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La sentenza Governor of Cloverhill Prison della Corte di giustizia UE: giusta la scelta delle basi giuridiche per gli Accordi con il Regno Unito in materia di Brexit?

Alessandro Rosanò (Università di Firenze)

1. Con la sentenza resa il 16 novembre 2021 (v. Governor of Cloverhill Prison), la Grande Sezione della Corte di giustizia ha avuto modo di affrontare una delicata questione collegata all’esecuzione di mandati d’arresto europei (MAE) emessi da parte di autorità giudiziarie britanniche nella fase di transizione successiva alla notifica da parte del Regno Unito della volontà di recedere dall’Unione europea e anteriore al recesso.

Problemi analoghi, in realtà, si erano già posti in passato e, in quell’occasione, la Corte di giustizia aveva chiarito che la notifica della volontà di recedere dall’Unione ex art. 50 TUE non ha l’effetto di sospendere l’applicazione del diritto dell’Unione nello Stato membro notificante e che, di conseguenza, il diritto dell’Unione, compresa la decisione quadro 2002/584/GAI, rimane in vigore e continua a essere applicato nello Stato in questione fino all’avvenuto recesso (v. RO).

Tuttavia, la sentenza qui considerata è di particolare rilievo perché i difensori dei destinatari dei MAE avevano sostenuto, dinanzi alla Corte Suprema d’Irlanda, che, nonostante alcune previsioni appositamente inserite nell’Accordo di recesso e nell’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (ASCC) al fine di mantenere in vigore il sistema del MAE fino a che non fosse entrato a regime il nuovo meccanismo di consegna previsto dal secondo di tali accordi, dette disposizioni non sarebbero state vincolanti nei confronti dell’Irlanda.

Ciò in quanto le basi giuridiche dei due accordi – rispettivamente, l’art. 50 TUE e l’art. 217 TFUE – non sarebbero idonee a permettere interventi nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A tal fine, sarebbe stato necessario richiamare anche l’art. 82 TFUE, relativo alla cooperazione giudiziaria in materia penale e, in particolar modo, al reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie penali. Questo avrebbe implicato l’applicazione del protocollo n. 21 al Trattato di Lisbona, che definisce uno status particolare (opt-out) per quel che attiene la partecipazione dell’Irlanda allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

Fornite alcune rapide indicazioni relative alla disciplina del MAE nel contesto dei due accordi e al protocollo n. 21, si passerà a illustrare la pronuncia della Corte di giustizia, mettendola in relazione con la giurisprudenza pregressa in materia. In seguito, si evidenzieranno due cause alle quali i giudici di Lussemburgo si sarebbero potuti richiamare per sostenere ulteriormente la loro posizione, e si svolgeranno alcune considerazioni in merito alle future relazioni tra Unione europea e Regno Unito, con riguardo alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla tutela dei diritti fondamentali che deve essere assicurata in tale ambito.

2. Con l’Accordo di recesso, approvato il 17 ottobre 2019 (sul quale, v. Fabbrini (ed) e Peers), si era previsto un periodo di transizione, compreso tra il 1 febbraio 2020 (data di entrata in vigore dell’accordo) e il 31 dicembre 2020, durante il quale il diritto dell’Unione europea avrebbe continuato ad applicarsi nei confronti del Regno Unito, producendo gli stessi effetti che esso esplica nell’Unione e negli Stati membri (artt. 126 e 127). Con specifico riferimento al MAE, si stabiliva che la procedura prevista dalla decisione quadro 2002/584/GAI si sarebbe applicata ove il ricercato fosse stato arrestato prima della scadenza del periodo di transizione ai fini dell’esecuzione di un mandato, a prescindere che l’autorità giudiziaria di esecuzione decidesse di mantenere il soggetto in stato di custodia o di rimetterlo in libertà provvisoria (art. 62, par. 1, lett. b).

Nell’ASCC (sul quale, v. ancora Fabbrini (ed) e Usherwood) è previsto un sistema di consegna modellato sul MAE, vale a dire fondato sull’emissione di decisioni giudiziarie da parte di autorità che siano organi giurisdizionali o pubblici ministeri degli Stati membri e del Regno Unito (art. 596 ss.). Si prevede altresì (art. 632) che questo meccanismo si applichi ai MAE emessi prima della fine del periodo di transizione qualora la persona ricercata non sia stata arrestata in esecuzione del mandato entro tale termine (per delle prime indicazioni sulla cooperazione giudiziaria in materia penale nell’ambito dell’accordo in parola, v. Mitsilegas e Salazar).

