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La compatibilità con la Costituzione italiana e il diritto internazionale dell’invio di armi all’Ucraina

Pierfrancesco Rossi (Luiss Guido Carli; Membro della Redazione)

1. Successivamente all’invasione russa dell’Ucraina, quasi trenta Paesi occidentali (inclusi Stati non membri della NATO, come la Svezia e la Finlandia) e l’Unione europea hanno stabilito di fornire armamenti alle Forze armate ucraine. L’Italia si è presto allineata. Con il decreto legge n. 14 del 25 febbraio 2022, il governo italiano ha autorizzato la cessione all’Ucraina, «a titolo gratuito, di mezzi e materiali di equipaggiamento militari non letali di protezione» (art. 2). Le parole «non letali» sono state omesse nel successivo decreto legge n. 16 del 28 febbraio 2022, con il quale si è autorizzata, «previo atto di indirizzo delle Camere, (…) la cessione di  mezzi,  materiali  ed  equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina» (art. 1, comma 1). Il 1° marzo, la Camera e il Senato hanno approvato, a larghissima maggioranza, due risoluzioni gemelle che hanno impegnato il Governo «ad assicurare (…) – tenendo costantemente informato il Parlamento e in modo coordinato con gli altri Paesi europei e alleati – la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione». Anche se le forniture sono state dettagliate in un documento classificato elaborato dallo Stato maggiore della difesa, non pubblicato in Gazzetta Ufficiale, secondo il Corriere della Sera l’elenco includerebbe mortai, lanciatori Stinger, mitragliatrici pesanti Browning, colpi browning, mitragliatrici leggere, lanciatori anticarro e colpi anticarro, oltre a razioni K, radio, elmetti e giubbotti. Sembrerebbe inoltre che una parte delle forniture sia già stata trasportata in Polonia, nei pressi della frontiera ucraina, da aerei dell’Aeronautica militare.

La decisione del governo italiano solleva la questione se l’invio di armi letali a una delle parti di un conflitto armato sia compatibile con la Costituzione e, in particolare, con le sue disposizioni a vocazione internazionalistica. Il pensiero va innanzitutto all’art. 11 Cost., prima parte, che prevede che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (nel senso che l’invio di armi all’Ucraina violi l’art. 11 v. Azzariti; Villone), ma non si tratta dell’unico parametro costituzionale rilevante. Poiché la Costituzione conferisce un rango gerarchico superiore alla legge tanto al diritto internazionale generale (ex art. 10, comma 1) quanto ai trattati internazionali (ex art. 117, comma 1), entrambe queste categorie di fonti costituiscono, nel nostro ordinamento, un limite all’esercizio del potere esecutivo e di quello legislativo. Ci si trova perciò in un ambito nel quale la legalità costituzionale è strettamente intrecciata con il rispetto del diritto internazionale.

2. Per iniziare, è importante sottolineare che il ripudio della guerra non è che una espressione del più ampio principio pacifista che ispira l’intero art. 11 Cost. L’ideale della pace è infatti alla base anche della sua seconda parte, secondo la quale l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Sono oggi del tutto superate le risalenti interpretazioni riduttive che vedevano in questo articolo formulazioni «prive di contenuto giuridico» (come sosteneva Balladore Pallieri, pp. 473-474). In realtà, è indiscusso che il principio pacifista abbia un carattere immediatamente vincolante sulle autorità dello Stato (Bon Valsassina). Esso esprime una direttiva generale per gli organi che gestiscono le relazioni internazionali dell’Italia, imponendo loro di «perseguire attivamente una politica pacifista» (Cassese, Art. 11, in Branca, p. 565 ss., p. 575). Inoltre, esso vieta in termini assoluti sia il coinvolgimento dell’Italia in guerre di natura offensiva sia il ricorso alla guerra come mezzo per risolvere controversie internazionali. Ed è convincente la ricostruzione secondo cui l’art. 11 proibisce non solo la partecipazione diretta dell’Italia a questi tipi di guerre ma anche ogni forma di assistenza a Stati che le conducano, il che comporta che il ripudio della guerra si estenda all’assistenza tecnologica, alla consulenza sulle operazioni militari e anche – venendo al punto – alla fornitura di armi (Bartole e Bin, p. 89; Chieffi, p. 136 ss.). È vero anche, però, che l’art. 11 non esclude in modo assoluto la partecipazione dell’Italia alla guerra. Non si spiegherebbe altrimenti come mai l’art. 78 Cost. preveda l’istituto (per quanto ormai obsoleto) della deliberazione dello stato di guerra. Tra le azioni belliche consentite dall’art. 11 rientrano certamente quelle a carattere difensivo (Cassese, Art. 11, in Branca, p. 565 ss., p. 565), il che è in linea, del resto, con il principio secondo cui «[l]a difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» (art. 52, comma 1, Cost.).

