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La libertà di espressione presa sul serio. Casa Pound c. Facebook, atto I

Corrado Caruso, Università di Bologna

Con una decisione di qualche giorno fa, il Tribunale di Roma ha ordinato a Facebook di riattivare le pagine della «Associazione di promozione sociale CasaPound Italia» e del suo amministratore, Davide Di Stefano, oscurate lo scorso settembre (per un commento a caldo, v. R. Bin).

L’ordinanza, pronunciata in sede cautelare, avverso la quale è già stato annunciato reclamo da parte del social network, presenta molteplici profili di interesse, non solo per l’inquadramento del servizio prestato dalle piattaforme social, ma anche per le considerazioni relative ai discorsi d’odio (cd. hate speech) e al pluralismo politico.

Il giudice della cautela riconosce la natura contrattuale del rapporto che l’utente intrattiene con la piattaforma e dei relativi obblighi, risultanti dalle condizioni generali del contratto (c.d. condizioni di uso) che il primo si impegna a rispettare al momento della registrazione. Tra queste ultime, ricoprono una posizione peculiare i cd. Standard della Community, volti a limitare le opinioni inneggianti all’odio, e cioè, ai sensi dello Standard n. 13, i «discors[i] violent[i] o disumanizzant[i]», «dirett[i] alle persone sulla base di aspetti tutelati a norma di legge, quali razza, etnia, nazionalità di origine, religione, orientamento sessuale, casta, sesso, genere o identità di genere e disabilità o malattie gravi».

La violazione di tali regole autorizza la piattaforma a escludere o rimuovere dal servizio gli individui e le organizzazioni che diffondono simili messaggi. Ad avviso del giudice, il rapporto tra la piattaforma e l’utente non è però «assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi, in quanto una delle parti […] ricopre una speciale posizione: tale speciale posizione comporta che Facebook, nella contrattazione con gli utenti, debba strettamente attenersi al rispetto dei principi costituzionali e ordinamentali finché non si dimostri (con accertamento da compiere attraverso una fase a cognizione piena) la loro violazione da parte dell’utente».

I social network svolgono una funzione essenziale per «l’attuazione di principi cardine […] dell’ordinamento come quello del pluralismo dei partiti politici (art. 49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso […] dal dibattito politico italiano».

In tal senso, la rimozione della pagina di CasaPound «si pone in contrasto con il diritto al pluralismo», comprimendo la «possibilità di esprimere messaggi politici» da parte dei ricorrenti.

Ad avviso del Tribunale, l’intervento censorio della piattaforma non può trovare giustificazione nell’asserita divulgazione di espressioni “odiose” che, secondo il social network, coinciderebbero ora con gli stessi scopi dell’Associazione, ora con i comportamenti violenti tenuti da alcuni militanti, di cui è stata data notizia tramite la stessa piattaforma. L’eventuale responsabilità penale per simili condotte, ascrivibili ad alcuni tesserati di CasaPound, non può ricadere automaticamente su quest’ultima, privandola del diritto alla partecipazione al dibattito social.

Inoltre, la valutazione intorno alle finalità dell’Associazione, in ipotesi contrarie alla Costituzione, non rientra – prosegue l’autorità giurisdizionale – tra i compiti del giudizio cautelare, attenendo piuttosto alla cognizione di merito.

Accertata la sussistenza del fumus boni iuris, il giudice ritiene che ricorrano, nella specie, gli estremi del periculum in mora, poiché «il preminente e rilevante ruolo assunto da Facebook rende l’esclusione dalla comunità […] non suscettibile di riparazione per equivalente (o non integralmente riparabile)», comportando un possibile «danno all’immagine».

