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La postura non intrusiva della sentenza Randstad

Roberto Baratta (Università di Roma Tre)

1. Nella sentenza Randstad (21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad Italia SpA) la Corte di giustizia si è pronunciata in via pregiudiziale su una singolare distonia tra giurisdizioni apicali dell’ordinamento italiano, assimilata da alcuni a un conflitto tra corti (Bin, p. 10; Sassani, De Santis). Dialoghi difficili e tortuosi tra Corti, sovente per affermare la rispettiva primazia giudiziaria, sono peraltro possibili nell’intersezione tra fonti normative di ordinamenti diversi, come mostrano le note frizioni tra Corte costituzionale e Corte internazionale di giustizia nella celebre controversia tra Italia e Germania, o ancora tra la stessa Consulta e la Corte europea dei diritti dell’uomo (in argomento v. di recente il volume collettaneo Il diritto internazionale ed europeo nei giudizi interni (a cura di Palmisano), p. 445 ss.) ovvero tra la Corte di giustizia, da un lato, e la Corte costituzionale italiana nella vicenda Taricco/MAS o la Corte costituzionale tedesca nel caso Weiss, o la Corte suprema danese nel caso Dansk Industri, ovvero ancora, più recentemente, le Corti costituzionali rumena e polacca (rispettivamente, nelle sentenze n. 390 dell’8 giugno 2021 e K 3/21 del 7 ottobre 2021), dall’altro. Divergenze (egualmente dovute all’applicazione del diritto europeo) si verificano anche tra organi di una stessa giurisdizione nazionale come nei casi Puligienica e Vitali (di cui infra), entrambe deferite alla Corte di giustizia.

2. Nella fattispecie la distonia tra giudici apicali era palese. La Corte di cassazione, a sezioni unite, con ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598, aveva infatti chiesto ai giudici di Lussemburgo se fosse compatibile con il diritto dell’Unione la non censurabilità in cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato rese in violazione di disposizioni europee in materia di contratti pubblici (appalti e concessioni). La non esperibilità del ricorso per cassazione era stata imposta da una decisione della Corte costituzionale (18 gennaio 2018, n. 6, resa sulle orme della storica sentenza n. 4/2004, che si riferì ai lavori dell’Assemblea costituente per precisare l’assetto costituzionale pluralistico del sistema giudiziario). Secondo tale decisione la violazione del diritto dell’Unione (e, ciò che è forse più preoccupante, anche della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) non concerne i «motivi inerenti alla giurisdizione» e non è pertanto censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost.

L’ordinanza di rinvio prefigurava quindi il superamento della sentenza della Consulta e si presentava, per alcuni osservatori, come una richiesta di autorizzazione a disobbedirle tramite l’espediente del primato del diritto dell’Unione (sull’ordinanza v. tra gli altri Barbareschi, Caruso, p. 1 ss.; Greco, p. 73 ss.; Caravita, p. 21; e il volume collettaneo Limiti esterni alla giurisdizione e diritto europeo, a cura di Carratta).

Sul piano dei rapporti tra diritto interno e ordinamento sovranazionale, l’ordinanza di rinvio si muoveva in una logica, per così dire, di complementarità o di reciproca osmosi dei due sistemi che può influenzare l’interpretazione (anche) di norme costituzionali; soprattutto, l’ordinanza intendeva ridurre le ipotesi di giudicati resi in violazione del diritto dell’Unione (e della CEDU). In fondo, non è irragionevole assumere che gli organi interni debbano adoperarsi per evitare che lo Stato incorra in violazioni di obblighi internazionali o europei (Baratta, p. 167 ss.). In effetti, la Corte di cassazione in alcuni, seppure non frequentissimi, precedenti (Sandulli, p. 1 ss.) aveva sostenuto che l’eccesso di potere giudiziario desse luogo a un difetto di giurisdizione destinato a prodursi inter alia qualora il giudice amministrativo eserciti poteri di cui sia in realtà privo, oltrepassando i limiti delle proprie attribuzioni, a detrimento delle competenze che i Trattati riservano alla Corte di giustizia. Il superamento dei limiti esterni alla iurisdictio dei giudici amministrativi era pertanto equiparato dalla Corte di cassazione a un vizio della pronuncia inerente all’esercizio della stessa iurisdictio (cfr. Cass., Sez. Un., 6 febbraio 2015 n. 2242, in Foro it., 2016, I, 327; e 29 dicembre 2017 n. 31226, in Foro it., 2018, I, 1709). Come accennato, questo circoscritto filone giurisprudenziale (sostenuto con interessanti argomentazioni dalla dottrina processualistica: Costantino, Caratta, Ruffini), era stato invece rigettato dal giudice delle leggi nel 2018.