L’art. 11 non chiarisce espressamente se sia consentito all’Italia di partecipare a guerre per la difesa non propria ma di altri Stati (né sembra potersi giustificare l’invio di armi all’Ucraina invocando, come fa Celotto, l’art. 52 Cost.: la «Patria» che il cittadino italiano ha il dovere di difendere non è certo l’Ucraina). Ma la risposta è senza dubbio positiva, perché il concetto di guerra «difensiva» ai fini dell’art. 11 deve essere definito alla luce delle norme del diritto internazionale che regolano l’uso della forza e, in particolare, l’esercizio della legittima difesa. Ciò per almeno due ragioni. La prima è che l’art. 11 va letto nel suo complesso. La sua seconda parte, funzionale tanto quanto la prima alla realizzazione dell’istanza pacifista, è stata redatta dai Costituenti con l’intenzione immediata di consentire la partecipazione italiana alle Nazioni Unite e al relativo sistema di sicurezza collettiva (e ciò, sia detto per inciso, consente la partecipazione dell’Italia anche a guerre a carattere non difensivo, quando ciò sia autorizzato dal Consiglio di Sicurezza: De Vergottini, Il “ripudio della guerra”, il divieto dell’uso della forza e l’invio delle missioni militari all’estero, in Ronzitti 2013, p. 31 ss., pp. 35-36; in senso contrario Allegretti, p. 113). L’interpretazione dell’art. 11 deve quindi essere armonizzata con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, che lascia impregiudicato «il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In secondo luogo, e indipendentemente dalla seconda parte dell’articolo 11, la tecnica dell’interpretazione conforme al diritto internazionale permette di chiarire cosa si intenda per guerra difensiva alla luce del fatto che il diritto internazionale consuetudinario riconosce il diritto di legittima difesa individuale e collettiva (Nicaragua, par. 176). L’utilizzo di questa tecnica nell’interpretazione costituzionale, già normalmente giustificato dal principio internazionalistico che caratterizza la Costituzione italiana (sul punto sia consentito rinviare alle considerazioni svolte qui), è in questo caso reso irrinunciabile dal fatto che le consuetudini internazionali sono incorporate nel nostro ordinamento, acquistando rango costituzionale, tramite l’art. 10, comma 1, Cost. Non avrebbe perciò senso leggere l’art. 11 in isolamento dal diritto internazionale generale (così anche Cassese, Art. 11, in Branca, p. 565 ss., pp. 575-576, nel senso, per esempio, che la consuetudine «integra [l’art. 11] ampliando la portata del suo divieto» includendo anche la minaccia dell’uso della forza).

Per queste ragioni, si può ritenere che esista un «perfetto parallelismo tra divieto dell’uso della forza nell’ordinamento internazionale e nell’ordinamento interno [che] ha per oggetto anche le azioni consentite dall’ordinamento internazionale» (Ronzitti 2017, p. 106). L’art. 11, in altri termini, non vieta l’utilizzo della forza bellica per prestare assistenza a uno Stato che sta reagendo a un attacco armato. Questa conclusione non può che estendersi, a fortiori, anche a forme di sostegno diverse dalla partecipazione diretta alle ostilità, specularmente al fatto che un simile sostegno, come detto, non è ammissibile nel caso di guerre che l’art. 11 vieta. Per quanto riguarda la situazione ucraina, non c’è alcun dubbio che le azioni della Russia costituiscano un’aggressione (come confermato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite), che questo attacco armato sia del tutto ingiustificabile dal punto di vista del diritto internazionale (Janik; Milanovic; Spagnolo su SIDIBlog) e che l’Ucraina stia agendo in legittima difesa. La fornitura di armi all’Ucraina non sembra quindi presentare problemi ex art. 11 Cost. (Flick).

