diritto internazionale pubblico

Genocidio dei Rohingya? Sulle misure cautelari della Corte internazionale di giustizia nel caso Gambia c. Myanmar

Lorenzo Acconciamessa, Università Cattolica di Milano, Università di Palermo

Francesca Sironi De Gregorio, Università Cattolica di Milano*

1. Il 23 gennaio 2020 la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha adottato un’ordinanza in risposta alla richiesta di misure provvisorie presentata dal Gambia l’11 novembre 2019 nel quadro del contenzioso che lo oppone a Myanmar, accusato di violare la Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Con il ricorso, fondato sui (presunti) illeciti commessi nello Stato di Rakhine dall’esercito di Myanmar (noto come Tatmadaw) e da vari gruppi armati (supportati, sostenuti o quanto meno tollerati dallo Stato) contro il gruppo etnico musulmano dei Rohingya, il Gambia ha chiesto l’accertamento della violazione degli articoli I, III, IV, V e VI della Convenzione suddetta e la conseguente condanna di Myanmar alla cessazione dell’illecito, alla punizione dei colpevoli, alla riparazione dei danni nei confronti delle vittime e alla prestazione di adeguate garanzie di non ripetizione.

L’ordinanza, adottata all’unanimità (con due opinioni separate, l’una della Vice-Presidente Xue e l’altra del giudice Cançado Trindade) contiene spunti interessanti, che probabilmente incideranno sulla prosecuzione del giudizio.

In questo breve scritto esamineremo la questione tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sotto quello procedurale. Con riferimento all’aspetto sostanziale, dopo una sintetica ricostruzione dei fatti, daremo una lettura degli stessi ai sensi della giurisprudenza in materia, allo scopo di ipotizzarne la qualificabilità come atti di genocidio (par. 2). Quanto all’aspetto procedurale, analizzeremo le statuizioni della Corte in relazione al requisito della giurisdizione (par. 3), nonché lo standard probatorio applicato e il materiale probatorio che ne ha consentito il raggiungimento (par. 4). In entrambi i casi, l’analisi critica dell’ordinanza e delle misure adottate (indicate al par. 5) sarà orientata alla formulazione di alcune osservazioni in merito ai possibili sviluppi del giudizio (par. 6), tenendo a mente le intrinseche differenze (non da ultimo, in relazione alla finalità) che sussistono tra la fase cautelare e la fase di merito nel processo dinanzi alla CIG.

2. Prima di tutto, qualche ragguaglio sui fatti all’origine della controversia. Secondo quanto riportato da organi delle Nazioni Unite, media e ONG, a partire dal 9 ottobre 2016 l’esercito e vari gruppi militari hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani nei confronti dei Rohingya, definite come una vera e propria campagna di pulizia etnica che ha provocato presumibilmente oltre 10.000 morti. Il tutto in un contesto di violenza e gravi discriminazioni in relazione all’accesso al cibo, alla salute e all’educazione, alla libertà di movimento, al diritto di matrimonio e altre libertà civili. Secondo il rapporto del 18 settembre 2018 della United Nations Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar (IIMM), gli oltre 600.000 Rohingya rimasti in Myanmar sono in grave pericolo e ciò che hanno subito è qualificabile come genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra (par. 83-86). Nel rapporto dell’8 agosto 2019 si arriva a sostenere la messa in atto di una politica di segregazione e, in termini particolarmente netti, si afferma che «there is a strong inference of genocidal intent on the part of the State, that there is a serious risk that genocidal actions may occur, and that Myanmar is failing its obligation to prevent genocide, to investigate genocide, and to enact effective legislation criminalizing and punishing genocide» (par. 90).