Venendo alla questione della base giuridica dei due accordi, nel caso dell’Accordo di recesso essa è costituita dall’art. 50.2 TUE, ai sensi del quale l’Unione negozia e conclude con lo Stato che intende recedere un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. Quanto all’ASCC, il fondamento è invece da identificarsi nell’art. 217 TFUE, che stabilisce che l’Unione possa concludere accordi di associazione con uno o più Stati terzi o con organizzazioni internazionali.

Come si diceva in precedenza, la tesi avanzata dalle difese dei destinatari dei MAE, rifugiatisi in Irlanda per sottrarsi alla giustizia britannica, è che tali basi giuridiche non avrebbero permesso l’adozione di una disciplina specificamente dedicata alla cooperazione giudiziaria in materia penale e, soprattutto, al MAE, in quanto avrebbe dovuto essere richiamato anche l’art. 82 TFUE, in particolare il par. 1, secondo comma, lett. d), di detta disposizione.

Come noto, la cooperazione giudiziaria in materia penale rientra nell’ambito di competenza dell’Unione relativo allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Il protocollo n. 21 al Trattato di Lisbona, le cui previsioni riguardavano originariamente anche il Regno Unito, stabilisce che l’Irlanda non partecipa all’adozione da parte del Consiglio delle misure proposte a norma della parte terza, titolo V del TFUE, in materia – appunto – di spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Di conseguenza, nessuna misura assunta sulla base di tale titolo, nessuna disposizione di accordi internazionali conclusi dall’Unione sul fondamento di tale titolo e nessuna decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’interpretazione di queste misure e disposizioni è vincolante o applicabile all’Irlanda a meno che, entro tre mesi dalla presentazione di una proposta o un’iniziativa al Consiglio a norma del titolo V, l’Irlanda non notifichi la propria volontà di partecipare alla misura proposta o che, anche successivamente all’adozione di detta misura, l’Irlanda esprima una simile volontà.

È stato così definito un meccanismo di opt-out che, a prima vista, può essere inteso come espressivo di un’opposizione al raggiungimento di una più profonda integrazione tra gli Stati membri dell’Unione e di un’impostazione di carattere strenuamente intergovernativo. In termini di natura generale, si tratta indubbiamente di uno dei molteplici elementi che vanno a comporre la complicata galassia dell’integrazione differenziata quale fenomeno che permette agli Stati membri di definire l’intensità del loro coinvolgimento nelle politiche comuni dell’Unione (tra le pubblicazioni più recenti sul tema dell’integrazione differenziata, v. Pistoia e Miglio). Eppure, a una più attenta analisi, si può notare come uno strumento del genere abbia in realtà favorito il coinvolgimento di Stati membri che, altrimenti, sarebbero stati restii a partecipare all’adozione di atti relativi a settori politicamente sensibili, come per esempio negli ambiti della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia (in questo senso, v. Montaldo; quanto agli atti a cui partecipa l’Irlanda, v. qui).

Sul punto, è stato comunque rilevato che il protocollo definisce una deroga e, pertanto, deve essere oggetto di un’interpretazione restrittiva. In particolare, va esclusa la possibilità che esso permetta di rimettere alla discrezionalità dello Stato munito di opt-out la partecipazione a misure relative ad ambiti del diritto dell’Unione diversi dallo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, quali il mercato interno e l’associazione di Stati terzi (v. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott in Regno Unito / Consiglio (C-431/11)) o la politica commerciale comune (v. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott in Commissione / Consiglio (C-137/12)).

3. Alla luce di tale contesto normativo, con il proprio rinvio pregiudiziale la Corte suprema irlandese ha chiesto se le disposizioni sul mantenimento del regime del MAE nei confronti del Regno Unito durante il periodo di transizione (quanto all’Accordo di recesso) e dopo il periodo di transizione (quanto all’ASCC) siano vincolanti nei confronti dell’Irlanda.