Il provvedimento cautelare – da quanto risulta, e almeno in Italia, primo nel suo genere – incide sulla gestione privatistica di uno spazio comunicativo di rilievo pubblico che, in quanto tale, non può essere regolato secondo assoluta discrezionalità. In questo senso, la disabilitazione – senza preavviso e in mancanza di motivazione – di una intera pagina social integra una misura non proporzionata, lesiva della libertà di espressione di un soggetto collettivo che ricopre, ai sensi dell’art. 49 Cost., una posizione costituzionalmente qualificata. La libertà di manifestazione del pensiero, non diversamente dagli altri diritti fondamentali, non pone solo un’aspettativa di riconoscimento a carico dei pubblici poteri, ma sprigiona anche effetti orizzontali nei rapporti inter privatorum (la nota Drittwirkung della dottrina tedesca, per una summa R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, Bologna, 2012, 554 e ss.): a maggior ragione quando l’interesse confliggente assume le sembianze di un potere sociale, e cioè di una struttura che, per dimensioni e capacità di azione, è dotata di una vis conformativa delle situazioni individuali, l’organizzazione privata è tenuta, non diversamente dalla pubblica autorità, a rispettare il contenuto essenziale del diritto fondamentale.

Queste considerazioni trovano particolare declinazione in riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero: come si è argomentato altrove (Caruso 2013a; Id. 2013b), questa non può essere ridotta a una mera situazione soggettiva difensiva, ad una pretesa all’astensione, da parte del pubblico potere, dalla sfera di libertà individuale. Il diritto tutelato dall’art. 21. Cost. assume piuttosto un significato promozionale di partecipazione, individuale e collettiva, ad un pubblico processo comunicativo di natura necessariamente conflittuale, ad un discorso pubblico che include, nella cornice democratica, anche l’opinione di chi rifiuta l’ordine assiologico dell’ordinamento repubblicano. L’arena discorsiva è una struttura comunicativa che sublima una contesa politica generata da soggetti abilitati a contestare gli stessi presupposti della discussione. L’iconografia del discorso pubblico non è data dalla composta riunione cittadina, controllata e supervisionata da un chairman che fissa l’agenda pubblica della discussione, ma dal multiforme dibattito originato dalle opinioni, magari irriverenti o moralmente esecrabili, dell’uomo della strada.

Poiché il discorso pubblico crea le premesse per una identificazione condivisa dei cittadini nel conflitto, esso postula una sostanziale neutralità valutativa sui contenuti della manifestazione del pensiero e un’impalcatura istituzionale che mantenga l’apertura e la pari possibilità di accesso ai canali di formazione della sfera discorsiva. Questo principio di massima apertura vale non solo nei confronti del potere pubblico ma anche per le tecnostrutture private che detengono, in virtù della loro posizione di fatto, le chiavi di accesso al public discourse.

A ragione, allora, il Tribunale sottolinea come non sia sufficiente il generico riferimento alla divulgazione di presunti messaggi di odio per consentire l’esercizio del potere censorio: il c.d. hate speech è una categoria sociologica di matrice anglosassone, dai confini giuridicamente indefiniti, che rimanda ad una serie indeterminata di opinioni implicanti una qualche forma di risentimento. Tali messaggi, che presentano un rilievo giuridico di volta in volta differente, sono da sussumere in fattispecie distinte, volte a tutelare beni giuridici non collimanti, predisposte dall’ordinamento per offrire risposte differenziate nel quomodo e nel quantum sanzionatorio.

Così, almeno astrattamente e a prescindere dal caso di specie, hate speech è l’ingiuria (recentemente depenalizzata, ma in relazione alla quale permangono i tradizionali rimedi civilistici); è il vilipendio della bandiera e delle istituzioni; è la diffamazione semplice o aggravata (se realizzata con finalità discriminatorie); è la propaganda razzista, anche aggravata (se fondata sulla negazione, sulla grave minimizzazione o sull’apologia dei crimini di genocidio, cfr. sul punto Fronza 2018). Non vi è dubbio che il menzionato Standard n. 13, adottato dalla piattaforma, tenti di definire e circoscrivere l’incitamento all’odio da rimuovere nell’arena digitale. Si tratta però di una definizione più ampia rispetto a quanto previsto dal diritto penale interno (che sanziona esclusivamente la propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico, o l’istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi), e comunque difettosa in punto di tassatività e determinatezza, rinviando a concetti semanticamente vaghi o altamente controversi.

Di quale di queste condotte CasaPound si è resa responsabile per meritare il social banning? In quali circostanze e con quali modalità ha diffuso contenuti “odiosi”? Nella difesa di Facebook, citata nel provvedimento cautelare, non vi sono riposte a simili interrogativi, né è possibile gravare, come correttamente argomenta il giudice, la formazione politica di una responsabilità oggettiva o “da posizione” (ipotesi che, nel nostro ordinamento, devono essere espressamente positivizzate o comunque oggetto di stretta interpretazione).

