diritto internazionale pubblico

Il ripudio della guerra preso sul serio. Quattro tesi sull’incostituzionalità dell’invio di armi all’Ucraina

Edoardo Caterina, Matteo Giannelli, Domenico Siciliano (Università di Firenze)

Nel suo intervento dell’8 marzo su questo blog Pierfrancesco Rossi ha illustrato in modo egregio i numerosi problemi giuridici sollevati dall’invio in armi in Ucraina disposto dai decreti legge n. 14 e 16 del 2022. Le sue conclusioni sono, in estrema sintesi, che l’invio delle armi non sia in violazione né del diritto internazionale, in quanto costituirebbe una «forma pienamente ammissibile di assistenza all’esercizio della legittima difesa individuale», né del diritto costituzionale, dal momento che «il concetto di guerra “difensiva” ai fini dell’art. 11 deve essere definito alla luce delle norme del diritto internazionale che regolano l’uso della forza e, in particolare, l’esercizio della legittima difesa». Troviamo che il suo ragionamento sia pienamente convincente sul piano del diritto internazionale, nutriamo invece molte perplessità sulla sua ricostruzione in punto di diritto costituzionale interno. Vorremmo quindi proporre qui una lettura alternativa dell’art. 11 Cost., articolandola in quattro tesi. Il pensiero di fondo che sta alla base di tutte le nostre argomentazioni è che, come ha osservato Umberto Allegretti riagganciandosi a un famoso libro di Ronald Dworkin, il ripudio della guerra (e con esso il diritto costituzionale) vada «preso sul serio».

1. Quando si parla di guerra, il regime costituzionale prevale sul regime internazionale. Sempre di Allegretti vorremmo richiamare un articolo del 1991 (Guerra del Golfo e Costituzione, in Foro it., 1991, V, 382-413) in cui egli si opponeva alla partecipazione italiana alla Guerra del Golfo, avvenuta in seguito a una risoluzione delle Nazioni Unite. La missione militare dell’Italia poteva quindi apparentemente poggiarsi sull’art. 11 Cost. nella misura in cui si consentono cessioni di sovranità ad una organizzazione internazionale come l’ONU. Allegretti faceva semplicemente notare che l’art. 11 non acconsente ad ogni limitazione di sovranità, ma finalizza la partecipazione alle organizzazioni internazionali ad uno scopo specifico: la pace e la giustizia fra le nazioni. L’art. 11 venne scritto sul presupposto che l’appartenenza, da un lato, a una organizzazione internazionale volta al perseguimento della pace e, dall’altro, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali non potessero mai entrare in contraddizione. Ma nel malaugurato caso in cui ciò avvenga, concludeva giustamente Allegretti, le risoluzioni «guerresche» di organizzazioni internazionali non possono essere riconosciute dall’ordinamento costituzionale, altrimenti il ripudio della guerra non è preso veramente sul serio. Ora, se questo è vero per un intervento deliberato dalle Nazioni Unite, ciò è maggior ragione vero per azioni belliche prese nel contesto non di una organizzazione internazionale volta al mantenimento della pace, ma di una alleanza militare difensiva come la NATO. Qual è la ragione della prevalenza che deve essere data al regime del diritto costituzionale (sul concetto di regime giuridico si vedano: Koskenniemi; Teubner e Fischer Lescano, p. 7 ss. e in part. p. 57) in caso di conflitto con quello del diritto internazionale?

La ragione principale è talmente davanti al nostro naso che non la vediamo. Il diritto internazionale è il frutto degli accordi tra i vari Leviatani, tra gli stati «armati per la guerra» (Immanuel Kant), e delle loro prassi, mentre il diritto costituzionale di uno Stato repubblicano e democratico è davvero il «patto costitutivo» e fondante di una comunità di uomini e donne liberi ed eguali e (sperabilmente) pure solidali, nella tradizione della Rivoluzione francese. Il che è riassunto nella troppa poco considerata formula non a caso di apertura della Costituzione italiana che sancisce da un lato che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e dall’altro che «la sovranità è esercitata dal popolo nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione», e non dal Governo quando agisce con la massima disinvoltura nell’ambito di un’opaca «governance globale» internazionale o transnazionale fatta di G7, Nato e riunioni del Consiglio dell’Unione europea.