Dalla lettura dei rapporti in questione sembra quindi potersi sostenere che i fatti allegati siano qualificabili come atti di genocidio. Detti rapporti menzionano, infatti, omicidi di massa, stupri e altre forme di violenza sessuale, distruzione sistematica di villaggi e, infine, esecuzioni di massa. Tra gli altri, due elementi appaiono particolarmente significativi in tal senso: l’hate speech e le violenze sessuali e di genere. L’IIMM ha analizzato il ruolo che l’hate speech e l’incitamento alla violenza, peraltro provenienti da organi statali,  hanno avuto nel conflitto in corso nel Rakhine, evidenziando come varie piattaforme comunicative (stampa, media televisivi, radio e social network, principalmente Facebook) siano state utilizzate per sviluppare una narrazione (distorta) volta a denigrare i Rohingya, presentandoli come una minaccia per la purezza della razza birmana, per l’integrità buddhista, nonché, da ultimo, per lo Stato nel suo complesso. In gran parte tale politica di incitamento all’odio, si è detto, ha utilizzato fonti ufficiali (statali) di diffusione e trasmissione, elemento senza dubbio rilevante ai fini di un’eventuale attribuzione di responsabilitá al Myanmar. In secondo luogo, si sottolinea la dimensione sessuale e di genere alla base delle violenze in corso in Myanmar, ove, come si evince da specifici rapporti (vedi qui, qui e qui), vige da decenni un clima di sostanziale impunità per crimini sessuali. Si stima, infatti, che circa il 60% delle donne nello Stato di Rakhine abbia subito nel corso della sua vita episodi di violenza sessuale. L’IIMM nel 2016 ha sostenuto espressamente che il carattere sistematico degli attacchi contro donne e bambine, delle mutilazioni genitali e, più ampiamente, delle violenze che mirano a impedire alle donne di avere futuri rapporti sessuali, integra la fattispecie genocidiaria (A/HRC/42/CRP.4, para. 72). E difatti, gli Elements of the Crimes of the Rome Statute, cosí come una giurisprudenza costante dei tribunali penali internazionali ad hoc, elencano specificamente tra gli atti materiali di genocidio i crimini sessuali e di genere, evidenziando come tali condotte possano mirare (e spesso mirino) alla distruzione del gruppo protetto. In particolare, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (es. Akayesu, par. 507 ss.) e il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (vedi Kunarac, par. 125 ss.), hanno ritenuto che le politiche di separazione tra i sessi e di proibizione dei matrimoni, così come l’atto di volontariamente mettere incinta donne di un gruppo protetto con «the intent to have her give birth to a child who will consequently not belong to its mother’s group» rientrano nella definizione di genocidio biologico (costituito da misure miranti ad impedire le nascite all’interno di un gruppo) e fisico (ossia l’inflizione di lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo). L’elemento soggettivo dell’intento di distruggere viene poi approfondito nel rapporto del 16 settembre 2019 indirizzato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, ed affermato in vari rapporti dello Special Rapporteur on the Situation of Human Rights in Myanmar del 20 agosto 2018, 2 maggio 2019 e del 30 agosto 2019. In tali rapporti, l’intento viene presentato, insomma, come un dato di fatto accertato. Si vedrà, tuttavia, che tale conclusione non è scontata.

Se la qualificabilità come atti di genocidio dei comportamenti adottati in Myanmar deve ancora essere verificata, della loro più generale contrarietà a norme fondamentali di diritto internazionale non sembra potersi discutere. A riprova di ciò, basti considerare che i medesimi fatti hanno dato avvio a delle indagini per crimini contro l’umanità portate avanti dal Procuratore della Corte Penale Internazionale (di seguito: CPI), a seguito di un’autorizzazione ai sensi dell’art. 15 dello Statuto di Roma dalla Pre-Trial Chamber III, emessa solo 3 giorni dopo la presentazione del ricorso alla CIG da parte del Gambia. La giurisdizione della CPI nel presente caso è limitata a crimini di carattere transnazionale, con un elemento del fatto commesso nel territorio di uno Stato parte dello Statuto di Roma. Si stima, infatti, che circa 700.000 Rohingya siano fuggiti in Bangladesh, ove si trovano in campi per rifugiati in cui le condizioni di vita sono talmente estreme da costituire anch’esse ipotesi di gravissime violazioni del diritto internazionale. Non sussiste invece giurisdizione con riferimento al Myanmar, che non è parte dello Statuto di Roma. Ne consegue che la Corte potrebbe pronunciarsi solo in seguito ad un referral della situazione da parte del Consiglio di Sicurezza, a norma del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. Peraltro, il 15 novembre 2019 è stato sottoposto ad un giudice argentino un caso concernente i crimini internazionali commessi contro i Rohingya. Le autorità argentine non hanno ancora deciso sulla loro giurisdizione, ma qualora questa fosse riconosciuta, per la prima volta i medesimi fatti risulterebbero parallelamente esaminati da un tribunale penale internazionale, dalla CIG e da un organo giudiziario interno nell’esercizio della giurisdizione universale.

