e come si pronuncerà la Grande Chambre, anche se il fatto che la decisione sia stata assunta dalla prima sezione con un solo giudice contrario sembra deporre per la sostanziale conferma dell’impianto argomentativo.

Direi che gli effetti della sentenza sul sistema penale interno possano essere di due tipi.

Il primo attiene all’effetto più immediato di tale pronuncia, se diverrà definitiva o verrà confermata dalla Grande Chambre: la violazione dell’art. 3 CEDU impone un intervento strutturale sulla disciplina dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. che andrebbe, preferibilmente, attuato per via legislativa (§§ 140 a 143 della motivazione).

Se non intervenisse il legislatore, gli effetti della sentenza si farebbero già sentire nella questione di legittimità costituzionale sollevata dalla prima sezione della Corte di cassazione in relazione proprio all’art. 4-bis, comma 1 ord. penit., anche se si tratta di questione più delimitata in quanto riguarda l’esclusione dalla fruizione dei permessi premio dei condannati all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia. Come si pronuncerà la Consulta su questa questione sarà un’importante cartina di tornasole per capire quali spazi di apertura potrebbero esserci per vedere accolta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 d.l. 152/1991 conv. in l. 203/1991 per contrasto con l’art. 117 Cost., attraverso la norma interposta dell’art. 3 CEDU, così come interpretata dalla Corte europea, nella parte in cui tale norma, in relazione ai condannati alla pena dell’ergastolo, dispone che non possano essere ammessi alla liberazione condizionale in assenza di collaborazione, pur quando sussistono elementi che fondano il giudizio positivo sulla rieducazione del soggetto e sempre che non permangano collegamenti con la criminalità organizzata: è sull’accesso alla liberazione condizionale che si giocherà la partita del superamento dell’ergastolo ostativo, perché permessi premio e semilibertà consentono solo “parentesi” di libertà che restano privo di senso se per l’ergastolano rimanesse la preclusione di accedere, sussistendo il presupposto del “sicuro ravvedimento” richiesto dall’art. 176 c.p., alla liberazione condizionale. A me pare che le questioni che involgono le preclusioni in relazione a misure alternative alla detenzione e liberazione condizionale siano strettamente connesse, come ha ben chiarito la Corte costituzionale nella sent. 149/2018 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 58-quater, comma 4 ord. penit. nella parte in cui dispone che i condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p., che abbiano cagionato la morte del sequestrato, non sono ammessi ad alcuni dei benefici di cui al comma 1 dell’art. 4-bis se non hanno espiato almeno ventisei anni: una disposizione irragionevole che, formalmente consentiva all’ergastolano di accedere alla liberazione condizionale anche prima del termine di ventisei anni, ma non ad altri benefici penitenziari (lavoro all’esterno, semilibertà, permessi premio), in violazione del principio di progressione trattamentale (art. 27, comma 3 Cost.) in forza del quale sono invece tali benefici ad essere propedeutici alla liberazione condizionale che assicura più ampi spazi di libertà.

Ora, per tornare alla questione più generale della legittimità costituzionale della disciplina dell’art. 4-bis, comma 1 ord. penit., a me pare che, sebbene tale norma nel suo nucleo originario fissi una preclusione politicamente delicata che interviene sulle norme di contrasto alla criminalità organizzata, vi siano ampi spazi per un mutamento di posizione della Corte costituzionale rispetto a quella assunta nella sent. 135/2003 nella direzione tracciata dalla Corte europea che, proprio nella prospettiva di un dialogo con la Corte costituzionale, ha in più punti della motivazione valorizzato argomenti anche di recente sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale che nella sent. 149/2018 ha inferto un grave vulnus alla disciplina delle preclusioni, lasciando presagire possibili ulteriori aperture verso un loro più ampio superamento.

L’altro effetto della sentenza sta nel segnare il profondo divario che intercorre tra i principi affermati dalla Corte europea sul significato della pena e sui limiti del potere punitivo, da un lato, e le scelte di politica criminale dell’attuale governo sul terreno della riforma del sistema sanzionatorio. Da un lato assistiamo alla valorizzazione della funzione rieducativa della pena, anche in chiave di strumento di difesa sociale dal rischio di recidiva, e al tramonto della disciplina delle preclusioni, che assomigliano sempre più a un gigante d’argilla. La Corte – si badi – riconosce legittima la pretesa dello Stato che, per la concessione dei benefici penitenziari e della liberazione condizionale, sia dimostrata la dissociazione dall’organizzazione criminale, ma la rottura del vincolo associativo può essere dimostrata non solo attraverso la collaborazione con l’autorità giudiziaria.

Dall’altro lato, invece, stanno le attuali scelte di politica criminale sul terreno della riforma del sistema sanzionatorio. La Commissione Palazzo (di cui ero stato componente) aveva elaborato un testo per superare i limiti dell’ergastolo ostativo, introducendo, al termine del comma 1-bis dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, questo periodo: «e altresì nei casi in cui risulti che la mancata collaborazione non escluda il sussistere dei presupposti, diversi dalla collaborazione medesima, che permettono la concessione dei benefici summenzionati». Tuttavia il progetto, del tutto equilibrato e in linea con le indicazioni che oggi emergono dalla sentenza Viola, non ha trovato accoglimento in ambito parlamentare. Gli Stati generali dell’esecuzione penale avevano proposto il superamento dell’ergastolo ostativo, ma la legge delega Orlando (l. 103/2017) aveva poi dato indicazioni che non consentivano di risolvere il problema dell’ergastolo ostativo. Il programma del Contratto per il governo del cambiamento prevede, in un’ottica di restaurazione, più carcere come strumento per garantire più sicurezza; era quindi prevedibile che il d. lgs. 123/2018 sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, approvato dall’attuale Governo, avrebbe fortemente svalutato le indicazioni delle Commissioni ministeriali nell’ottica del potenziamento dei percorsi extracarcerari e di miglioramento della vita detentiva. Al contempo la l. 3/2019 (c.d. “spazzacorrotti”) ha disposto che le preclusioni di cui all’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., originariamente riferito ai reati di criminalità organizzata e poi progressivamente esteso ad altre fattispecie, siano applicabili anche ai reati di corruzione.

Prospettive antitetiche, quelle della conservazione preziosa delle garanzie e quella del populismo penale che mostra il braccio violento, ma con sguardo cieco nella capacità di perseguire quelle stesse esigenze di difesa sociale a cui dichiara di voler rispondere. Anche per questo è importante la sentenza della Corte europea: in una stagione che considera primaria l’istanza punitiva sono ancor più imprescindibili gli anticorpi delle garanzie costituzionali e convenzionali.

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