L’art. 11 quindi non va letto come una ‘delega in bianco’ al diritto internazionale, bensì come una limitazione di sovranità della Repubblica (e al tempo stesso un impegno positivo), condizionata all’effettivo perseguimento, da parte delle organizzazioni internazionali in questione, della pace e della giustizia tra le Nazioni (vedi da ultimo Azzariti, che stigmatizza il comportamento del governo italiano, ‘sbilanciato’ a favore della Nato e a sfavore della Costituzione: «Nel dibattito parlamentare sulla guerra in Ucraina la Costituzione è stata rimossa. […] In fondo può comprendersi. Non è facile coniugare lo scontro armato con il diritto, la guerra assieme al suo “ripudio”. Ben presente invece la Nato, richiamata nel discorso rivolto alle Camere per ben sei volte. C’è allora da chiedersi se, in caso di guerra, i principi costituzionali debbano essere sostituiti con i vincoli internazionali»). Non a caso, non poche voci in dottrina hanno dubitato della costituzionalità di trattati internazionali sottoscritti dall’Italia nelle parti in cui comportano l’entrata in guerra del Paese in casi diversi da quelli di una guerra difensiva del territorio nazionale. E non ci riferiamo solo all’art. 5 del Trattato Transatlantico, ma anche all’art. 51 della Carta ONU (si veda ancora Allegretti, cit., e Bettinelli in Branca-Pizzorusso, p. 93, che ritiene «abnorme» l’art. 51 Carta ONU rispetto all’art. 11 Cost.). Perfino Giuseppe Dossetti, che dell’art. 11 fu il principale autore in seno alla Costituente, notava, intervistato all’indomani della Guerra del Golfo, l’incompatibilità tra l’art. 11 e un certo uso della Carta ONU.

 Quale guerra è dunque ammissibile ai sensi della nostra Costituzione?

2. La guerra non ripudiata è quella della difesa della Patria (art. 52). Tre sono gli obblighi assunti dalla Repubblica Italiana in forza dell’art. 11, tra di essi strettamente concatenati, in un tutto unitario e non scindibile in due parti tra di loro contrapposte se non addirittura in «due commi». Con le parole di Lorenza Carlassare, «la cosiddetta seconda parte è funzionale alla prima, ne costituisce il seguito e al tempo stesso l’indispensabile premessa». Lo stesso veniva anche affermato da Dossetti nell’intervista già citata (in cui si legge che la seconda parte dell’articolo «non attenua ma conferma il ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali»).

Con l’enunciazione del «ripudio della guerra come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli» si stigmatizza il cuore della guerra più terribile e odiosa, quella guerra di aggressione i cui esempi più nefandi erano ancora ben vivi davanti agli occhi dei Costituenti: innanzitutto l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia e poi quella condotta dalla Germania nazista nel 1939 e seguita, purtroppo, nel 1940 ancora dall’Italia fascista. Il divieto della guerra di aggressione è un’applicazione particolare del più generale principio rappresentato dal ripudio della guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Nell’autorevole e oramai classico commentario all’art. 11 della Costituzione, Antonio Cassese ricorda che per controversie internazionali si intendono tanto le controversie giuridiche quanto quelle politiche (Cassese, Art. 11, in Branca-Pizzorusso, p. 575; Bon Valsassina, p. 58; cfr. anche Benvenuti, p. 59). È insomma il conflitto sorto su quello che è ‘il mio’ e quello che è invece ‘il tuo’ tra i ‘Leviatani’ degli stati nazionali che, una volta ‘risolto’ il problema dello stato di natura ‘interno’ con l’imposizione del monopolio della forza, si comportano sulla scena mondiale in guerra come ubriachi che si prendono a cazzotti in un negozio che vende porcellane (David Hume).

Cosa resta allora della guerra? La Repubblica italiana è pacifista nel senso radicale del termine, categoricamente non violento e ‘gandhiano’? No, perché l’art. 52, che recita: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», apre lo spazio per la guerra difensiva del territorio dello Stato. L’art. 11 Cost. è espressione del radicale rigetto, appunto del ripudio, della guerra come mezzo per la continuazione della politica, con una chiara accezione morale e giuridica negativa. Se la guerra come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» va ripudiata, allora sarà costituzionalmente obbligatoria una politica che costruisca la pace, in una prospettiva internazionale di Stati che tramite il diritto si ‘federano’, ovvero si collegano tra di loro, al fine di abolire il ‘diritto di fare la guerra’ e di costruire assieme «un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni».

Come mai allora ci troviamo di nuovo a dover ribadire quello che sta scritto nella Costituzione e che dovrebbe essere piuttosto chiaro a tutti? Perché negli ultimi decenni, almeno a partire dalla prima Guerra in Iraq (‘legittima difesa’ del Kuwait aggredito, autorizzata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu), passando per la guerra contro l’ex Jugoslavia, la guerra contro l’Afghanistan e la seconda guerra contro l’Iraq, le ‘ragioni della politica’ hanno dato vita a prassi contra constitutionem che hanno sempre più indebolito il dettato costituzionale fino a renderlo quasi irriconoscibile.