3. Tornando alla decisione in esame, in particolare ai suoi aspetti procedurali, è appena il caso di ricordare che, ai fini dell’adozione di misure cautelari, la Corte deve convincersi che «the provisions relied on by the Applicant appear, prima facie, to afford a basis on which its jurisdiction could be founded» (cfr. ex multis, Guinea Equatoriale c. Francia, par. 31). Il Gambia ha sostenuto che la giurisdizione della CIG si fonda sugli artt. 36 (1) dello Statuto CIG e IX della Convenzione contro il genocidio, ratificata da entrambi gli Stati. Ai sensi dell’ultima disposizione – una clausola compromissoria cui né il Gambia né il Myanmar hanno apposto riserve – la giurisdizione sussiste ove vi sia una controversia relativa all’interpretazione, all’applicazione o all’esecuzione della Convenzione.

 

Sull’applicabilità dell’art. IX non sembra potersi discutere. La Corte ha rigettato l’eccezione del Myanmar secondo cui l’aver apposto una riserva all’art. VIII implicherebbe il venir meno della possibilità di adire la CIG. Quest’ultima norma, infatti, dispone che «ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, ogni misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della repressione degli atti di genocidio». Pur costituendo la CIG un organo delle Nazioni Unite, la norma in esame si riferisce all’invocazione di azioni appropriate per la prevenzione e la soppressione di atti di genocidio, e non alla possibilità di sottoporre la controversia a un organo giurisdizionale. Avendo campi di applicazione differenti, la riserva apposta all’art. VIII, afferma la Corte, non si estende all’art. IX (par. 35). Del resto, se l’art. VIII facesse riferimento anche all’ipotesi del ricorso alla CIG (se, cioè, fosse anche una clausola compromissoria implicita), non si spiegherebbe la necessità di una norma specifica in materia.

 

Affinché vi sia giurisdizione prima facie è poi necessario determinare, all’esito di un giudizio sommario, l’esistenza di una controversia. Si richiede, dunque, che le parti siano «in conflict as to their respective rights» (Nuclear test, p. 13). Nell’atto con cui ha instaurato il giudizio il Gambia ha indicato molteplici atti con cui avrebbe manifestato «its concerns in respect of the conduct of Myanmar». Tra di essi figurano dichiarazioni della Organizzazione della Cooperazione Islamica, discorsi e affermazioni del Gambia in seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, soprattutto, la nota verbale inviata l’11 Ottobre 2019 dalla Missione permanente del Gambia presso le Nazioni Unite alla Missione di Myanmar, nella quale lo Stato africano esprimeva le sue preoccupazioni sulle gravi violazioni emerse nei rapporti della UN Fact-Finding Mission. Il Myanmar non ha mai risposto a tale nota. Alla luce di quanto affermato dalla Corte nel caso Marshall Islands del 2016, affinché vi sia una controversia è sufficiente che lo Stato convenuto fosse consapevole, o non potesse non esserlo, che le proprie posizioni erano “positively opposed” dallo Stato attore (para. 38). A tal proposito, va ricordato anche un discorso (pag. 31) del settembre scorso, davanti all’Assemblea Generale, nel quale il vicepresidente del Gambia si era detto «ready to lead concerted efforts to take the Rohingya issue to the International Court of Justice». E così, nell’ordinanza, la Corte riconosce come sufficienti tali elementi per affermare l’esistenza di una controversia tra le parti al momento della presentazione del ricorso da parte del Gambia (para. 31).

