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La crisi del Nicaragua e il ruolo dell’Organizzazione degli Stati Americani: il difficile equilibrio fra politica, democrazia e diritti umani

Mattia Colli Vignarelli, Università di Torino

1. Introduzione

Il 18 novembre 2021 il Ministro degli Esteri della Repubblica del Nicaragua Denis Moncada Colindres ha notificato per iscritto al Segretario Generale (SG) dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), la decisione dello Stato di avviare la procedura per il recesso dall’Organizzazione (MRE/DM/00284/11/21), che avrà effetto a due anni dalla notifica, fatte salve le disposizioni dell’art. 143 della Carta OAS (di cui si dirà più avanti).

La decisione si inserisce nella vicenda politico-diplomatica che vede scontrarsi il Governo dello Stato centramericano e l’OAS, costituendo la diretta conseguenza della Risoluzione di quest’ultima organizzazione sulla Situazione del Nicaragua, approvata il 12 novembre dall’Assemblea generale con il voto favorevole di 25 Stati, 7 astenuti e il solo voto contrario dello stesso Nicaragua. L’Assemblea aveva infatti dichiarato la ‘illegittimità democratica’ delle elezioni nicaraguensi del 7 novembre, chiedendo inoltre un «collective assessment» della situazione da parte del Consiglio Permanente dell’Organizzazione (si veda (AG/RES. 2978 (LI-O/21)) che si è risolto, per il momento, nella riaffermazione degli impegni diplomatici nei confronti del Nicaragua, affinché lo Stato torni a rispettare gli obblighi derivanti dalla Carta Interamericana dei Diritti Umani  (si veda CP/RES. 1188 (2355/21)).

La posizione espressa dall’OAS sulle elezioni in Nicaragua coincide con quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, a cui si oppongono al momento le prese di posizione di Russia, Bolivia, Cuba, oltre che del Venezuela, che peraltro (come si vedrà, pur essendo stato nel 2017, su decisione del Governo Maduro, il primo Stato ad avviare la procedura per il recesso dall’Organizzazione) è parallelamente rappresentato nell’OAS da una delegazione inviata dall’autoproclamato Presidente ad interim Juan Guaidó (si vedano Pasquet e Pertile sul SIDIBlog), ufficialmente riconosciuto dall’Organizzazione.

Oltre ad analizzare i punti più significativi della nota del 18 ottobre, il presente contributo intende inquadrare l’atto nel più ampio contesto della crisi nicaraguense, a cominciare dalla repressione del dissenso seguita alle proteste antigovernative del 2018 per giungere ai mesi precedenti le elezioni, caratterizzati dall’arresto di oppositori e candidati politici, nonché da numerose violazioni dei diritti umani, documentate dalle Nazioni Unite e da diversi osservatori internazionali. Da tale crisi derivano tensioni diplomatiche sia sul piano regionale sia sul piano internazionale, laddove la vicenda appare paradigmatica del complesso rapporto fra principio di sovranità e tutela della democrazia e dei diritti umani. Tale tensione si spinge sino alla drastica decisione di recedere dall’OAS – come appena quattro anni fa accadde per il Venezuela – al fine di liberarsi degli obblighi da essa derivanti, con conseguenze incerte soprattutto sul sistema interamericano di tutela dei diritti umani.

2. La vicenda orwelliana di Daniel Ortega, la crisi e le conseguenze sui diritti umani in Nicaragua

Daniel Ortega fu uno dei cinque membri della Giunta di Governo di Ricostruzione Nazionale, che guidò il Nicaragua fra il 1979 e il 1985, a seguito della rivoluzione capeggiata dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). Ortega fu tra i leader principali del movimento rivoluzionario di opposizione alla dittatura di Anastasio Somoza Debayele, diventando coordinatore della Giunta incaricata di guidare il paese nella transizione post-dittatoriale. La storia recente del Nicaragua – l’ascesa del Fronte Sandinista, la sofferenza economica e la guerriglia controrivoluzionaria dei Contras, sostenuta economicamente e finanziariamente dagli Stati Uniti, la successiva sconfitta del FSLN alle elezioni generali del 1990 – è inestricabilmente legata a quella di Ortega, che del Fronte fu e rimane tutt’oggi il principale esponente.