Veniamo ora ad esaminare più nel dettaglio le argomentazioni proposte nel già citato intervento di Pierfrancesco Rossi. Rossi ribadisce, riferendosi ad Antonio Cassese, che l’art. 11 «esprime una direttiva generale per gli organi che gestiscono le relazioni internazionali dell’Italia, imponendo loro di “perseguire attivamente una politica pacifista”». Rossi aggiunge che l’art. 11 «vieta in termini assoluti sia il coinvolgimento dell’Italia in guerre di natura offensiva sia il ricorso alla guerra come mezzo per risolvere controversie internazionali»; sottolinea pure che «è convincente la ricostruzione secondo cui l’art. 11 proibisce non solo la partecipazione diretta dell’Italia a questi tipi di guerre ma anche ogni forma di assistenza a Stati che le conducano, il che comporta che il ripudio della guerra si estenda all’assistenza tecnologica, alla consulenza sulle operazioni militari e anche – venendo al punto – alla fornitura di armi». La tesi per cui il ripudio della guerra comprende anche il divieto di fornire armi a paesi belligeranti è del resto accolta dalla dottrina maggioritaria e non può essere posta seriamente in discussione (oltre a Bin e a Chieffi, opportunamente citati da Rossi, cui si rinvia, si può anche fare riferimento a Ferrari, voce Guerra (stato di), in Enc. Dir., XIX, p. 831).

Come fare allora? La ‘parola magica’ del giurista sta nel parlare non di ‘guerra difensiva’ e cioè di guerra che difende ‘la Patria’ e quindi il territorio a essa appartenente, come previsto da un’interpretazione sistematica dell’art. 11 e dell’art. 52 della Costituzione, ma di «partecipazione alla guerra», creando un ‘concetto ponte’ verso la partecipazione alla guerra difensiva degli altri, insomma al ‘soccorso difensivo’ per l’Ucraina. Si apre così la ‘lacuna’ per autorizzare anche ‘la guerra difensiva degli altri’. Rossi aggiunge infatti che «l’art. 11 non chiarisce espressamente se sia consentito all’Italia di partecipare a guerre per la difesa non propria ma di altri stati», schiudendo così lo spazio all’individuazione, tramite interpretazione nel (supposto!) silenzio della Costituzione, di un’autorizzazione inespressa, implicita. Il testo dell’art. 11 insomma non sarebbe chiaro sul punto, abbisognerebbe di interpretazione. Ed ecco arrivare in soccorso del diritto costituzionale il diritto internazionale: «Ma la risposta è senza dubbio positiva, perché il concetto di guerra “difensiva” ai fini dell’art. 11 deve essere definito alla luce delle norme del diritto internazionale che regolano l’uso della forza e, in particolare, l’esercizio della legittima difesa». A tal fine Rossi fornisce «almeno due ragioni». La prima fa valere un’interpretazione dell’art. 11 nella quale si pone l’accento sulla cd. seconda parte dell’articolo: questa demanderebbe al sistema della Carta ONU l’individuazione degli strumenti per la realizzazione del «ripudio». Il secondo argomento è collegato al primo e fa leva, partendo dall’art. 10, comma 1 Cost., sulla necessità di una interpretazione conforme al diritto internazionale. A tal fine Rossi fa riferimento di nuovo ad Antonio Cassese, che nel suo Commento all’art. 11 ricorda che la consuetudine internazionale «integra [l’art. 11] ampliando la portata del suo divieto includendo anche la minaccia dell’uso della forza».

Agli argomenti di Rossi va replicato quanto segue.

Per quanto riguarda il primo argomento: l’art. 11 Cost., già alla luce di un’interpretazione letterale e alla luce dell’interpretazione sistematica ex art. 52 Cost. ripudia ogni forma di guerra, fatta eccezione per quella difensiva della Patria. La Costituzione sembra chiara sul punto, anche se va dato atto che ben diversa è l’opinione dominante (si vedano per tutti: Marco Benvenuti, che individua in tema di guerra un ambito di «costituzionalmente possibile» nel quale appunto si collocherebbe la spedizione di armi all’Ucraina; ancora Benvenuti, pp. 50 ss. e 60 ss.; Giuseppe De Vergottini; nonché, da ultimo, Massimo Villone).Come già argomentato, non sussiste alcuna tensione, per non parlare di alcun conflitto, tra gli enunciati di cui consta l’art. 11 Cost., come invece parrebbe suggerire obliquamente chi vuole ‘correggere’ il significato della prima parte alla luce del (supposto) rinvio alla Carta ONU operato dalla seconda parte.