 

Occorre sottolineare anche che il Gambia ha proposto l’azione a tutela dei diritti della popolazione Rohingya «to exist as a group, to be protected from acts of genocide, conspiracy to commit genocide, direct and public incitement to commit genocide, attempt to commit genocide and complicity in genocide» (par. 45) e a tutela del proprio diritto a che gli obblighi sanciti nella Convenzione siano rispettati da tutti gli Stati membri (ibidem). A proposito della legittimazione a far valere presunte violazioni della Convenzione, perpetrate dal Myanmar nel proprio territorio, non è stata accolta l’obiezione di quest’ultimo secondo cui il Gambia non avrebbe titolo a tal fine, in quanto agente come sostituto della OIC, i cui 57 Stati membri sostengono il ricorso. Al riguardo, basta rilevare, come ha fatto la Corte, che la Convenzione stabilisce obblighi erga omnes partes, il cui adempimento ciascuno Stato parte è legittimato a invocare, a prescindere dalla sussistenza di un danno o interesse specifico (par. 41). Ed infatti, il rispetto delle norme sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio costituisce un valore condiviso dall’intera comunità internazionale, tutelato da norme di jus cogens che creano obblighi erga omnes, come statuito nel caso Armed activities on the territory of the Congo (Repubblica Democratica del Congo c. Ruanda, giurisdizione e ammissibilità, par. 27. ss.). Essendo finalizzata alla protezione di un interesse comune, peraltro, l’azione dal Gambia è stata pubblicamente sostenuta da Canada e Paesi Bassi già all’inizio del mese di dicembre 2019, e dal Regno Unito nel gennaio 2020. Sotto questo profilo, il caso è particolarmente rilevante, giacché, pur non essendo la prima volta che uno Stato non direttamente leso invoca la violazione di norme erga omnes partes (si veda Questions relating to the obligation to prosecute or extradite), si tratta del primo caso in cui ciò avviene con riferimento alla Convenzione contro il genocidio.

 

Stante quanto appena illustrato, non condividiamo la posizione del giudice Xue, secondo cui, se davvero il carattere erga omnes partes implicasse la legittimazione di ciascuno Stato membro ad agire davanti alla CIG, allora una riserva alla clausola compromissoria del trattato dovrebbe essere vietata ai sensi del diritto internazionale (Opinione separata, par. 5 e 6). Lo scopo fondamentale della Convenzione, come ormai pacifico fin dall’opinione consultiva del 1951 sull’ammissibilità delle riserve, non è, infatti, il deferimento delle controversie alla CIG, bensì la creazione di obblighi di prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Lo stesso giudice Xue, d’altronde, ammette che «resort to the Court is not the only way to protect to common interest of State parties in the accomplishment of the high purposes of the Convention» (par. 7). In altri termini: sostenere che il carattere erga omnes partes implichi detta legittimazione non fa della clausola compromissoria il cuore del trattato (per intenderci: oggetto e scopo di quest’ultimo), rendendo inammissibile una riserva alla clausola in questione. Tutto ciò che può dirsi è che, se uno Stato non appone detta riserva, pur essendo libero di farlo, tale Stato accetta che qualsiasi altro Stato Parte possa agire dinanzi alla Corte.

 

All’esito dell’esame del giudizio (sommario) sulla giurisdizione svolto dalla Corte, e se pure è vero che esso «in no way prejudges the question of the jurisdiction of the Court» (par. 85), il rigetto delle eccezioni del Myanmar risulta talmente netto da potersi forse ritenere definitivo.

4. Venendo ora agli ulteriori presupposti per l’adozione di misure cautelari, essi riguardano, come è noto, il diritto invocato nel processo e, più precisamente: la plausibilità dell’esistenza del diritto di cui si chiede la protezione; la sussistenza di un nesso tra tale diritto e le misure richieste; il rischio di un pregiudizio irreparabile e l’urgenza di adottare misure provvisorie di protezione.

Nell’accertamento di tali elementi, ed è questo il vero quid pluris della pronuncia in esame, la CIG si è servita in modo molto ampio di vari Fact Finding Reports, per concludere che i fatti cui fa riferimento il Gambia sono idonei ad essere sussunti nel campo di applicazione della Convenzione del ‘48, non essendo necessario, in tale fase, verificare se effettivamente costituiscano violazioni della Convenzione medesima (par. 30). Tale statuizione consente di riflettere tanto sullo standard, quanto sul materiale probatorio su cui la decisione si fonda.