Il leader sandinista fu ricandidato anche nel 1995 e nel 2001, ma riuscì a riconquistare la presidenza solo nel 2006, grazie ad una campagna elettorale giocata su un forte riposizionamento comunicativo, e soprattutto alla costruzione di una rete di alleanze con le élite politiche ed economiche dello Stato, a cui il FSLN si era tradizionalmente contrapposto.  Nel 2011 e nel 2016 la ricandidatura e la rielezione gli furono garantite da riforme costituzionali approvate ad hoc, mentre sul piano economico, al di là della retorica anti-imperialista e anti-capitalista, il Governo ‘neo-sandinista’ finì sostanzialmente per tradire le speranze di un’inversione delle politiche adottate sotto l’influsso del Washington Consensus.

Le massicce proteste antigovernative del 2018 – innescate dall’annuncio di alcune riforme del sistema di sicurezza sociale del paese, in linea in effetti con le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale – sembrarono segnare anche simbolicamente una rottura senza precedenti fra Ortega e il popolo del Nicaragua. L’annuncio della cancellazione delle riforme fu inutile: le proteste continuarono e furono brutalmente represse dalla polizia e da gruppi armati filogovernativi, con un bilancio di 328 morti, quasi 2000 feriti e migliaia di arresti in tutto il paese.

In una vicenda drammaticamente orwelliana (ritorna in mente ‘La Fattoria degli Animali’), il rivoluzionario che guidò la liberazione del Nicaragua sembra essersi tramutato nel tiranno che egli stesso contribuì a rovesciare, determinando oltretutto tragiche conseguenze sul piano dei diritti umani. Uccisioni, detenzioni arbitrarie, torture e trattamenti inumani e degradanti, violenze su donne e minori, limitazioni della libertà di espressione e di associazione, del diritto di riunione pacifica e di partecipazione alla direzione degli affari pubblici, con continui attacchi a individui e organizzazioni attive nella protezione e promozione dei diritti umani (si vedano per esempio i Rapporti di Human Rights Watch qui e qui, il Rapporto presentato dall’Alto Commissario per i Diritti Umani sulla situazione dei diritti umani in Nicaragua al Consiglio per i diritti umani e il Rapporto della Commissione interamericana dei diritti umani). Una situazione critica, ulteriormente esacerbata dalla crisi pandemica e, nel novembre 2020, da quella economica e umanitaria causata dagli uragani Eta e Iota.

Le elezioni del novembre 2021, precedute peraltro dall’arresto di sette candidati avversari e di 29 oppositori politici, si sono tenute in questo drammatico contesto, che è bene tenere in considerazione quale punto di partenza degli sviluppi delle ultime settimane.

3. Le contrapposizioni nella comunità internazionale: fra sovranità, democrazia e diritti umani

Secondo le autorità del Nicaragua, il voto del 7 novembre avrebbe indiscutibilmente riconfermato il Presidente Ortega, con il 75% delle preferenze e un’affluenza oltre il 65%. Tale risultato ha tuttavia suscitato contrapposte reazioni da parte della comunità internazionale. Come anticipato, se da un lato gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’OAS si sono trovati concordi nel non riconoscere la legittimità delle elezioni nicaraguensi, dall’altro Russia, Bolivia, Cuba e Venezuela, che invece si sono espressamente pronunciati a favore del Governo Ortega.

Lo stesso 7 novembre, subito dopo la chiusura delle urne in Nicaragua, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito le elezioni una ‘farsa’, «neither free nor fair, and most certainly not democratic», affermando che gli USA avrebbero adottato tutti i mezzi diplomatici ed economici a loro disposizione «to support the people of Nicaragua and hold accountable the Ortega-Murillo government and those that facilitate its abuses». Alcuni giorni dopo, il Segretario di Stato Antony Blinken ha annunciato l’ampliamento delle sanzioni unilaterali già comminate in seguito agli eventi del 2018. L’8 novembre, Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha sottolineato l’assenza di garanzie democratiche e la conseguente illegittimità del risultato elettorale, chiedendo la fine della repressione del dissenso, il rispetto dei diritti umani e l’autorizzazione al rientro nel territorio del Nicaragua degli organismi internazionali per i diritti umani, annunciando a sua volta nuove sanzioni e chiosando: «invitiamo Daniel Ortega a restituire la sovranità del Nicaragua al suo legittimo proprietario, ossia il popolo nicaraguense».