Peraltro, non va dimenticato che alcuni dicere possono essere qualificati, sul piano descrittivo, come discorsi odiosi nonostante risultino, sul piano giuridico, coperti dalla garanzia dell’art. 21 Cost. Si pensi a tutte quelle ipotesi in cui, alla luce delle circostanze concrete, il fatto di reato sia da scriminare perché riconducibile a quelle forme espressive qualificate capaci di prevalere, laddove sussistano le condizioni enucleate dalla giurisprudenza, sugli eventuali interessi contrapposti (il diritto di cronaca, critica, satira, etc.).

L’ordinanza evidenzia poi come il riferimento alle finalità perseguite dalla Associazione non sia di per sé idoneo a giustificare l’oscuramento della pagina. In effetti, non è sufficiente la bad tendency (la “cattiva inclinazione”) delle idee e/o dei programmi perseguiti da un soggetto politico affinché questo sia escluso dalla agorà, anche laddove quest’ultima sia in realtà una “piazza” digitale sottoposta al potere manageriale del privato. Il principio pluralista (in tutte le sue diverse declinazioni: di opinione, partitico, sociale etc.) irradia l’ordine politico: le sue eventuali limitazioni devono trovare un esplicito fondamento in Costituzione ed essere oggetto di stretta interpretazione.

Non è possibile, dunque, evocare una generica contrarietà alla Costituzione degli obiettivi programmatici di CasaPound per giustificarne l’esclusione dalla sfera pubblica, come invece argomentano Marina Castellaneta e Pasquale De Sena. Vero è che la XII disposizione transitoria della Costituzione vieta, sotto qualsiasi forma, la riorganizzazione del disciolto partito fascista, ma tale limite deve essere soggetto a una rigorosa actio finium regundorum. Come ebbe a dire Palmiro Togliatti, autore dell’emendamento, nella discussione in Costituente intorno ai limiti dell’associazionismo partitico, il divieto di ricostituzione non ha ad oggetto un concetto vago e indefinito, capace di portare a una trasformazione militante dell’ordine democratico, bensì un fatto storicamente determinato, coincidente con quel movimento politico «che prese corpo in Italia dal 1919 fino al 25 luglio 1943, e che si chiamò fascismo». (cfr. I Sottocommissione, seduta del 19 novembre 1946; in generale su questo dibattito Vigevani 2014).

Non vi è dubbio che le intenzioni dei Costituenti – i quali volevano segnare una netta cesura rispetto al passato piuttosto che realizzare una chiusura pro futuro dello spazio democratico nei confronti di partiti o movimenti estremisti – siano state in parte alterate dalla c.d. Legge Scelba (l. n. 645 del 1952) che, nell’attuare la stessa XII disp. trans., ne ha allargato surrettiziamente l’ambito di applicazione. In effetti, l’intervento legislativo non si limita a un generico riferimento al disciolto partito fascista ma contiene un tentativo di definizione contenutistica: fascista è quell’associazione, quel «movimento o comunque [quel] gruppo di persone [… che] persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenzaquale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista» (corsivo aggiunto).

Nella prassi, tuttavia, la disposizione è stata rigorosamente interpretata: la legge Scelba non è stata di ostacolo all’inclusione nell’arco istituzionale del Movimento Sociale Italiano, ed ha trovato applicazione una sola volta, allorché fu sciolta, nel 1973, la formazione di estrema destra “Ordine Nuovo”. Gli stessi reati di opinione, previsti dalla l. n. 645 del 1952 a mo’ di corollario del divieto di riorganizzazione del partito fascista, sono stati puntualmente delimitati dalla Corte costituzionale (sul punto seguita dalla Cassazione), ad avviso della quale sono punibili esclusivamente le manifestazioni o le condotte apologetiche realizzate con modalità tali da risultare potenzialmente in grado di ricostituire il partito fascista (C. cost., sentt. nn. 1 del 1957, 74 del 1958, 15 del 1973).