Quanto detto trova un qualche supporto anche nella legge n. 185 del 9 luglio 1990, che disciplina l’esportazione, l’importazione e il transito dei materiali di armamento. La legge stabilisce un generale divieto di esportazione e transito in casi di «contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali» (art. 1, comma 5). Il successivo comma 6 vieta poi esportazioni e transito «verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere». Ciò suggerisce che sia possibile esportare armamenti verso Paesi che versino in una condizione di conflitto armato nel rispetto (loro malgrado) dell’art. 51 della Carta, ovvero che stiano esercitando il proprio diritto di legittima difesa. Va notato, allo stesso tempo, che la legge n. 185 non è direttamente rilevante nella vicenda in commento. Questa legge infatti esclude dal suo campo di applicazione «le esportazioni o concessioni dirette da Stato a Stato, a fini di assistenza militare, in base ad accordi internazionali» (art. 1, comma 9, lett. b). E lo stesso decreto legge n. 16/2022 contiene una deroga espressa alla legge n. 185, deroga che può forse spiegarsi con l’assenza di un trattato di assistenza militare tra Italia e Ucraina.

3. Si è già detto però che l’art. 11 non è l’unico parametro costituzionale a venire in rilievo in questa circostanza, così che la compatibilità dell’invio di armi con le norme internazionali sull’uso della forza non chiude necessariamente la questione. Altri problemi sorgono con riguardo alla disciplina della neutralità, ovvero quelle norme di diritto internazionale classico che, nel corso di un conflitto armato, regolano i rapporti tra Stati belligeranti e Stati non coinvolti nel conflitto. Tradizionalmente, dallo status di neutralità discendono obblighi di astensione, ovvero di non partecipare al conflitto armato, e di imparzialità, ovvero di trattare in modo uguale le parti del conflitto (Hershey; Seger). Alla neutralità sono dedicate la V e dalla XIII Convenzione dell’Aia del 1907; l’Italia, che le ha solo firmate, non ne è parte, ma si ritiene che esse codifichino – almeno in alcuni aspetti – il diritto internazionale consuetudinario (Upcher, p. 72; v. anche Threat of Use of Nuclear Weapons, par. 88-89). Il divieto di fornitura di materiale bellico alle parti belligeranti è considerato uno dei corollari della neutralità (XIII Convenzione dell’Aia, art. 6; Antonopoulos, pp. 91-96; Upcher, pp. 77-87, che però nota come la prassi non sia univoca). Va notato che vi è chi dubita che la disciplina della neutralità continui ad avere rilevanza nel diritto internazionale contemporaneo (sul punto v. Gavouneli), ma ammettiamo, per semplicità, che queste norme vincolino l’Italia e che siano recepite nel nostro ordinamento tramite l’art. 10 Cost. in quanto diritto internazionale generale. L’invio di armi all’Ucraina è una violazione degli obblighi in materia di neutralità?

Tutto dipende da come si ritiene che questi obblighi interagiscano con i principi, di formazione successiva nel tempo, in materia di uso della forza. In particolare, ci si può chiedere se e in quale misura uno Stato non belligerante possa adottare comportamenti non neutrali nei confronti di Stati che abbiano fatto ricorso alla forza armata in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. La questione, va detto, non è nuova: l’attuale prassi dei Paesi occidentali può ricordare il comportamento degli Stati Uniti che, prima del loro ingresso nella Seconda guerra mondiale, fornirono aiuti militari al Regno Unito (si veda il Lend-Lease Act 1941). La posizione statunitense era che la violazione degli obblighi di imparzialità nei confronti della Germania fosse giustificata alla luce della violazione tedesca del Patto Briand Kellogg, e che questo non impedisse agli Stati Uniti di continuare a godere dei diritti spettanti agli Stati neutrali (una posizione sostenuta anche da Lauterpacht, p. 650; più recentemente, Upcher, p. 20). Il punto però resta controverso, quantomeno nei casi in cui – come nella situazione ucraina – non ci sia stato alcun intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Heintschel Von Heinegg 2007).