Tali dichiarazioni potrebbero portare ad estendere l’elenco di atti di non riconoscimento di Governi in caso di gravi violazioni delle regole democratiche e dei diritti umani verificatisi negli ultimi anni, in particolare in ambito OAS. La vicenda si inquadra nella complessa questione del ruolo della democrazia nel diritto internazionale, nonché del suo rapporto con i diritti umani, e potrebbe essere affrontata attraverso due principali percorsi.

In primo luogo, la dottrina ha discusso anche recentemente della possibile formazione di una nuova regola consuetudinaria che preveda la necessità di una legittimazione democratica al fine del riconoscimento di Governi, affiancando o sostituendo il tradizionale requisito dell’effettività (si veda ad esempio il Symposium di AJIL Unbound su Recognition of Governments and Customary International Law). Guardando alla prassi OAS, il riferimento è innanzitutto all’applicazione della Risoluzione 1080 dell’AG del 5 luglio 1991, con la quale il Segretario Generale dell’Organizzazione venne incaricato di convocare immediatamente una riunione del Consiglio Permanente nel caso in cui si verificassero eventi in grado di provocare un’interruzione improvvisa o irregolare della democrazia, vale a dire sia nel caso di colpi di Stato contro Governi in carica, sia a seguito del sovvertimento dell’ordine democratico da parte di un Governo in carica. La Risoluzione prevedeva che il Consiglio decidesse entro dieci giorni se convocare una riunione ad hoc dei ministri degli Affari esteri o una sessione speciale dell’Assemblea generale, nelle quali in ogni caso adottare le decisioni ritenute appropriate in conformità alla Carta OAS e al diritto internazionale. La risoluzione venne applicata nel caso di Haiti (1991), Perù (1992), Guatemala (1993) (si veda C. M. Cerna su AJIL Unbound). Ad essa seguì l’art. 9 della Carta OAS, così come emendata dal Protocollo di emendamento della Carta OAS del 1992, noto come ‘Protocollo di Washington’, nel quale si prevede la sospensione dalla partecipazione alle attività dell’OAS nel caso in cui un governo democraticamente costituito venga rovesciato con la forza. Tuttavia, il riferimento più significativo – secondo chi argomenta la formazione di una nuova regola consuetudinaria sulla legittimazione democratica quale criterio per il riconoscimento di Governi – è all’applicazione della Carta democratica interamericana (IADC), di cui si dirà poco più avanti, nei casi di Haiti (2001), Venezuela (2002), Ecuador, Belize, Bolivia e Nicaragua (2005), Honduras (2009). Solo in quest’ultimo caso, peraltro, fu temporaneamente applicata la sanzione della sospensione dalle attività dell’Organizzazione.

Gran parte della dottrina sottolinea tuttavia l’incoerenza, i rischi e le incerte conseguenze giuridiche della prassi regionale e internazionale sul riconoscimento di Governi (si vedano sempre Pasquet e Pertile), negando che una tale nuova regola consuetudinaria possa configurarsi (con accenti diversi, D’Aspremont, De Wet e Roth, su AJIL Unbound). Guardando al caso specifico oggetto di questo post, va citata – in questa direzione – la ferma opposizione della Russia alle dichiarazioni di USA e Unione Europea, per il tramite del proprio Ministro degli Esteri, il quale ha condannato il non riconoscimento degli Stati Uniti, definendolo ‘inaccettabile’ e sottolineando: «we (…) resolutely denounce this line». Tale affermazione, letta sul piano del diritto internazionale, sembra quasi voler rimarcare l’opposizione della Russia alla formazione di una norma consuetudinaria di tal fatta.

La seconda strada – percorsa nel sistema interamericano di tutela dei diritti umani – consiste nel ricondurre la democrazia nell’alveo della tutela dei diritti umani. Tuttavia, pare a questo punto ineludibile, ancor più di quanto non lo fosse già rispetto alle riflessioni precedenti, affrontare il nodo del ‘concetto’ di democrazia nel diritto internazionale, vale a dire il contenuto di un eventuale ‘diritto umano alla democrazia’.

Spesso, nel tentativo di adottare una definizione di ‘democrazia’ nel diritto internazionale, si fa riferimento ai diritti politici sanciti dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) e da numerosi altri accordi internazionali e regionali, dunque ad un’idea ‘procedurale’ della democrazia, collegata in particolar modo al diritto di voto (Si veda per es. UN Human Rights Committee (HRC), CCPR General Comment No. 25: Article 25 (Participation in Public Affairs and the Right to Vote), The Right to Participate in Public Affairs, Voting Rights and the Right of Equal Access to Public Service, 12 July 1996). Esiste tuttavia una definizione ‘sostanziale’, che legge la democrazia come interconnessa e reciprocamente dipendente dal godimento di alcuni fondamentali diritti umani (si veda per esempio UN Commission on Human Rights, Promotion of the Right to Democracy, 27 April 1999, E/CN.4/RES/1999/57).