3. La sentenza Randstad non ha seguito il percorso suggerito dalla Corte di cassazione. I giudici di Lussemburgo, entrando nel merito di uno soltanto dei nodi posti dall’ordinanza di rinvio, hanno certamente riconosciuto che nella fattispecieil Consiglio di Stato avesse violato il diritto dell’Unione (sentenza Randstad, in particolare, punti 71 e 77). Mi riferisco all’orientamento per cui il medesimo Consiglio di Stato, anche nella vicenda Randstad,aveva limitato l’esame del ricorso alle doglianze relative a una certa soglia di sbarramento prevista dalla lex specialis di gara – soglia che non stata era superata dalla ricorrente, secondo le valutazioni della commissione aggiudicatrice della procedura di appalto. Riguardo invece ai motivi di ricorso concernenti il bando e l’aggiudicazione ad altro offerente, la suprema giurisdizione amministrativa li aveva considerati inammissibili in punto di rito e, di conseguenza, non li aveva esaminati nel merito, in accoglimento delle eccezioni dedotte nel ricorso incidentale escludente presentato dal controinteressato aggiudicatario della gara. Invero, secondo un chiaro indirizzo del Consiglio di Stato, «qualora il ricorso incidentale abbia la finalità di contestare la legittimazione al ricorso principale, il suo esame assume carattere necessariamente pregiudiziale e la sua accertata fondatezza preclude, al giudice, l’esame del merito delle domande proposte dal ricorrente principale» (v. Adunanza plenaria del 25 febbraio 2014 n. 9, p. 34). In questa ricostruzione, il ricorrente estromesso è soltanto portatore di un interesse di mero fatto, non molto diverso da quello di qualunque altro operatore economico del settore che abbia deciso di non partecipare alla gara.