In relazione al primo aspetto, non può negarsi che lo standard probatorio richiesto dalla Corte sia stato più basso rispetto al solito. Il parametro della plausibilità, pur venendo puntualmente richiamato (par. 43), viene applicato in termini particolarmente ampi. Probabilmente, l’attenuarsi del rigore di tale standard, nello specifico con riferimento all’intento genocidiario (par. 56), è da ricondursi a quell’orientamento generalissimo, costituito dalla cd. umanizzazione del diritto internazionale, da anni oggetto di dibattito nella dottrina internazionalistica (per fare degli esempi, basti citare Meron; Tomuschat, e lo stesso Cançado Trindade). D’altronde, almeno di recente, nei casi in cui i beneficiari ultimi delle misure provvisorie siano individui (ad es., in Breard e LaGrand, dove la cognizione è stata sommaria e le misure concesse in brevissimo tempo, nonché in Jadhav,), ovvero, come nel caso di specie (ma anche in Request for Interpretation e in Qatar c. Emirati Arabi Uniti), un gruppo di individui vulnerabili, nella fase cautelare sembra manifestarsi una tendenza a superare le logiche tipiche della tradizionale dimensione interstatale del giudizio dinanzi alla CIG. Ciò avviene sulla scorta di un’attenzione più marcata per gli interessi individuali coinvolti (come messo in luce da Sparks e Somons), allorché la controversia, per quanto interstatale, insorga con riferimento a norme poste a tutela di diritti umani fondamentali (si veda Miles, p. 352-353). Se, dunque, il Myanmar ha sostenuto in udienza che lo standard della plausibilità dovrebbe estendersi anche all’accertamento dell’intento genocidiario, e che tale standard dovrebbe essere particolarmente stringente, quando si tratta di presunte violazioni di particolare gravità (par. 47; Dichiarazione del giudice ad hoc Kress, nominato da Myanmar) – argomentazione che la Corte ha espressamente rigettato (par. 56) – noi riteniamo che, almeno nella fase cautelare, sia vero l’opposto. In virtù del carattere fondamentale dei valori di cui si chiede la protezione, e quando il rischio di pregiudizio sia estremamente alto (e, soprattutto, irreversibile, come messo in luce dalla Corte al par. 70), è sufficiente la possibilità dell’esistenza (e quindi della violazione) dei diritti in questione (ibidem), così come la loro effettiva riferibilità al caso di specie. Lo standard della plausibilità tende dunque ad essere superato dall’esigenza di tener conto della human vulnerability (così, Cançado Trindade già in Ucraina c. Russia e, nel presente caso, nella Parte V della sua Opinione: «the imperative of overcoming the extreme vulnerability of victims»), sottolineata dalla Corte con riferimento alla posizione dei Rohingya in Myanmar (par. 72). Basta, insomma, che quanto allegato dallo Stato attore lasci presumere la riconducibilità della fattispecie concreta alle norme rilevanti, posto anche che, come ha sostenuto il Gambia, «the fact that some of the alleged acts may also be characterized as crimes other than genocide would not be inconsistent with and should not exclude the plausible inference of the existence of the said genocidal intent» (par. 46). Richiedere, invece, come ha fatto Myanmar (par. 47), che l’intento genocidiario debba essere dimostrato, significherebbe applicare uno standard prossimo alla certezza – seppur fondato sull’accertamento fattuale sommario che caratterizza la fase cautelare – col rischio di non riuscire a prevenire atti che potrebbero essere qualificati come genocidio. Pronunciandosi nel senso evidenziato, la CIG sembra imporre quella che è stata definita una humanitarian stasis (Sparks e Somos, p. 20), di modo che «during the lull between application and judgment, when the rights of States lie in the scale, it is the human factor that can tip the balance one way or the other» (ibidem). La rigidità dello standard appare dunque, in questo senso, parametrata allo stato di avanzamento del giudizio.

Quanto al materiale probatorio, in questa fase la Corte non ha frapposto particolari ostacoli alla formazione della prova, facendo rinvio agli accertamenti compiuti dalle varie UN Fact Finding Mission. La questione, tuttavia, si porrà nella prosecuzione del giudizio, posto anche che Myanmar ne ha contestato la veridicità, tanto nel corso delle udienze davanti alla CIG, quanto all’esterno. Come è stato messo in evidenza, la Corte tende ad ammettere ricostruzioni fattuali compiute da terze parti solo quando queste si siano formate mediante un procedimento analogo a quello realizzato davanti a un organo giurisdizionale e, dunque, nel contraddittorio, mediante un contro-esame dei testimoni o degli autori delle valutazioni. Il giudizio di merito, pertanto, non potrà fondarsi esclusivamente su detti accertamenti, ma la raccolta di ulteriori prove appare alquanto problematica se si considera che la CIG non ha accolto la richiesta del Gambia di ordinare al Myanmar la cooperazione con gli organismi delle Nazioni Unite di accertamento dei fatti (vedi infra, par. 5).