Entrambe queste accezioni, quella procedurale e quella sostanziale, presentano limiti piuttosto significativi. La prima pare proporre un concetto eccessivamente limitato e formalistico di democrazia, facilmente aggirabile nella pratica; la seconda, per converso, è talmente vasta da risultare difficilmente applicabile quale standard di valutazione della condotta di uno Stato (Fox 2008). Inoltre, una parte della dottrina suggerisce grande cautela: sovrapporre il concetto di democrazia al liberalismo politico occidentale potrebbe rappresentare una sincera aspirazione universalistica, che rischia tuttavia di tramutarsi rapidamente in pretesa egemonica (Koskenniemi 2012; Boysen 2020).

Tenendo in considerazione questa premessa, non è difficile comprendere per quale ragione l’OAS sia l’unica Organizzazione regionale a proclamare espressamente la democrazia come diritto umano, secondo quanto stabilito all’art. 1 dell’IADC. La Carta fu approvata come Risoluzione durante la sessione straordinaria dell’AG tenutasi l’11 settembre 2001 a Lima, ed è considerabile alla stregua di un accordo relativo all’interpretazione e applicazione della Carta OAS, ai sensi dell’art. 31(3)(a) della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati (VCLT) (Si veda Saranti, sempre su AJIL Unbound). L’IADC sancisce il diritto alla democrazia dei popoli delle Americhe e l’obbligo dei loro Governi di promuoverla e difenderla (art. 1) e fornisce una serie di elementi utili a definire il contenuto del ‘diritto alla democrazia’ in una prospettiva sostanziale, in particolare secondo quanto emerge dall’art. 3, che elenca una serie di ‘elementi essenziali’ inclusi nel concetto di democrazia rappresentativa.

Il quarto capitolo della Carta, inoltre, stabilisce una serie di rimedi volti a fronteggiare due diverse situazioni: da un lato, il verificarsi di eventi che mettano a rischio «(the) democratic political institutional process or the legitimate exercise of power». Questa fattispecie prevede due rimedi: la richiesta di assistenza da parte del governo che subisce tale situazione al Segretario Generale o al Consiglio Permanente (art. 17), o in alternativa l’azione diretta del SG o del Consiglio Permanente, con il consenso del governo stesso. In secondo luogo, la Carta fa riferimento a situazioni che potrebbero determinare «(an) unconstitutional alteration of the constitutional regime that seriously impairs the democratic order in a member state» (art. 19). In questo secondo caso, qualsiasi Stato membro può chiedere al SG la convocazione del Consiglio al fine del «collective assessment» della situazione (art. 20), aprendo una procedura che può portare alla convocazione di una Sessione Speciale dell’AG e alla sospensione del Governo dalla partecipazione ai lavori degli Organi dell’OAS (art. 21).

Gli esiti dell’applicazione dall’IADC si sono recentemente dimostrati piuttosto incerti, soprattutto considerando le modalità del non riconoscimento del Governo Maduro e le sue conseguenze. In questo caso, la Carta venne invocata per la prima volta dal SG Luis Almagro, che chiese la convocazione urgente del Consiglio Permanente al fine del «collective assessment» della situazione venezuelana, a norma dell’art. 20 IADC. In seguito a tale richiesta, il Consiglio Permanente approvò due risoluzioni sulla situazione del Venezuela (si vedano Risoluzione CP/RES. 1078 (2108/17) e Risoluzione CP/RES 1079 (2111/17)). La risposta del Governo Maduro arrivò poi nel maggio 2017: il Venezuela denunciò la Carta OAS, creando evidentemente un significativo precedente per il Nicaragua. Infine, proprio l’11 aprile 2019, appena qualche settimana prima dello ‘scoccare’ dei due anni fra notifica e cessazione degli effetti della IADC in capo allo Stato recedente – a norma dell’art. 143 della Carta OAS, di cui si dirà fra poco – una Risoluzione del Consiglio riconobbe come legittima la delegazione inviata dall’autoproclamato Presidente ad interim Guaidó, mantenendo dunque formalmente il Venezuela all’interno dell’Organizzazione. Da parte propria, nell’aprile 2020, dunque ben oltre la scadenza dei due anni, il Governo Maduro dichiarò l’ufficialità del recesso.