Il problema attiene all’individuazione della corretta base giuridica per la conclusione degli accordi in questione. Si tratta di un tema nient’affatto nuovo per la Corte di giustizia, che ha già avuto modo di affermare ripetutamente che la scelta della base giuridica di un atto dell’Unione deve fondarsi su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale, quali lo scopo e il contenuto di tale atto. Nel caso in cui l’atto miri a realizzare una duplice finalità o possieda una duplice componente, si tratta di stabilire se una di esse sia identificabile come principale. Ove sia così, l’atto deve fondarsi solamente sulla base giuridica relativa alla finalità o alla componente preponderante. Ove invece non sia possibile determinare se una delle due sia principale e l’altra accessoria, l’atto deve fondarsi sulle diverse basi giuridiche rilevanti, a meno che le procedure previste dalle rispettive norme non siano incompatibili (in generale sul tema, v. l’interessante monografia di Engel).

In una causa relativa all’impugnazione da parte della Commissione della decisione del Consiglio sulla firma della Convenzione europea sulla tutela dei servizi ad accesso condizionato e dei servizi di accesso condizionato, la Corte di giustizia ha avuto modo di valorizzare questo orientamento anche con riferimento ai protocolli, ribadendo che la base giuridica deve essere individuata tenendo conto di elementi oggettivi quali la finalità e il contenuto principali o preponderanti dell’atto e aggiungendo che, a partire da questo, si definiscono i protocolli eventualmente applicabili (v. Commissione / Consiglio (C-137/12)). Ulteriori conferme di tale lettura si sono avute in molteplici occasioni (v. Regno Unito / Consiglio (C-656/11), Regno Unito / Consiglio (C-81/13) e Accord de libre-échange avec Singapour). Allora, l’identificazione della base giuridica prescinde dalla considerazione del protocollo. È infatti la base giuridica che determina l’eventuale applicazione del protocollo, e non, viceversa, la considerazione del protocollo a comportare la scelta della base giuridica.

Quest’impostazione è stata confermata nella sentenza Governor of Cloverhill Prison, per quanto attiene sia alla base giuridica, sia all’applicabilità del protocollo n. 21. Con riferimento al primo tema, la Corte sottolinea che l’art. 50 TUE, base giuridica dell’Accordo di recesso, attribuisce esclusivamente all’Unione europea la competenza a negoziare e concludere un accordo del genere, così da assicurare che il recesso si svolga in maniera ordinata, disciplinando tutte le questioni che possono assumere rilievo in un contesto di certamente problematica gestione come quello che scaturisce dalla decisione di uno Stato di non fare più parte dell’Unione. Dunque, l’art. 50 TUE era ed è senza dubbio idoneo a fungere da base giuridica per l’Accordo di recesso. L’eventuale aggiunta dell’art. 82 TFUE sarebbe stata fonte di confusione e incertezze ai fini della cooperazione giudiziaria in materia penale. L’Irlanda, infatti, partecipava già al sistema del MAE anche nei rapporti con il Regno Unito. Ammettere l’applicabilità del protocollo n. 21 in forza del riferimento a quell’ulteriore base giuridica avrebbe potuto condurre alla conclusione che, in realtà, l’Irlanda non fosse parte del meccanismo di consegna definito dal diritto dell’Unione.

Quanto all’ASCC e all’art. 217 TFUE, i giudici di Lussemburgo rilevano che, in generale, è stato ammesso che l’articolo in questione conferisca all’Unione la competenza ad assumere impegni nei confronti di Stati terzi in tutti i settori di sua competenza. È vero che è stato altresì riconosciuto che l’adozione di un atto nell’ambito di un accordo di associazione è soggetta a una condizione: che tale atto attenga a un settore di competenza dell’Unione e si fondi anche sulla base giuridica relativa a detto settore (v. la già citata sentenza Regno Unito / Consiglio (C-81/13)). Tuttavia, ciò è stato affermato in relazione non alla conclusione di un accordo internazionale, bensì all’adozione di un atto nel contesto di un organo creato da un simile accordo. Tale dato non riveste allora alcun pregio ai fini della questione pregiudiziale sollevata, come anche il richiamo alla giurisprudenza che ammette la pluralità di basi giuridiche in presenza di più finalità nessuna delle quali sia accessoria rispetto all’altra. Se non fosse così, infatti, si giungerebbe all’esito paradossale di dover richiamare ogni volta tutte le basi giuridiche rilevanti, svuotando di contenuto l’art. 217.

Pertanto, le basi giuridiche dei due accordi sono state correttamente identificate e il protocollo n. 21 non è applicabile.