Nella esegesi della legge Scelba, dunque, assume rilievo dirimente il requisito della violenza come metodo di lotta politica; non è sufficiente, quindi, una ideologia ultra-conservatrice o contraria, in senso lato, ai valori della Costituzione affinché una determinata organizzazione sia bandita dal sistema democratico. Simile interpretazione trova una serie di conferme sistematiche nel testo della Costituzione, ad esempio nel divieto di costituire organizzazioni militari per perseguire scopi politici (art. 18.2 Cost.) o nel “metodo democratico” (art. 49 Cost.) quale condizione per la giuridica esistenza dei partiti politici (da intendersi come necessario rispetto della dialettica democratica “esterna” ai partiti medesimi), e risulta coerente con la genesi storica del partito fascista. Come ribadito dal poderoso romanzo storico di Antonio Scurati (M. Il figlio del secolo, Milano, 2018), il fascismo, in Italia, è sorto quale movimento contro-rivoluzionario ispirato da un «alveare di contraddizioni» (U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, 2017, 25), da una cinica e opportunistica ideologia della negazione (N. Bobbio, Dal fascismo alla democrazia, Milano, 1997, 61 e ss.) che gli ha consentito di perseguire un’ampia gamma di opzioni politiche in nome della conquista violenta del potere e del suo mantenimento autoritario.

In ogni caso, non sono certo i poteri privati, sotto-forma di social network, a conferire patenti di liceità costituzionale ai soggetti politici. Sarebbe questa una soluzione che presenterebbe il costo, non indifferente, di delocalizzare le sedi istituzionali deputate alla custodia della democrazia costituzionale, muovendo un ulteriore passo verso quel processo di appropriazione della Costituzione ad opera di soggetti privati e impolitici, che ha preso il nome, inquietante ed evocativo, di costituzionalismo civile o societario (G. Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Roma, 2005, pp. 105 e ss.).

Lo stigma fascista può marchiare CasaPound solo all’esito di un procedimento composito (art. 3, l. n. 645 del 1952), che vede intervenire sia la giurisdizione sia l’esecutivo: alla prima spetta pronunciare una sentenza motivata, da emettere a seguito di un pubblico dibattimento che accerti l’avvenuta riorganizzazione delle associazioni vietate dall’art. 1 della legge Scelba; al secondo, e in particolare al Ministro dell’interno, compete l’adozione del provvedimento di scioglimento, di cui è politicamente responsabile nei confronti del Parlamento e, in senso lato, della pubblica opinione.

L’evocazione di messaggi d’odio, nella strategia difensiva del social network, consente di adottare una vera e propria censura privata, realizzata senza alcun contraddittorio, in nome della politically correctness e di una ortodossia costituzionale sicuramente estranea alla vocazione pluralista della Carta del 1948, fondata sul conflitto e sull’eterogeneità politica in vista dell’accettazione del metodo democratico e non dei contenuti della democrazia (Vigevani 2014, 17). Persino chi, come Ronald Dworkin, ha più insistito per una moral reading della Costituzione, ha messo in guardia, in uno degli ultimi scritti prima della sua scomparsa, dai nuovi «nemici» della libertà di espressione, che pretendono di limitare la «pietra angolare» del sistema democratico (C. Cost., sent. n. 84 del 1969) «in nome della giustizia, piuttosto che della tirannia» (R. Dworkin, Foreword, in I. Hare, e J. Weinstein, (a cura di), Extreme Speech and Democracy, Oxford, 2009, p. V).

Per tali ragioni, la giurisprudenza della Corte Edu richiamata da Castellaneta e De Sena non è perfettamente sovrapponibile al caso di specie. In primo luogo, perché, come gli stessi Aa. riconoscono, i giudici di Strasburgo tendono ad offrire tutela a tutte le opinioni irriguardose, che per loro natura «shock, or disturb the State or any sector of the population» (Handyside, par. 49). Non a caso, la giurisprudenza convenzionale applica la “ghigliottina” dell’abuso del diritto (art. 17 Cedu) solo ad alcune, ben determinate, tipologie espressive, riconducibili essenzialmente al negazionismo dell’Olocausto e alla propaganda antisemita (una summa in Caruso 2017).

Inoltre, la Convenzione Edu e la case law della sua Corte integrano senz’altro un parametro interposto di costituzionalità, che però non riveste lo stesso rango della Costituzione. Fin dalle note sentenze nn. 348 e 349 del 2007, la Corte costituzionale ha sottolineato che la fonte convenzionale è chiamata a rispettare tutte le disposizioni costituzionali, in virtù del predominio assiologico-normativo della Carta costituzionale (sent. n. 49 del 2015).