Ma anche a voler ammettere che la Costituzione sul punto non sia chiara rimangono non poche difficoltà per poter sostenere le conclusioni cui giunge Rossi.

Innanzitutto, l’eventuale ‘apertura’ della Costituzione al diritto internazionale non può arrivare allo svuotamento della stessa a favore di quest’ultimo, con relativa decostituzionalizzazione e quindi neutralizzazione del diritto costituzionale (sul punto basti richiamare la giurisprudenza costituzionale sui ‘controlimiti’ e, in primo luogo, la fondamentale sentenza n. 238 del 2014).

In secondo luogo, come dà per scontato lo stesso Rossi, nel caso di specie non sussiste alcun obbligo pattizio. La Carta ONU riconosce a determinate condizioni il diritto naturale all’autodifesa e al soccorso difensivo, alla cd. «legittima difesa collettiva», ma certo non obbliga gli Stati membri all’autodifesa e al soccorso difensivo! Riconosce solo una facoltà, un «diritto naturale» a procedere in tal senso. Non vi sarebbe quindi affatto una violazione del diritto internazionale. E non si porrebbe per nulla il problema di eventuali ‘controlimiti’. Da questa semplice constatazione discendono delle conseguenze molto rilevanti che vanno rimarcate con attenzione. Si potrebbe ben argomentare che la «difesa della Patria» di cui all’art. 52 Cost. non possa non passare, per come è la realtà geopolitica di oggi, da alleanze difensive tra vari Stati, con tutte le conseguenze in termini di obblighi di soccorso reciproco. Nel caso di specie non ci troviamo tuttavia in una ipotesi del genere e si può pertanto mettere in dubbio la legittimità costituzionale dell’invio di armi in Ucraina, senza, perciò, dubitare della legittimità costituzionale di ogni trattato di alleanza militare difensiva. Questo perché non è possibile sostenere al tempo stesso che l’art. 11 obblighi lo Stato italiano a «perseguire attivamente una politica pacifista» e che l’invio di armi a un paese in guerra sia una decisione di pura discrezionalità politica, da prendere in uno spazio ‘giuridicamente vuoto’ di diritto costituzionale riempito solo da riferimenti al diritto internazionale.

Se poi passiamo ulteriormente a considerare l’eventuale collisione, il conflitto tra la disposizione dell’art. 11 della Costituzione e l’art. 51 della Carta ONU, allora che cosa potrà garantire la preferenza al diritto internazionale? Quale sarebbe il criterio seguito per risolvere questa antinomia’? C’è qualcosa di diverso dalla «ferrea necessità» e dalle «ragioni della politica»? L’eventuale obbligo di soccorso difensivo potrebbe venir fondato solo dal punto di vista morale, dalla solidarietà che si sente nei confronti di chi viene barbaramente aggredito, il che, stigmatizzando una “lacuna valoriale” nella Costituzione, dovrebbe poi far eccezionalmente arretrare il dettato costituzionale per lasciar prevalere esigenze insopprimibili e ‘superiori’ di giustizia, di ‘diritto naturale’. Insomma, una sorta di formula di Radbruch applicata in un caso eccezionale di intollerabile ingiustizia della Costituzione. In tal modo, sia chiaro, riemergerebbe quella ‘giusta guerra difensiva a favore degli altri’ che la Costituzione voleva escludere.

Per quanto riguarda invece il secondo argomento: in primo luogo, è il caso di ricordare che la consuetudine fatta valere da Rossi facendo riferimento a Cassese è un caso di consuetudine che amplia il ripudio della guerra di cui all’Art. 11 Cost. e non certo di una consuetudine che lo riduce o lo neutralizza, e cioè in ultima analisi, di una consuetudo abrogans. In secondo luogo, va ricordato che già in un caso la Corte costituzionale ha ritenuto una consuetudine internazionale incompatibile con la nostra Costituzione. 

3. L’interpretazione storica dell’art. 11 della Costituzione esclude il soccorso difensivo a terzi stati in guerra. Quanto finora sostenuto si trae anche da una lettura dei dibattiti costituenti, di cui non sarà quindi fuori luogo riportare qualche passaggio particolarmente significativo. Abbiamo già menzionato Giuseppe Dossetti: la prima versione di quello che sarebbe diventato l’art. 11 della Costituzione proveniva dalla sua penna (egli era infatti il relatore, in seno alla Prima Sottocommissione, incaricato di formulare proposte su «Lo Stato come ordinamento giuridico e i suoi rapporti con gli altri ordinamenti»). La proposta di Dossetti si ispirava chiaramente all’art. 46 della bozza di costituzione francese del 19 aprile 1946. La Costituente francese eletta il 21 ottobre 1945 aveva a sua volta concepito l’articolo come una costituzionalizzazione del Patto Briand-Kellogg del 1928. Il 3 dicembre 1946 la Prima Sottocommissione, partendo dalla proposta Dossetti, approvava questa formulazione: «La Repubblica rinunzia alla guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizioni di reciprocità, le limitazioni di sovranità necessarie alla difesa e alla organizzazione della pace». Il dibattito fu breve e non toccò minimamente la prima parte dell’articolo; le modifiche approvate furono puramente stilistiche.