Si ritiene opportuno ricordare che l’Avvocato generale Kokott, nelle proprie conclusioni, ha ritenuto che non possa valorizzarsi ai fini della causa in discussione il fatto che l’Avvocato generale Hogan, nelle conclusioni presentate con riferimento alla richiesta di parere relativa all’adesione dell’Unione alla Convenzione di Istanbul, abbia ammesso che la firma dell’Unione implichi l’esercizio di competenze inerenti allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. L’Avvocato generale ha rilevato che si tratta di un accordo di tutt’altro tipo, le cui peculiarità giustificano la scelta di una diversa base giuridica (v. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott in Governor of Cloverhill Prison). Pur non essendo offerte ulteriori spiegazioni sul punto – le quali sarebbero state di certo utili –, può ritenersi che l’affermazione dell’Avvocato generale si fondi sul fatto che la Convenzione di Istanbul mira a introdurre una disciplina riconducibile a un singolo, specifico tema (prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), pur declinato con riferimento ai diversi aspetti giuridici che possono assumere rilievo di volta in volta (per esempio, di carattere penalistico e processualpenalistico). Le decisioni adottate dal Consiglio circa la firma della Convenzione da parte dell’Unione (v. decisione (UE) 2017/865 e decisione (UE) 2017/866) si fondano allora, rispettivamente, sugli artt. 82 e 83 TFUE (con riferimento ai profili di cooperazione giudiziaria in materia penale) e sull’art. 78 (in relazione alle questioni dell’asilo e del non-respingimento), dato che la Convenzione, come riportato nel considerando n. 6 di entrambe le decisioni, “può incidere su norme comuni o modificarne la portata”. Nel caso degli accordi conclusi con il Regno Unito, invece, è l’insieme dei rapporti con quello Stato che deve considerarsi e gli accordi, dunque, esprimono il tentativo di elaborare una normativa applicabile con riferimento a qualsiasi tematica possa assumere rilievo, dal commercio ai trasporti, dalla tutela dell’ambiente alla partecipazione ai programmi di finanziamento dell’Unione. Dunque, come evidenziato dalla Corte, sarebbe stato illogico richiamare tutte le basi giuridiche rilevanti.

4. Come detto in precedenza, il ragionamento della Corte sulla scelta delle basi giuridiche degli accordi in questione si inserisce nel solco di un orientamento ampiamente noto e consolidato. Ad adiuvandum et confirmandum, due ulteriori cause – alle quali l’Avvocato generale Kokott fa riferimento en passant – avrebbero potuto essere utilmente considerate dalla Corte.

Può considerarsi intanto una causa inerente al ricorso d’annullamento promosso dal Parlamento europeo avverso la decisione del Consiglio relativa alla firma e alla conclusione dell’accordo tra l’Unione europea e la Repubblica di Mauritius sulle condizioni del trasferimento delle persone sospettate di atti di pirateria e dei beni sequestrati da parte della forza navale diretta dall’Unione europea alla Repubblica di Mauritius e sulle condizioni delle persone sospettate di atti di pirateria dopo il trasferimento. Tale decisione risultava fondata sugli artt. 37 TUE e 218, par. 5 e 6, TFUE. L’art. 37 TUE prevede che l’Unione possa concludere accordi con uno o più Stati od organizzazioni internazionali nei settori della PESC, mentre l’art. 218, par. 5 e 6, TFUE, definisce alcuni aspetti della procedura per la conclusione di accordi tra Unione e Stati terzi od organizzazioni internazionali. In particolar modo, al par. 6 si stabilisce, inter alia, che, tranne quando l’accordo riguardi esclusivamente la PESC, il Consiglio adotta la decisione di conclusione dell’accordo previa approvazione del Parlamento europeo per accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria oppure la procedura legislativa speciale qualora sia necessaria l’approvazione del Parlamento europeo.

A opinione del Parlamento europeo, la decisione non riguardava un accordo rilevante solo ed esclusivamente per la materia PESC e il Consiglio avrebbe dovuto adottare la decisione solo a seguito dell’approvazione del Parlamento. A sostegno di ciò, si faceva valere che l’accordo conteneva disposizioni connesse anche alla cooperazione allo sviluppo, alla cooperazione di polizia e soprattutto, per quel che qui interessa, alla cooperazione giudiziaria in materia penale relative, per esempio, all’ammissibilità delle prove, ai diritti delle persone sospettate di atti di pirateria e alla formazione di magistrati e operatori giudiziari.