Per contro, l’accesso al giudice statale, in applicazione della direttiva 89/665 (c.d. direttiva ricorsi, applicabile in materia di appalti e concessioni pubbliche), è assai più esteso. L’art. 1 della direttiva impone agli Stati membri di predisporre procedure di «ricorso efficac[i]», in caso di «presunta violazione» (si noti, presunta, non effettiva) delle norme europee o delle norme nazionali di recepimento (cfr. il congiunto disposto dell’art. 1, par. 1, comma 3 e dell’art. 1, par. 3 della direttiva ricorsi). Si tratta di disposizione considerata produttiva di effetto diretto perché incondizionata e sufficientemente precisa, intesa ad attribuire il diritto di accedere al giudice statale, invocabile nei confronti dell’amministrazione aggiudicatrice (sentenze 2 giugno 2005, Koppensteiner, C‑15/04, punto 38; e 5 aprile 2017, Marina del Mediterraneo SL, C-391/15, punti 39-41). Ai fini della ricevibilità del ricorso avverso una gara pubblica è sufficiente la mera possibilità che l’amministrazione aggiudicatrice, in caso di accoglimento del ricorso, sia costretta a ripetere la procedura di gara. In breve, il locus standi è subordinato a un duplice requisito: i) l’interesse a ottenere l’aggiudicazione di una determinata gara, anche tramite annullamento della procedura e conseguente rinnovazione; e ii) la violazione reale o soltanto potenziale della normativa europea applicabile o delle corrispondenti norme interne di attuazione (sentenze 21 ottobre 2010, Simvoulio, C-570/08, punto 37; 5 aprile 2016, Puligienica, C-689/13, punto 23; 21 dicembre 2016, C-355/15, Bietergemeinschaft, punto 28; 5 settembre 2019, Lombardi, C-333/18, punto 22; 26 marzo 2020, Hungeod, C-496/18, punto 71). Ciò è in linea con le finalità della suddetta direttiva ricorsi, che ha inteso rafforzare i meccanismi interni a garanzia dell’applicazione effettiva del diritto europeo in materia di aggiudicazione di gare pubbliche, in particolare qualora le violazioni dello stesso diritto possano essere corrette per via giudiziaria (sentenza Marina del Mediterraneo SL, cit., punto 30). La ratio sottostante a una nozione così estesa di titolarità dell’azione risiede essenzialmente nel ravvisarne l’utilità fintanto che sia possibile porre rimedio alle eventuali violazioni del diritto da parte dell’amministrazione aggiudicatrice (sentenza Hungeod, cit., punto 72). La giurisprudenza della Corte di giustizia, in ragione del principio generale della certezza del diritto, sottrae ai rimedi giudiziari interni soltanto le gare rispetto alle quali siano decorsi i termini di decadenza dall’azione (sentenza Hungeod, cit., punti 88 ss.) e, per ragioni identiche, le situazioni in cui si sia formato un giudicato statale che abbia definitivamente escluso l’offerente dalla procedura di aggiudicazione (sentenze 11 maggio 2017, C-131/16, Archus e Gama, punto 57; Lombardi, cit., punti 31-32). È forse utile aggiungere che, in una recentissima sentenza in materia di prosecuzione di un rapporto concessorio, la Corte di giustizia ha compiuto un ulteriore passo in chiave estensiva: la tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive di un ricorrente ai sensi della direttiva 89/665 sussiste anche quando il medesimo ricorrente non abbia partecipato alla gara iniziale. In pratica, ai fini della legittimazione ad agire, questi non è neppure tenuto a dimostrare che avrebbe partecipato a una nuova procedura di aggiudicazione, perché una mera eventualità del genere è sufficiente a garantirgli il diritto di agire in giudizio (sentenza 2 settembre 2021, cause riunite C-721/19 e C-722/19, Sisal, punti 56 ss., in part. 63). In questa prospettiva, si direbbe che la direttiva ricorsi tuteli il mero interesse a verificare la conformità a diritto dell’atto dell’amministrazione.

4. L’evidente divergenza tra le due impostazioni appena menzionate non poteva non condurre la Corte di giustizia a rilevare la difformità dell’orientamento della suprema giurisdizione amministrativa con la direttiva ricorsi (e relativi precedenti giurisprudenziali). In Randstad – a giudizio della Corte di giustizia – il Consiglio di Stato ha vanificato il principio dell’accesso al giudice previsto dalla direttiva 89/665 che, a sua volta, è parte integrante del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva dei singoli (art. 19, par. 1, comma 2 TUE). Ciò nonostante, secondo i giudici di Lussemburgo, considerato che risultano soddisfatti i requisiti dell’effettività e dell’equivalenza che caratterizzano e limitano l’autonomia procedurale riconosciuta agli Stati membri, il sistema italiano di giustizia amministrativa, pur privato dell’accesso al giudizio di cassazione, esprime, in astratto almeno, un assetto normativo coerente con il principio della tutela giurisdizionale effettiva (punti 55 a 65, sentenza Randstad). Né il principio di leale cooperazione (art. 4, par. 3 TUE), né la direttiva 89/665, letta alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, impongono di superare, nelle circostanze del caso Randstad, le eventuali valutazioni erronee della suprema giurisdizione amministrativa tramite un ulteriore grado di giurisdizione che – a differenza dell’impostazione suggerita dal giudice rimettente – non è richiesta dal diritto sovranazionale (punti 66 a 70 sentenza Randstad). In definitiva, l’ordinamento dell’Unione non impone agli Stati membri di istituire un terzo grado di giudizio (Nascimbene, Piva). Così è, sostiene la Corte di giustizia, anche quando i giudici amministrativi, dichiarando irricevibile un ricorso giurisdizionale (avverso l’aggiudicazione di un appalto) nelle specifiche circostanze della vicenda processuale, abbiano pregiudicato il diritto a un rimedio effettivo (v. punto 78, sentenza Randstad).