Alcuni ritengono che la disciplina della neutralità non sia in alcun modo intaccata dalle norme in materia di  legittima difesa e che resti vietata qualsiasi discriminazione contro lo Stato aggressore: una violazione degli obblighi di neutralità in supporto allo Stato aggredito non si giustificherebbe neppure sulla base del diritto di legittima difesa collettiva (Bothe, par. 29). Questa posizione è motivata dalla necessità di operare una rigida distinzione tra jus ad bellum, in cui rientra il diritto di legittima difesa, e jus in bello, in cui rientrano le norme sulla neutralità (Antonopoulos, p. 147). Confondere i due piani – si sostiene – violerebbe «a general principle of the law of war, namely the principle of equality of the parties regardless of the justification of the conflict. Like international humanitarian law, the law of neutrality can effectively fulfil its function of restraining conflicts only if the question of which party is the aggressor and which the victim remains irrelevant for the evaluation of certain acts in the light of the law of neutrality» (Bothe, par. 29). Ne consegue che uno Stato aggressore potrebbe adottare contromisure (ma non una reazione militare: Mancini, p. 243) nei confronti degli Stati che inviino forniture militari in violazione della neutralità. Ma questa lettura, almeno nelle circostanze della guerra ucraina, non sembra molto plausibile (Ambos; Heintschel von Heinegg 2022). Ci sono varie possibili strade, infatti, per giustificare l’adozione di uno status di neutralità «qualificata» da parte dei Paesi che stanno inviando armi all’Ucraina (Clapham). La necessità di operare una stretta distinzione tra jus ad bellum e jus in bello non pare poi un’obiezione decisiva: è infatti ragionevole sostenere che «an aggressor State [should not] take advantage of (…) parts of the laws of war, such as the law of neutrality, the rationale of which is not based upon humanitarian considerations» (Greenwood, p. 289).

Una prima possibilità è ritenere che l’invio di armamenti costituisca un esercizio di legittima difesa collettiva. In tal caso, troverebbe applicazione l’art. 21 degli Articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati, secondo cui « The wrongfulness of an act of a State is precluded if the act constitutes a lawful measure of self-defence taken in conformity with the Charter of the United Nations». Che ricorrano i requisiti per l’esercizio della legittima difesa collettiva (sui quali Nicaragua, par. 232), e in particolare la richiesta da parte dello Stato aggredito, non sembra dubitabile. Ma questa strada si presta anche ad alcune obiezioni. In termini generali, si è scritto che «It is radically unclear whether a neutral State discriminating (…) against an aggressor in the circumstances of self-defence (…) becomes, through its non-belligerent assistance, a State engaging in collective self-defence. State practice provides little guidance in this area» (Upcher, pp. 23-24). E la prassi attuale conferma questi dubbi. Sembra infatti che nessuno Stato abbia invocato la legittima difesa collettiva come motivazione dell’invio di armi all’Ucraina (la NATO ha qualificato come difesa collettiva solo le misure di deterrenza poste in essere nel territorio dei propri membri in seguito all’invasione russa). La legittima difesa collettiva, per contro, è stata invocata dalla Russia come implausibile giustificazione di un intervento «in difesa» delle repubbliche separatiste del Donbass. La reticenza occidentale sul punto può forse spiegarsi con l’intenzione di non esacerbare le tensioni con la Russia, sottolineando la volontà di non partecipare direttamente alle ostilità (per esempio negando la volontà di istituire una no-fly zone sull’Ucraina). Ma l’argomento decisivo contro l’invocazione della legittima difesa collettiva è che, a differenza del supporto offerto a un gruppo ribelle che miri a rovesciare l’ordine costituzionale di uno Stato (Nicaragua, par. 228), l’invio di armamenti a un esercito regolare che operi esclusivamente all’interno del territorio del proprio Stato non sembra qualificabile come uso della forza contro l’altra parte belligerante (Castellarin). È allora preferibile considerare l’invio di armi non come una forma di legittima difesa collettiva ma come un supporto all’esercizio della legittima difesa individuale da parte dell’Ucraina.

La violazione delle norme sulla neutralità può invece essere giustificata a titolo di contromisura collettiva in risposta a una violazione di una norma cogente di diritto internazionale. Il punto è notoriamente controverso: la Commissione del diritto internazionale, negli Articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001, non ha preso posizione sul punto e ha formulato una disposizione (art. 54: «This chapter does not prejudice the right of any State, entitled under article 48, paragraph 1, to invoke the responsibility of another State, to take lawful measures against that State (…)») destinata a lasciare «the resolution of the matter to further development of international law» (Commentaries, p. 139). Molti autori hanno sostenuto, con una varietà di argomenti, che l’adozione di contromisure da parte di tutti gli Stati in risposta a una violazione di obblighi erga omnes sia da ammettere (tra gli altri si vedano Picone; Koskenniemi, par. 396; Dawidowicz; Gaja). Ma anche laddove si dubiti della possibilità per qualsiasi Stato non direttamente leso di adottare unilateralmente una contromisura in reazione a violazioni di obblighi erga omnes, deve comunque ritenersi che tali contromisure siano legittime quando sono espressione di reazioni collettive rappresentative dell’intera comunità internazionale (così Iovane; più recentemente, anche Iovane e Rossi). La prassi (nella quale rientra anche l’imposizione di sanzioni) delle reazioni all’aggressione all’Ucraina, oggetto di condanna da parte una larga maggioranza dei membri della comunità internazionale, è pienamente riconducibile a questa impostazione e la conferma.