Pur ritenendo tale motivo infondato, la Corte di giustizia non ha svolto particolari considerazioni quanto alla natura delle materie contemplate nell’accordo (v. Parlamento / Consiglio (C-658/11)). Più approfondite risultano invece le conclusioni dell’Avvocato generale Bot. Ad avviso di quest’ultimo, la costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia può richiedere un’azione esterna da parte dell’Unione; tuttavia, affinché si possa affermare che un accordo rientra nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è necessario «che esso presenti uno stretto collegamento con la libertà, la sicurezza e la giustizia in seno all’Unione». Tale collegamento sussiste quando si può identificare «un nesso diretto tra la finalità di sicurezza interna dell’Unione e la cooperazione giudiziaria e/o di polizia che viene sviluppata all’esterno dell’Unione», mentre un’azione dell’Unione va ricondotta alla PESC «quando il suo obiettivo sia anzitutto la pace, la stabilità e l’evoluzione democratica in una regione fuori dell’Unione» (v. conclusioni dell’Avvocato generale Bot in Parlamento europeo / Consiglio (C-658/11)).

Si può fare altresì riferimento alla causa relativa al ricorso con il quale il Parlamento europeo ha chiesto l’annullamento della decisione del Consiglio sulla firma e la conclusione dell’accordo tra Unione europea e Tanzania circa le condizioni del trasferimento delle persone sospettate di atti di pirateria e dei relativi beni sequestrati da parte della forza navale diretta dall’Unione europea alla Tanzania. Anche in questo caso il Parlamento europeo lamentava, tra l’altro, che la decisione non avrebbe dovuto essere basata solo sull’art. 37 TUE e, di conseguenza, che non avrebbe dovuto essere adottata senza l’approvazione del Parlamento stesso. Al contrario, avrebbero dovuto essere considerati anche gli artt. 82 e 87 TFUE, dedicati rispettivamente alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia, e l’adozione avrebbe dovuto essere preceduta dall’approvazione del Parlamento europeo.

Sul punto, la Corte rileva che alcune delle previsioni poste dall’accordo paiono riguardare i due settori ora menzionati, ove separatamente considerate. Tuttavia, «il fatto che talune disposizioni di detto accordo, considerate isolatamente, assomiglino a norme che possono essere adottate in un settore di azione dell’Unione non è di per sé sufficiente a individuare la base giuridica adeguata della decisione impugnata», in quanto l’accordo è diretto a rafforzare la cooperazione internazionale in materia di repressione degli atti di pirateria (v. Parlamento / Consiglio (C-263/14)).

Al riguardo, la Corte richiama le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott, secondo cui l’accordo contiene diverse disposizioni che, a prima vista, paiono riconducibili alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia, dato che attengono al trasferimento di persone e beni al fine dell’azione giudiziaria e dei diritti delle persone trasferite. Dunque, un elemento di affinità rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia è sicuramente presente. Questo però non è dirimente. La cooperazione tra Unione e Tanzania è funzionale a incrementare la sicurezza internazionale e a questa finalità si ricollegano quelle previsioni. Pertanto, il richiamo all’art. 82 TFUE – e all’art. 87, quanto alla cooperazione di polizia – non serve, mancando un nesso sufficiente con lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (v. conclusioni dell’Avvocato generale Kokott in Parlamento / Consiglio (C-263/14)).

Alla luce anche di queste pronunce, può ritenersi che, per identificare la o le finalità perseguita da un accordo e, di conseguenza, la corretta base giuridica, non si deve procedere a una parcellizzazione teleologica fondata sulla considerazione – per così dire – atomistica di una singola previsione o di un gruppo di previsioni. Al contrario, deve adottarsi un’interpretazione sistematica, attraverso cui valutare l’accordo nel suo complesso.

5. Nella sentenza Governor of Cloverhill Prison, la Corte di giustizia ha escluso, per le ragioni sopra esposte, che le basi giuridiche dell’accordo di recesso e dell’ASCC fossero erronee. È stata così confermata la validità dell’Accordo di recesso e dell’ASCC (v. Buchta).