5. Ne consegue – atteso l’orientamento restrittivo della Corte costituzionale definito nella sentenza n. 6/2018 – che l’unica forma di tutela accessibile ai singoli è costituita dal rimedio pretorio, indiretto e per equivalente, della responsabilità aquiliana dello Stato membro (punto 80, sentenza Randstad), ove ne ricorrano i presupposti, alquanto restrittivi, stabiliti nella giurisprudenza  (sentenze 30 settembre 2003, Köbler, C‑224/01, punto 59; 24 ottobre 2018, XC e altri, C‑234/17, punto 58; 4 marzo 2020, Telecom Italia, C‑34/19, punti 67-69). Tale rimedio è applicabile, come è noto, anche qualora all’origine della violazione vi sia lacondotta di un giudice nazionale di ultimo grado, purché la norma dell’Unione sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra violazione e danno cagionato alle parti lese. Si consideri tuttavia che la Corte di giustizia ha limitato la responsabilità dello Stato all’ipotesi di violazione manifesta del diritto dell’Unione, quando cioè il giudice nazionale di ultima istanza disponga della corretta interpretazione giurisprudenziale delle norme controverse e, ciò nonostante, se ne sia discostato senza procedere al rinvio pregiudiziale cui, in tale veste, è in principio obbligato. In altri termini, gli Stati membri sono tenuti a risarcire il danno in caso di grave violazione del diritto dell’Unione consistente nel fatto che i giudici nazionali, in modo serio e manifesto, abbiano adottato condotte difformi dalla sfera di discrezionalità loro concessa. Ora, nel quadro di un simile schema interpretativo, fondato su espressioni tecnico-giuridiche indeterminate (la gravità, la serietà, il carattere manifesto della violazione), è prospettabile che gli errori giudiziari possano essere giustificati ex post nel giudizio di risarcimento, così da comprimere il principio della responsabilità statale quando un giudice nazionale sia chiamato a giudicare la condotta commissiva o omissiva di altro giudice. Considerazioni di eccessiva deferenza per i giudici di rango superiore possono radicarsi negli ordinamenti interni e ciò, a mio avviso, sarebbe difficilmente conciliabile con il diritto a rimedi giurisdizionali effettivi ai sensi dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali e delle puntuali disposizioni della direttiva ricorsi. In altri termini, l’idoneità dello strumento della responsabilità aquiliana dello Stato per atto dei suoi giudici è dubbia per le condizioni restrittive previste dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che ben possono rendere estremamente difficile conseguire il risarcimento del danno. Inoltre, su un piano generale, la monetizzazione dell’acquis violato (la tutela risarcitoria) non garantisce, se non in via indiretta, la tenuta in giudizio del diritto dell’Unione, dando comunque luogo a distorsioni in un settore delicato del mercato interno, qual è la materia dei contratti pubblici.

6. Tali profili non sono stati valutati dalla Corte di giustizia, la quale non si è intromessa nell’assetto costituzionale pluralistico del sistema giudiziario italiano fondato sull’autonomia della giustizia amministrativa (in linea con le conclusioni dell’Avvocato generale Hogan, il quale peraltro ha auspicato che la Corte riveda in futuro in senso più esteso la giurisprudenza sulla responsabilità risarcitoria dello Stato).

Risultano così fugati almeno i dubbi che l’ordinanza di rinvio pregiudiziale aveva generato in alcuni osservatori che vi intravedevano rischi di dissoluzione della stessa giustizia amministrativa. A mio avviso, la Corte non avrebbe potuto assumere una postura così invasiva, perché l’ordinamento dell’Unione, da un lato, poggia su un rapporto di complementarietà necessaria con gli ordinamenti nazionali e i relativi sistemi giudiziari, senza i quali non potrebbe funzionare; e, dall’altro, perché non rientra tra le competenze della Corte di giustizia sindacare i consolidati assetti costituzionali degli ordinamenti giudiziari degli Stati membri (sulla portata dell’art. 111, comma 8 Cost., v. anche per ulteriori riferimenti Francario, nel volume Limiti esterni, cit., p. 79 ss). D’altra parte, la cautela della sentenza Randstad può forse spiegarsi anche con l’intendimento di non generare ulteriori attriti con la Corte costituzionale e di non alimentare scenari di controlimiti, suggeriti in dottrina ove la decisione della Corte avesse interferito con l’ordine costituzionale (cfr. Tropea, p. 10).