5. Passando alle misure adottate dalla Corte – nell’esercizio del potere di cui all’art. 72 (2) del Regolamento di procedura – va qui ricordato che esse consistono: (1) nell’adozione, in conformità agli obblighi derivanti dalla Convenzione, di qualsiasi misura idonea alla prevenzione di atti che rientrano nel campo di applicazione della stessa; (2) nell’assicurare ai Rohingya presenti nel territorio del Myanmar che né l’esercito statale, né gruppi armati irregolari agenti sotto la direzione, il controllo o l’influenza dello Stato commettano alcuno degli atti indicati, o cospirino per commettere genocidio, incitino allo stesso, tentino o supportino la commissione di atti di genocidio; (3) nell’adozione di misure finalizzate a prevenire la distruzione delle prove, assicurandone la preservazione, in modo da garantire la punizione degli eventuali responsabili; (4) nella redazione di report entro il termine di quattro mesi, e successivamente ogni sei mesi, in relazione all’adempimento delle misure indicate che, come è noto, hanno effetti giuridicamente vincolanti (LaGrand, par. 109), i quali non possono essere contestati dal Myanmar, che ha accettato la competenza della CIG. In gran parte le misure imposte costituiscono una riaffermazione degli obblighi imposti dalla Convenzione, come è stato messo in evidenza, ma hanno comunque il merito di richiamare al rispetto della stessa e di sottoporne l’attuazione alla costante attenzione della Corte nonché, ai sensi dell’art. 41 (2) dello Statuto, del Consiglio di Sicurezza. Quest’ultimo potrebbe adottare una risoluzione per vigilare sul corretto adempimento degli stessi e per limitare ulteriormente le violazioni, così come per compiere accertamenti e raccogliere prove (sempre che la Cina non eserciti il proprio potere di veto).

La Corte non ha invece accolto la richiesta del Gambia di consentire l’accesso nel territorio dello Stato agli organi di accertamento delle Nazioni Unite, limitandosi a sostenere che «the Court does not consider that its indication is necessary in the circumstances of the case» (par. 62).  La mancata pronuncia si fonda probabilmente su una scelta di carattere politico. La questione delle prove, infatti, dimostra anche l’intento di facilitare eventuali procedimenti penali individuali davanti alla CPI, organo di cui Myanmar non ha peraltro accettato la giurisdizione. E infatti lo Stato si è fortemente opposto alla creazione da parte del Consiglio dei Diritti Umani dell’Independent Investigative Mechanism for Myanmar, considerandola una violazione della propria sovranità e dichiarando che non coopererà in alcun modo alle attività della stessa.

A mo’ di reazione, il 30 giugno 2018 il Governo del Myanmar ha istituito una Independent Commission of Enquiry con il compito di «investigate allegations of human rights violations and related issues following the terrorist attacks by the Arakan Rohingya Salvation Army in Rakhine State with a view to seeking accountability and formulating recommendations on steps to be taken to ensure peace and stability in Rakhine State». La Commissione ha pubblicato un executive summary del proprio rapporto finale il 21 gennaio scorso (ad oggi non accessibile nella versione completa), giungendo alla conclusione che crimini contro l’umanità e crimini di guerra sono stati potenzialmente commessi nel territorio dello Stato del Rakhine, nella forma di uso eccessivo e non proporzionato della forza da parte di membri dell’esercito, ma che nessuna prova a sostegno di un piano o dell’intento di distruggere in tutto o in parte il gruppo è stata trovata, così come che nessuna linea di condotta genocidiaria è emersa dalla ricostruzione degli episodi.