Poco più di 15 giorni dopo, il 20 dicembre 1946, la Seconda Sottocommissione, sotto la presidenza di Terracini, trattò quella che poi sarebbe diventata la parte finale dell’art. 87 co. 9, avente a oggetto il potere del Presidente della Repubblica di dichiarare la guerra a seguito della deliberazione parlamentare in tal senso («Il Presidente della Repubblica dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale»). Nel corso della discussione Ruggiero Grieco propose una formulazione che andava oltre la stigmatizzazione della guerra di aggressione deliberata pochi giorni prima dalla Prima Sottocommissione: «Il Presidente della Repubblica proclama lo stato di guerra, quando lo esiga la difesa dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del Paese». Sul punto intervenne Vanoni osservando che «se si approvasse l’articolo proposto dall’onorevole Grieco, evidentemente si escluderebbe la possibilità di una guerra determinata da obblighi internazionali».

L’obiezione di Vanoni ebbe effetto e l’emendamento di Grieco venne respinto. Alla luce di questa vicenda parte della dottrina fa valere l’argomento per cui secondo la volontà dei Costituenti sarebbe costituzionalmente legittimo il soccorso difensivo nell’ambito di una legittima difesa collettiva, e quindi tanto il caso del soccorso difensivo in forza di un precedente trattato internazionale di mutua difesa in tal senso, (così sul trattato NATO: Bon Valsassina, p. 67 ss.) quanto quello di uno Stato a favore di un altro Stato che lo richieda ex art. 51 Carta ONU (Benvenuti, p. 57 ss.). Ci sia consentito però richiamare qui l’attenzione su di un elemento decisivo. Nel giro di poco tempo l’opinione dominante in seno alla Costituente cambiò. In Assemblea, durante gli ampi e articolati dibattiti del marzo 1947, le forze contrarie alla guerra riuscirono a farsi sentire e a imporre un ampliamento della sfera del costituzionalmente illegittimo in tema di guerra. Il 12 marzo 1947 al Congresso degli Stati Uniti il presidente Truman espose la ‘dottrina del contenimento’, che proponeva una nuova e aggressiva strategia di confronto degli Stati Uniti con l’Unione sovietica in Grecia e in Turchia. Proprio due giorni dopo, il 14 marzo intervenne Guido Russo Perez, appartenente al Fronte dell’Uomo Qualunque, che propose di stralciare l’articolo. Quel che risulta particolarmente interessante è la motivazione addotta per questa proposta. Russo Perez osservava che non era veramente possibile distinguere, come avrebbe voluto fare l’articolo, tra guerre giuste e guerre ingiuste, e cioè tra le guerre di conquista, di aggressione contro la libertà dei popoli, e le guerre di difesa. Egli faceva poi notare che, a voler identificare la ‘guerra giusta’ con la ‘guerra difensiva’ (come si evinceva dalla formulazione allora in discussione), si cadeva nella difficoltà di stabilire con chiarezza chi nella ‘nebbia della guerra’ fosse l’aggressore e chi invece l’aggredito (a tal proposito forniva tutta una serie di esempi dal recente passato, e in particolare il caso della fornitura di armi da parte degli Stati Uniti neutrali all’Inghilterra già in guerra con la Germania e l’Italia).

Tre giorni dopo, il 17 marzo, intervenne il socialista Treves che, raccolta la sfida lanciata da Russo Perez, propose per primo di aggiungere il ripudio della guerra intesa non solo come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, ma anche come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, ossia delle controversie internazionali.