È stato comunque rilevato da uno dei primi commentatori della sentenza che le speranze dei soggetti ricercati non potevano che essere scarse. Infatti, nell’improbabile ipotesi in cui la Corte avesse ritenuto che anche l’art. 82 TFUE dovesse essere considerato quale base giuridica e che l’Irlanda dovesse manifestare la volontà di partecipare ai sensi del protocollo n. 21, i giudici di Lussemburgo avrebbero verosimilmente fatto salvi gli effetti della disciplina in materia di estradizione fino a che essa non fosse stata ridefinita sulla base del corretto fondamento normativo e l’Irlanda non avesse aderito (in questo senso Peers).

Così, i MAE emessi dal Regno Unito nel caso concreto possono essere portati a esecuzione. Di conseguenza, i destinatari non possono sottrarsi alla consegna alle autorità britanniche e qualunque ulteriore situazione di questo tipo venga a porsi in futuro in relazione a MAE già emessi verrà risolta nello stesso modo. Tutto ciò si deve all’interpretazione della Corte di giustizia, l’istituzione che, dal punto di vista dei Brexiteers, maggiormente minava la sovranità britannica (v. Engel; sul ruolo della Corte di giustizia nel contesto della Brexit, v. Baudenbacher e Casolari).

Ciò non toglie che i mandati d’arresto che verranno emessi in futuro da parte del Regno Unito potranno essere fatti oggetto di ulteriori contestazioni, non tanto per quel che attiene alla base giuridica degli accordi – nello specifico, dell’ASCC –, ma con riferimento alla tutela dei diritti fondamentali. Con questo, ovviamente, non intende dirsi che, a seguito del recesso, si verificherà un democratic backsliding nel Regno Unito: al momento, non vi è ragione per ritenerlo. Tuttavia, può essere che gli standard adottati dal Regno Unito circa la protezione dei diritti fondamentali non saranno più pienamente coerenti con quelli definiti dall’Unione europea. Del resto, già quando il Regno Unito era uno Stato membro, si era registrata una situazione altamente problematica, connessa alla normativa britannica in materia di conservazione e accesso ai dati riguardanti servizi postali o di telecomunicazione. Nella sentenza Tele2 Sverige, la Corte di giustizia ha affermato che, pur essendo rimesso ai giudici nazionali il compito di verificare se la disciplina di diritto interno rispetti le prescrizioni di diritto dell’Unione in materia, il diritto dell’Unione osta a una normativa nazionale che non limiti l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati in questione alle sole finalità di lotta contro la criminalità grave, senza sottoporre l’accesso a un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente e senza esigere che i dati siano conservati nel territorio dell’Unione. Quindi, questioni relative al diverso modo di intendere la tutela dei diritti fondamentali nel passaggio da un lato all’altro del canale della Manica possono e potranno sicuramente porsi.

Giova allora ricordare quanto affermato dalla Corte di giustizia nella già menzionata sentenza RO. In quell’occasione, pur confermando che l’esecuzione dei MAE provenienti dal Regno Unito non potesse essere negata solo per il fatto che fosse stata notificata la volontà di recedere dall’Unione, la Corte mise in evidenza che comunque «spetta ancora all’autorità giudiziaria di esecuzione verificare se sussistano ragioni serie e comprovate di ritenere che, dopo il recesso dall’Unione dello Stato membro emittente, la persona oggetto di tale mandato d’arresto rischi di essere privata dei diritti fondamentali» in esito alla consegna.

Quindi, i MAE emessi dal Regno Unito durante il periodo di transizione dovranno ancora essere conformi agli standard di tutela dei diritti fondamentali risultanti dall’interpretazione della Corte di giustizia. Lo stesso varrà per i mandati emessi successivamente sulla base del meccanismo previsto dall’ASCC. Questo perché, a partire dalla sentenza Petruhhin, la Corte ha riconosciuto che l’autorità di uno Stato membro che riceva una richiesta di estradizione da parte di uno Stato terzo deve valutare se sussista un rischio concreto di violazione dei diritti fondamentali nello Stato terzo richiedente.

Dunque, anche nel caso dei mandati provenienti dal Regno Unito, spetterà agli Stati membri stabilire se l’estradizione non rechi pregiudizio ai diritti fondamentali secondo le indicazioni fornite dalla Corte di Lussemburgo (v. quanto già sostenuto in Rosanò).

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