Questa pretesa di egemonia della Costituzione sulla Convenzione trova giustificazione nella struttura e nelle finalità dell’ordinamento convenzionale: nonostante sia in auge il tentativo di annoverare la Corte EDU tra i protagonisti della costituzionalizzazione dello spazio giuridico europeo (per tutti, A. Ruggeri 2013, Pollicino-Sciarabba, La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale, in L. Mezzetti [a cura di], Sistemi e modelli di giustizia costituzionale, t. II, Bologna, 2011, 1 e ss.), i meccanismi istituzionali e gli scopi della Convenzione sono irriducibili ai processi di integrazione politica che caratterizzano lo Stato costituzionale.

Non è sufficiente, infatti, una lontana comunanza assiologica, che trova le proprie radici nel milieu del costituzionalismo liberal-democratico, per assimilare la tutela offerta da Strasburgo alla garanzia delle libertà fondamentali predisposta dalla Costituzione. La Corte EDU, infatti, «privilegia puramente o esclusivamente la pretesa soggettiva di un individuo. Il ricorrente agisce uti singulus, non come cittadino: la domanda non presuppone il sinallagma […] propriamente […] sotteso al rapporto di cittadinanza» (Morrone 2014, 97), che assegna diritti ma richiede contestualmente l’adempimento di specifici doveri nei confronti della comunità. I giudici di Strasburgo operano caso per caso, in uno spazio neutro sottratto ai principi della rappresentanza politica e — persino — della separazione dei poteri (Bignami, 7). Il sistema convenzionale non conosce modalità di distribuzione del potere simili a quelle contenute nella seconda parte della Costituzione, che rimanda a una organizzazione fondata anche sul criterio di maggioranza e sul principio dell’intermediazione legislativa (se si vuole Caruso, Il “posto” dell’interpretazione conforme alla Cedu, in Giur. cost., 2018, 1996 e ss.).

La Corte Edu ha di mira, come fini ultimi, la realizzazione e il mantenimento di un ordinamento internazionale derivato, creato affinché non si ripetano, nel continente europeo, le atrocità commesse dai regimi nazi-fascisti. Nell’ottica dei giudici di Strasburgo, le opinioni eversive delle coordinate valoriali della Convenzione possono(e in alcuni casi, devono) essere represse dagli Stati nazionali, perché altrimenti verrebbe meno la stessa ragion d’essere del trattato, «strumento costituzionale dell’ordine pubblico internazionale» (Loizidou). Lungi dal costituire uno strumento d’inclusione politica, collocate in una cornice che esalta un certo atomismo individuale emancipato dai concreti rapporti sociali e dai tipici conflitti della società pluralista, molte pronunce della Corte internazionale attenuano i processi nazionali di condivisione democratica alimentati dalla libertà di espressione, in coerenza con il telos di un sistema che non conosce la tensione “tragica” di molte delle Costituzioni europee del dopo-guerra, strette tra le opposte necessità di salvaguardare le valvole di sfogo del dissenso e la conservazione dell’ordine liberal-democratico.

La Costituzione italiana accetta senz’altro un moderato oggettivismo morale, perché mira a riaffermare un’ideale di giustizia sub specie aeternitatis. Anche gli ordinamenti democratici e pluralisti tendono all’unità politica, a delineare cioè una comunità ordinata intorno ad alcuni fini politici fondamentali, da riaffermare e proteggere quotidianamente. Il punto cruciale sta, allora, nella scelta degli strumenti migliori per garantire tale ordine senza compromettere l’identità pluralista dello Stato costituzionale, senza rinunciare, in altri termini, ad un processo di integrazione politica aperto e plurale. Non è possibile, in questa sede, sciogliere tale nodo cruciale ma si può, quanto meno, abbozzare una risposta via negationis: non è attraverso la criminalizzazione delle opinioni o tramite un potere censorio affidato ai «nuovi e vitalissimi giganti di silicio» (Rodotà 2010) che lo Stato costituzionale può mantenere le promesse di libertà ed eguaglianza su cui è stato edificato.

 

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