6. Attenuazione dello standard probatorio a parte, più difficile sarà per il Gambia provare la sussistenza della fattispecie di genocidio in sede di merito. Sui primi due elementi della fattispecie non si pongono particolari problemi. Oltre ai vari rapporti menzionati, è da segnalare, infatti, che la difesa di Myanmar (riproponendo sostanzialmente le conclusioni della Commissione da ultimo citata) ha negato non già l’esistenza dei fatti materiali riportati dal Gambia, quanto la loro qualificabilità come atti di genocidio, ammettendo quindi che dei crimini sono stati sì commessi nel territorio del Rakhine contro soggetti di etnia (tra le altre) Rohingya, ma che tali fatti non costituiscono genocidio. In secondo luogo, non sembra potersi escludere che i Rohingya siano un gruppo etnico che si auto-identifica come tale, a prescindere dalla nazionalità (o apolidia), così come dal mancato inserimento nella lista dei gruppi etnici (par. 15). Ed infatti la Corte ha sostenuto che «the Rohingya appear to constitute a protected group within the meaning of Article II of the Genocide Convention» (par. 52). Sia pure in mancanza di un’ampia argomentazione sul punto da parte della CIG, basta rilevare che una compiuta definizione di gruppo protetto è stata data dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda fin dalla pronuncia Akayesu (come poi precisato nei casi Rutuganda e, infine, Musema). La medesima posizione, del resto, è stata adottata dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ad esempio nel caso Jelisić), il quale è andato persino oltre, specificando che è sufficiente la percezione che gli autori della condotta hanno della appartenenza della vittima al gruppo protetto, anche in mancanza della sua reale affiliazione (in particolare, Krnojelac, par. 185). In presenza di una giurisprudenza consolidata in materia – cui senza dubbio la Corte, posta la sinteticità che caratterizza una pronuncia cautelare, ha inteso fare implicito riferimento – non sembra potersi contestare la qualificabilità dei Rohingya come gruppo protetto ai sensi della Convenzione.

Ciò che sarà difficile da provare è, invece, il c.d. “dolo aggravato” (o dolus specialis). Nonostante i vari rapporti menzionati definiscano come ongoing genocide quanto sta accadendo nel Rakhine, nella pronuncia del 2007 sull’ applicazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (Bosnia c. Serbia) la Corte ha stabilito dei parametri particolarmente stringenti per l’accertamento di detto elemento (sul punto, si vedano Landi e Bonafè). E per quanto auspicabile sia – sempre in una prospettiva di “umanizzazione” del diritto internazionale – una flessione dello standard (così Goldsmith) anche nella fase del merito, sembra poco plausibile che ciò avvenga.

Tuttavia, nonostante le difficoltà che si frappongono ad una vittoria nel merito per il Gambia, e malgrado le misure provvisorie adottate dalla Corte siano state ritenute non particolarmente efficaci (così Milanovic), queste ultime hanno comunque il merito, non solo di richiamare il Myanmar al rispetto dei propri obblighi internazionali, ma anche di portare nuovamente all’attenzione della comunità internazionale fatti gravissimi – qualificabili o meno che siano come genocidio nei termini particolarmente stringenti stabiliti nella Convenzione e dalla CIG. Ciò che è augurabile, affinché le misure adottate si rivelino davvero efficaci (questione a cui solo la prosecuzione degli eventi darà risposta), è che altri Stati manifestino espressamente il proprio sostegno al ricorso del Gambia, e che il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale e il Segretario Generale intervengano, nell’ambito delle rispettive competenze, per vigilare sull’applicazione delle misure disposte e per evitare un aggravamento della situazione. A tal fine, a nulla vale la riserva apposta dal Myanmar all’art. VIII della Convenzione (sul contenuto, si veda supra al par. 3), posto che essa non esclude che siano gli organi delle Nazioni Unite, proprio motu, a intervenire.

 

*Il presente scritto è frutto del lavoro comune degli autori, che ne condividono la responsabilità. Ad ogni buon conto, i paragrafi 1, 2 e 5, nonché il terzo capoverso del paragrafo 3, sono attribuibili a Francesca Sironi De Gregorio;  i paragrafi 3, 4 e 6, e il terzo capoverso del paragrafo 1 a Lorenzo Acconciamessa.

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Lorenzo Acconciamessa e Francesca Sironi De Gregorio

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