4. A questo punto è però necessario evidenziare che il fatto che il diritto internazionale consenta, in linea generale, l’invio di armamenti a un Paese vittima di aggressione non significa che qualsiasi invio di armi sia legittimo. L’Italia è infatti vincolata al Trattato sul commercio delle armi, che si applica, a dispetto del nome, a qualsiasi trasferimento di armi anche di natura non commerciale (Lustgarten, p. 578). Le forniture italiane rientrano pressoché interamente nel suo ambito di applicazione, definito agli articoli 2 (che elenca, tra le altre cose « missili e lanciatori di missili» e « armi leggere e di piccolo calibro») e 3 (riferito alle munizioni). Il Trattato prevede, innanzitutto, dei casi di divieto assoluto di esportazione (art. 6). Di particolare rilevanza è quello previsto al comma 3, che vieta ogni trasferimento « qualora al momento dell’autorizzazione [lo Stato] sia a conoscenza del fatto che le armi o i beni possono essere utilizzati per la commissione di genocidi, crimini contro l’umanità, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949, attacchi diretti a obiettivi o soggetti civili protetti in quanto tali o altri crimini di guerra definiti come tali dagli accordi internazionali di cui lo Stato è parte». Al di fuori dei casi previsti dall’art. 6, l’art. 7 prevede l’obbligo di esercitare una procedura di valutazioneexport assessment»), «in maniera obiettiva e non discriminatoria, e prendendo in considerazione ogni elemento pertinente», per verificare se esista un «serio rischio» che le armi destinate all’esportazione vengano usate per una serie di fini proibiti, i quali includono, tra gli altri, la commissione o facilitazione di gravi violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani (comma 1) o atti di violenza di genere o contro donne e bambini (comma 4). Lo Stato deve anche valutare la possibilità di adottare misure di mitigazione del rischio (comma 2), e se anche queste ultime risulterebbero inefficaci ha l’obbligo di vietare l’esportazione (comma 3). Non può non notarsi che i decreti governativi sull’invio di armi all’Ucraina non contengono alcuna menzione del Trattato sul commercio delle armi (neppure nel Preambolo, che, tra le fonti internazionali, nomina esclusivamente gli articoli 3 e 4 del Trattato Nord Atlantico) e non è dato sapere se siano state effettuate le valutazioni richieste dal Trattato per assicurarsi che le armi italiane non vengano utilizzate per fini vietati. La stessa omissione era stata notata nei decreti con cui, nell’agosto del 2014, il governo italiano stabilì di fornire materiali di armamento all’Iraq per sostenere le attività militari delle autorità regionali curde contro il c.d. «Stato islamico». Tale omissione era stata giustamente criticata anche se il Trattato non vincolava ancora l’Italia sul piano internazionale (Cimiotta, p. 9). Ma la mancata menzione degli obblighi internazionali in materia di trasferimenti di attrezzature militari è oggi ancora più problematica considerando che il Trattato, nel frattempo, è entrato in vigore.

5. Per riassumere, dal punto di vista del diritto internazionale: (1) l’invio di armi all’Ucraina non rientra nell’ambito della legittima difesa collettiva ma è comunque una forma pienamente ammissibile di assistenza all’esercizio della legittima difesa individuale; (2) la fornitura di armi si presenta, al più, come una violazione delle norme internazionali in materia di neutralità, la quale è tuttavia giustificabile a titolo di contromisura in quanto reazione a un atto di aggressione; (3) l’invio del materiale bellico deve essere effettuato compatibilmente con le norme internazionali che regolano i trasferimenti di armamenti, in primis il Trattato sul commercio delle armi. Da questo consegue, sul piano del diritto costituzionale, e sempre a condizione che siano rispettati gli obblighi che regolano i trasferimenti di armi, che l’invio di armamenti all’Ucraina non realizza una violazione dell’art. 11 Cost. o delle altre disposizioni costituzionali a contenuto internazionalistico. È una decisione politica stabilire se e in quale misura sia opportuno farlo.

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Pierfrancesco Rossi

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