«Ma noi, onorevoli colleghi, vorremmo qualche cosa di più in questo articolo 4; vorremmo un’affermazione più decisa. Noi auspicheremmo che l’Italia desse l’esempio con questo articolo di quel futuro diritto internazionale, e ancor più direi, costume democratico internazionale, che desideriamo possa un giorno reggere un mondo migliore e più giusto. Vorremmo vedere nell’articolo 4 incorporato il principio che la Repubblica non ricorrerà alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali. Se l’articolo 4 ha un senso, effettivamente esso deve superare questa astratta formulazione che condanna le guerre di conquista, specialmente in questa situazione politica e generale, specialmente dopo quello che è successo in questi ultimi anni, la tragedia di cui siamo ancora tutti pervasi e di cui ancora tutti soffriamo le conseguenze»

Treves chiese insomma che si andasse ben oltre la condanna della guerra di conquista. La guerra fredda e la guerra atomica che oramai si stagliavano all’orizzonte tra i due blocchi spinsero l’esponente socialista a chiedere la condanna della guerra tout court, cioè della «guerra come risoluzione dei conflitti internazionali», fatta chiaramente eccezione per quella strettamente difensiva della Patria, e cioè del territorio dello stato. La sua posizione si saldava così alla tradizione antibellicista del suo partito, che si era chiaramente e giustamente opposto all’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, vista appunto da Treves come una guerra tesa a «risolvere conflitti internazionali». Treves proseguiva:

«In quest’articolo noi vorremmo che fosse dalla Repubblica codificato che la guerra non deve essere strumento di risoluzione dei conflitti internazionali, un principio che veramente risponde a quella che è l’essenza della nostra nuova democrazia, quella democrazia che è sorta non da spiriti imbelli, ma proprio al contrario — detesto di fare retorica — dal grande apporto della guerra partigiana.

Anche le obiezioni che potrebbero venire da alcuni internazionalisti — per il principio cioè della bilateralità — non ci spaventano troppo, perché, oltre il diritto, a noi sembra che debba esistere anche la moralità internazionale: un principio che vorremmo vedere nettamente affermato nella Carta costituzionale della Repubblica italiana [NdR: corsivo aggiunto]. (…)

Nella situazione internazionale in cui viviamo, in questo urto di blocchi giganteschi, in questo scatenarsi di sfiducia e di interessi reciproci, può essere un nobile compito per noi italiani, proprio quello di parlare della ragione. E non si dica che si fa del donchisciottismo inutile; direi, se mai, signori, che così si applica il buon senso di Sancio Pancia, che è una cosa diversa»

Di fronte all’«urto di blocchi giganteschi», e al tempestoso «scatenarsi di sfiducia e di interessi reciproci», la ragione si colloca quindi paradossalmente non nel ‘non-luogo’ della follia di Don Chisciotte, del signore folle e visionario, ma nel luogo ben preciso, realistico e concreto del buon senso, del senso comune dell’assennato servitore, Sancho Panza, al quale stano a cuore i veri interessi degli esseri umani in carne e ossa.

A dar man forte a Treves intervenne, sempre il 17 marzo, con espresso riferimento al discorso di Truman, l’azionista Leo Valiani, che propose un altro emendamento con cui si intendeva affermare, in sostanza, la neutralità del Paese nella contrapposizione tra i «blocchi imperialistici»: «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e respinge ogni imperialismo e ogni adesione a blocchi imperialistici»

Nel proporre la «rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale», Valiani voleva in tal modo ricollegarsi alla dizione del Patto Briand-Kellogg del 1928, a suo parere preferibile rispetto a quella proposta, anche al fine di evitare possibili guerre giustificate come necessarie per la difesa di altri popoli:

«Quando invece si dice: «L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli», si entra veramente in quel campo in cui si finisce sempre con lo stiracchiare i fatti, per dimostrare che si salvaguarda la libertà di un Paese intervenendo con le armi, o che viceversa la si salva non intervenendo. La storia recente è piena di contraddizioni in proposito.

(…) Basti pensare soltanto all’ultimo grande fatto di politica internazionale: il messaggio di Truman, che pone le frontiere strategiche degli Stati Uniti in Grecia e in Turchia, allo scopo — come dice il Presidente americano — di difendere la libertà di quei popoli. Io potrei anche pensare che la libertà di quei popoli non si difende efficacemente inviando degli istruttori militari a sostegno di Governi che non sono né democratici e neppure liberali. (…)

Il patto Briand-Kellogg aveva invece il vantaggio di fissare un principio generale, generalissimo, sul quale non ci doveva essere discussione: qualunque paese avesse dichiarato la guerra e si fosse valso della guerra come strumento di politica internazionale sarebbe stato un paese condannato dalla coscienza civile. (…)

Noi siamo incondizionatamente, e non soltanto in riferimento ad una certa interpretazione politica, per la rinunzia alla guerra. Se ci attaccheranno ci difenderemo, ma noi abbiamo il fermo proposito di non attaccare mai nessun altro popolo, sia esso un popolo retto con ordinamenti liberali o con altri ordinamenti. Non andremo più in Grecia né per battere Metaxas, né per difendere la libertà della Grecia contro il comunismo, come sostiene l’America»