Ebbene, mentre l’Assemblea dell’OAS si trova oggi ad annoverare fra i voti favorevoli alla Risoluzione contro il Governo del Nicaragua una delegazione del Venezuela, il Governo effettivo dello Stato esprime una posizione diametralmente opposta, mentre la crisi politica, umanitaria e la situazione dei diritti umani in Venezuela dal 2017 ad oggi non hanno fatto che aggravarsi (si veda ad es. l’ultimo rapporto di Human Rights Watch).

4. Il contenuto e la funzione della Nota

Nella vicenda in esame, la causa più prossima è stata la risoluzione approvata dell’AG il 12 novembre scorso, che ha dichiarato l’illegittimità democratica delle elezioni nicaraguensi, concludendo che «based on the principles set out in the Charter of the OAS and in the Inter-American Democratic Charter, democratic institutions in Nicaragua have been seriously undermined by the Government», demandando al Consiglio il compito di compiere un «immediate collective assesment of the situation» entro il 30 novembre. Il Consiglio si è riunito il 29 novembre, senza assumere alcuna decisione, ma affermando l’intenzione di aumentare gli sforzi diplomatici nei confronti dello Stato. La risoluzione dell’AG del 12 novembre è l’ultimo degli atti adottati a partire dallo scoppio della crisi del 2018, successivo alla Risoluzione del Consiglio del 20 ottobre 2021. Quest’ultima richiedeva – in vista delle imminenti elezioni – il rilascio immediato dei candidati presidenziali e degli oppositori politici ed esprimeva preoccupazione per la situazione dei diritti umani nello Stato. Inoltre, lamentava il silenzio del Governo di fronte alle raccomandazioni del Consiglio in merito allo svolgimento delle elezioni e al rispetto dei principi dell’IADC. Infine, richiedeva che le elezioni si svolgessero sotto l’osservazione dell’OAS e di altre «credible» istituzioni internazionali (si veda OEA/Ser.G, CP/RES. 1182 (2346/21)).

Contrariamente al silenzio degli ultimi tre anni, la risposta del Governo del Nicaragua all’ultima risoluzione non ha tardato ad arrivare ed è stata la più drastica possibile: l’avvio della procedura per il recesso dall’Organizzazione, attraverso una Nota del Ministero degli Esteri del Nicaragua, a norma dell’art. 143 della Carta OAS. Essa costituisce, anche nelle intenzioni esplicite del Governo nicaraguense, il ‘manifesto’ di un’idea ‘forte’ di sovranità.

Dal punto di vista giuridico, l’argomento centrale della Nota è contenuto al quarto paragrafo, che recita: «Nicaragua promotes and defends respect for the principles that govern International Law; compliance with the Charter of the United Nations, its principles and purposes, aimed at respecting the sovereign equality among States, non-interference in international affairs, abstention from the use of force or the threat of use of force and the non-imposition of unilateral, illegal and coercive measures; principles that the OAS is obliged to comply with, but irresponsibly ignores, in violation of its own Charter». Esso è accompagnato nel resto della Nota da accuse di «colonialismo e neo-colonialismo» e di asservimento agli Stati Uniti dell’OAS, che avrebbe «as its mission to facilitate the hegemony of the United States». Da un lato, si può osservare il tentativo di argomentare il recesso dall’OAS utilizzando il linguaggio della sovranità, accusando l’organizzazione di aver violato i principi di non intervento e di uguaglianza sovrana fra gli Stati. Dall’altro lato, al fine di rafforzare i propri argomenti, il Governo del Nicaragua accusa l’Organizzazione di essere sostanzialmente un ‘fantoccio’ degli Stati Uniti, giustificando implicitamente in questo modo la scelta di ignorare gli obblighi che da essa derivano.

Al di là del suo contenuto e del suo significato politico, la principale conseguenza giuridica della nota del Governo del Nicaragua è, come già avvenuto nel caso del Venezuela, l’apertura della procedura prevista all’art. 143 della Carta OAS. Esso prevede la cessazione dell’applicazione della Carta nei confronti dello Stato recedente due anni dopo la notifica alla Segreteria Generale dell’OAS, aggiungendo che lo Stato «shall cease to belong to the Organization after it has fulfilled the obligations arising from the present Charter».