7. L’unica concessione della sentenza Randstad in punto di effettività del diritto dell’Unione è racchiusa nel passaggio in cui la Corte ricorda in termini generali che il principio del primato obbliga i giudici nazionali a disapplicare la disposizione interna confliggente, ancorché di rango costituzionale o frutto dell’interpretazione di un giudice nazionale superiore (punto 54, sentenza Randstad). Ne segue che i Tribunali amministrativi regionali in futuro dovranno condursi come fece in primo grado il TAR Valle d’Aosta che esaminò nel merito, respingendole, tutte le eccezioni sollevate dalla ricorrente, incluse quelle relative al bando di gara e all’assegnazione dell’appalto ad altro offerente, rigettando così le eccezioni di irricevibilità sollevate dai controinteressati (poi invece erroneamente accolte in appello dal supremo giudice amministrativo, come si desume dalla lettura dell’ordinanza di rinvio della Corte di cassazione).

8. Infine, ci si può interrogare sulla portata della sentenza Randstad. Sarà possibile, in altri termini, invocare il diritto dell’Unione a fronte di gravi violazioni dello stesso (o di denegata giustizia) al fine di correggere in cassazione casi di manifesta erronea applicazione della normativa europea sui contratti pubblici in cui sia eventualmente incorso il giudice amministrativo? Si pensi a eventuali sentenze rese in evidente contrasto con precedenti della Corte di giustizia o a casi di mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in presenza di ragionevoli dubbi interpretativi (che poi era uno dei profili centrali del secondo quesito, sul quale tuttavia la Corte di giustizia non si è pronunciata, poiché giudicato irrilevante, e dunque irricevibile, ai fini della controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio: punti 83 a 85 della sentenza). Poiché – come si è visto – la Corte di giustizia ha ritenuto coerente con il diritto dell’Unione l’assetto del sistema giudiziario interno, la questione del ricorso in cassazione ex art. 111, comma 8 Cost., resta ormai nella sola disponibilità dei giudici nazionali (in primis, della Consulta) che potrebbero in futuro aprire le maglie del rimedio a casi di errori abnormi del giudice amministrativo, assimilandoli al “difetto relativo di giurisdizione” (Corte cost. n. 6/2018, par. 15 parte in diritto) per negazione della potestas iudicandi.

Con ciò non intendo dire, sul versante dell’Unione, che nuovi rinvii pregiudiziali non siano teoricamente prospettabili in circostanze processuali diverse da quelle dedotte dal giudice di rinvio o per profili diversi non sollevati in precedenza (cfr. il rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato nella causa C-261/21, Hoffman La Roche, concernente per lo più il rimedio della revocazione della sentenza resa in violazione del diritto dell’Unione – rimedio che genera problemi in materia di appalti se la sentenza di revocazione interviene a distanza di anni dall’assegnazione della gara e conseguente esecuzione dell’opera o della prestazione del servizio).

Difficilmente, tuttavia, la Corte di giustizia modificherà l’esito della sentenza Randstad. Eventuali errori abnormi del giudice nazionale dovranno, dunque, essere oggetto della sola monetizzazione dell’acquis violato. Si tratterà comunque – direi – di casi eccezionali, dato il livello di preparazione dei giudici amministrativi e l’aumento negli ultimi anni dei rinvii pregiudiziali da parte del Consiglio di Stato, sebbene il passato abbia talvolta mostrato esiti processuali di dubbia coerenza con l’appartenenza all’Unione. Ricordo, ad esempio, che il Consiglio di Stato sez. V, 8 agosto 2005 n. 4207 (Foro it., 2008, III, 188 ss.), disattese la dottrina del primato, sostenne che i “controlimiti” implicavano l’esistenza di sfere di sovranità nazionali immuni da interferenze dell’acquis nelle quali lo Stato rimane completamente sovrano e, per questi motivi, pur richiesto, rifiutò di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia questioni pregiudiziali.

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