In seguito a queste osservazioni, il Presidente Ruini, a nome della Commissione, nella seduta del 24 marzo 1947 propose una nuova versione dell’articolo (allora art. 4) con l’inserimento del divieto della guerra come risoluzione delle controversie internazionali. Si giunse così, in sostanza, alla versione definitiva che corrisponde all’odierno art. 11. È interessante notare che Valiani, unico in Assemblea ad essersi posto espressamente il problema della partecipazione a guerre non di mera difesa da aggressioni esterne, criticava la versione dell’articolo uscito dalla Sottocommissione, e poi, di fronte alla riformulazione proposta da Ruini il 24 marzo, ritirò il proprio emendamento per aderire ad un altro emendamento proposto da Zagari e che, per la verità, in poco si differenziava dalla formulazione proposta dalla Commissione (per una diversa lettura di questa vicenda si veda l’intervento di Lorenzo Gradoni nel podcast «Ehi SIDI!» del 10 marzo 2022). Ruini intervenne nuovamente per difendere la propria versione, notando che si trattava di «questioni di formulazione tecnica». In ogni caso, proseguì Ruini, basterebbe il ripudio della guerra «come risoluzione delle controversie internazionali» perché ciò porterebbe a un chiaro, «definitivo» e categorico rigetto dell’impiego politico della guerra. E che il ripudio della guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» è solo un caso particolare del più generale ripudio della guerra «come risoluzione delle controversie internazionali». Dopo questo chiarimento Zagari, a nome dei socialisti, dichiarò di ritirare l’emendamento, ma aggiungendo una dichiarazione di voto: «Noi riteniamo che, col ripudio della guerra, si intenda anche sotterrare un passato di aggressione che è stato il prodotto di una classe dirigente superata». L’articolo, posto in votazione, venne infine approvato.

In sintesi: una considerazione dei lavori costituenti e quindi una interpretazione soggettiva storica dell’art. 11 Cost. consente di dire che esso nel ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali intende stigmatizzare la guerra come prosecuzione della politica. Questo risulta chiaro alla luce degli interventi e delle proposte del socialista Treves e dell’azionista Valiani, nonché della replica del Presidente Ruini. Il ripudio della guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli» è divenuto nel corso del dibattito alla Costituente da sola forma di guerra ripudiata, da ripudio della guerra di aggressione a caso centrale del più generale «ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», cioè a ripudio della guerra tout court come «continuazione della politica con la forza delle armi», nella scia del divieto contenuto nel Patto Briand-Kellogg e in una prospettiva improntata (Treves e soprattutto Valiani) a una logica che ‘dialetticamente’ vuole emancipare l’Italia tanto dall’imperialismo del blocco occidentale quanto dall’imperialismo del blocco orientale, schiudendo lo spazio per una ancora a venire vera (non Unione europea ma) Europa del diritto. In questo modo all’argomento sistematico discusso sopra al punto 2 si congiunge quello ‘originalista’: la sola guerra autorizzata è quella a difesa della Patria ovvero dell’integrità del territorio della Repubblica italiana (in questo senso, con riguardo alla questione della cessione di armi all’Ucraina si veda Michele Ainis: «Se adottiamo il punto di vista dei costituenti del ’47, non c’è dubbio che avrebbero fortemente dissentito con una co-belligeranza, anche se questa si traduce, come accade oggi, con l’invio di armi e non di eserciti. Questo è pacifico. Se andiamo a guardare i manuali di Diritto costituzionale del primo dopoguerra, è chiaro che l’unica guerra ammissibile è quella difensiva rispetto alla nostra integrità territoriale»). Che Treves e Valiani avessero visto giusto e soprattutto nel lungo periodo?

4. La secretazione delle armi inviate estromette il Parlamento dal controllo della politica estera. Prima di concludere vorremmo soffermarci brevemente su di un ultimo punto, che riguarda aspetti decisivi di diritto costituzionale interno.

I decreti-legge n. 14 e 16 hanno messo il Parlamento di fronte al fatto compiuto: quest’ultimo ha, infatti, autorizzato ‘a scatola chiusa’ il Governo a prendere decisioni chiave in materia di politica estera e difesa. Particolarmente rilevante, sul punto, l’articolo 1 del decreto-legge n. 16 che consente, previo atto di indirizzo delle Camere, la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative ucraine, in deroga alla legge n. 185 del 1990, e agli articoli 310 e 311 del Codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo n. 66 del 2010.