A quali obblighi si fa riferimento? Nel Parere Consultivo OC-26/20 del 9 novembre 2020, richiesto dalla Colombia alla Corte Interamericana dei Diritti Umani in merito alla situazione del Venezuela, la Corte ha affermato che essi non si limitano ai rapporti di natura finanziaria. Esplicitando il proprio itinerario interpretativo – e facendo riferimento all’art 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (VCLT) – la Corte passa in rassegna l’interpretazione letterale, teleologica, contestuale e sistemica dell’art. 143. Dopodiché, sceglie di esaminare il contenuto dei lavori preparatori, al fine di confermare il risultato della propria interpretazione, ai sensi dell’art. 32 VCLT (para. 124 – 146). Ciascuno di questi passaggi ermeneutici – in particolare l’interpretazione sistemica, nell’ambito della quale la Corte ricorda peraltro l’esistenza, nel sistema interamericano, di un ‘diritto umano alla democrazia’ (par. 139) – porta a concludere che l’art. 143 vada interpretato nel senso di includere fra gli obblighi da adempiere anche quelli derivanti dal sistema interamericano dei diritti umani. Inoltre, la Corte afferma che tali obblighi rimangono inalterati durante il periodo di transizione di due anni (para. 149) e soprattutto che «el deber de cumplir con las obligaciones derivadas de las decisiones de los órganos de protección de derechos humanos del sistema interamericano se mantiene hasta su cumplimiento total»: l’assenza del compimento degli obblighi in materia di diritti umani derivanti dal sistema interamericano costituisce una condizione ostativa al perfezionamento del recesso (para. 151).

Nel caso del Nicaragua, se ne potrebbe dedurre che – fintanto che l’Organizzazione ritenesse lo Stato inadempiente rispetto ai propri obblighi in materia di diritti umani, compreso il ‘diritto alla democrazia’ – la Carta continuerebbe ad applicarsi anche oltre il periodo di due anni. Inoltre, la Corte sottolinea che (evidentemente) anche un eventuale recesso dal sistema interamericano non comporta alcuna conseguenza sulla vigenza degli obblighi derivanti dal diritto internazionale consuetudinario (para. 155 – 157). Si consideri a questo proposito la posizione del Comitato ONU per i diritti umani, espressa nel Commento Generale no. 26 del 1997, sulla continuità degli obblighi derivanti dall’adesione al Patto sui Diritti Civili e Politici, che comporta addirittura «that once the people are accorded the protection of the rights under the Covenant, such protection devolves with territory and continues to belong to them».

Tutto quanto considerato, le conseguenze concrete di una possibile formale estensione dell’applicazione della Carta OAS nei confronti del Nicaragua anche oltre i due anni previsti dall’art. 143 rimangono dubbie: pare esserne consapevole la Corte stessa, la quale sostiene che un’effettiva attuazione della norma comporti il necessario sforzo diplomatico degli altri Stati membri (Burgorgue-Larsen 2021). Il parere della Corte, oltre ad estendere il significato dell’art. 143 ben oltre i meri obblighi procedurali, sottolinea il ruolo degli Stati membri nell’implementazione degli obblighi in materia di diritti umani, mettendo di fatto in evidenza l’inevitabile interdipendenza fra politica e diritto internazionale (Lixinski 2021) e dunque il delicato equilibrio che intercorre fra i due livelli argomentativi.

5. Conclusioni

La crisi del Nicaragua si inquadra in un delicato contesto giuridico e politico-diplomatico, dove la tutela dei diritti umani e della democrazia anche al di fuori della volontà dello Stato si scontrano inevitabilmente con i rischi delle aspirazioni universalistiche, l’inadeguatezza degli strumenti disponibili e l’ineludibilità del ruolo del consenso del diritto internazionale. Secondo alcuni, l’azione del Segretario Generale Almagro durante la crisi del Venezuela, soprattutto nelle sue fasi iniziali, potrebbe aver compromesso di potenziale mediatore dell’OAS (Illueca 2017). La vicenda del Nicaragua, sin qui per certi versi sovrapponibile a quella del Venezuela, offre un nuovo importante banco di prova per l’Organizzazione, chiamata attraverso i suoi organi a tutelare i diritti umani e la democrazia, sul filo del delicato equilibrio fra politica e diritto.

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