Già il giorno successivo all’emanazione del decreto legge, cioè il 1° marzo, la Camera e il Senato, a conclusione delle comunicazioni rese dal Presidente del Consiglio dei Ministri sugli sviluppi del conflitto tra Russia e Ucraina,  hanno approvato due risoluzioni dal contenuto identico (la n. 6-00207 alla Camera e  la n. 6-00208 al Senato). Inoltre, lo stesso decreto-legge prevede che, con uno o più decreti del Ministro della difesa, adottati di concerto con i Ministri degli affari esteri e della cooperazione internazionale e dell’economia e delle finanze, sia definito l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione. In seguito, nella Gazzetta Ufficiale del 3 marzo è stato pubblicato il DM 2 marzo 2022 recante «Autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle Autorità governative dell’Ucraina ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 28 febbraio 2022, n. 16»: i mezzi, i materiali e l’equipaggiamento sono ceduti a titolo non oneroso per la parte ricevente e sono indicati nell’allegato elaborato dallo Stato maggiore della difesa di cui si «omette la pubblicazione in quanto documento classificato».

Il tutto si è svolto secondo una serratissima scansione temporale che, sommata alla laconicità delle risoluzioni parlamentari menzionate, ha reso evidente la marginalizzazione delle funzioni di co-decisione, indirizzo e controllo del Parlamento. Non solo, in sede di conversione i due decreti-legge sono confluiti in un’unica legge, comprimendo ancora di più le possibilità per i singoli parlamentari di intervenire sul testo e replicando lo schema dei cd. ‘decreti a perdere’ o ‘decreti minotauro’ stigmatizzato nel luglio 2021 anche dal Presidente della Repubblica. Di certo non può essere ritenuta idonea a sanare tali vizi l’audizione del Ministro della Difesa da parte del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (COPASIR) dello scorso 2 marzo, occasione durante la quale – come è stato reso noto nel corso della successiva riunione delle Commissioni affari esteri e difesa della Camera del 9 marzo – il Ministro della Difesa avrebbe fornito «informazioni esaustive sulla tipologia, la quantità e i costi dei materiali ceduti». L’informazione di tale organo ristrettissimo non può esser ritenuta in alcun modo sufficiente a consentire al Parlamento di esercitare un controllo attento e consapevole sulla politica estera del governo.

In sostanza questa vicenda testimonia, sotto il profilo esaminato, una profonda alterazione degli equilibri costituzionali in tema di controllo democratico della politica estera e di difesa. Un’alterazione che non deriva dalla sola compressione dei tempi e dallo svilimento della funzione parlamentare ma anche, e soprattutto, dalla deroga ai principi di pubblicità e trasparenza della decisione politica. I parlamentari hanno infatti convertito in legge un decreto il cui contenuto sostanziale – l’allegato contenente le armi cedute – era a loro ignoto.

La secretazione del decreto impedisce da un lato una corretta informazione di ciascun parlamentare circa elementi fondamentali della politica estera del governo, dall’altro costringe il Parlamento a convertire in legge un decreto senza che siano note caratteristiche fondamentali dello stesso. In tal modo è impedito sia il sindacato ispettivo, sia il diritto ad esaminare i contenuti della legge posta in votazione, che sono prerogative fondamentali di ciascun parlamentare.

L’invio di armi secretato rappresenta un ritorno alla diplomazia segreta tipica dei regimi non democratici ed è quindi inquadrabile come una lesione dei principi dell’ordinamento costituzionale, in cui il Parlamento, organo rappresentativo del popolo, è centrale e deve essere informato sulle linee fondamentali della politica estera, specialmente se si tratta di partecipazione del Paese a conflitti armati.

Conclusioni. L’interpretazione letterale, sistematica e soggettiva-storica del ripudio della guerra di cui all’art. 11 della Costituzione italiana conduce al risultato della illegittimità costituzionale della cessione di armi all’Ucraina. I Costituenti desideravano tenere il popolo italiano fuori non solo da tragiche e sciagurate guerre di aggressione ma pure dalle terribili minacce di guerre tra blocchi che già nel marzo 1947 divenivano sempre più concrete. Resta la questione del rilievo del conflitto risultante tra il dover essere giuridico e i risultati ‘empirici’ in termini di ‘modificazione del mondo’ di tale dover essere, tra le ragioni del diritto e le conseguenze del diritto (Rudolf Wiethölter in Gunther Teubner, pp. 89-120). Il dilemma è ora il seguente: come ‘prendere sul serio’ il ripudio della guerra e al tempo stesso aiutare e soccorrere il popolo ucraino aggredito? Come potrebbe essere configurata l’eventuale dialettica negazione dell’antitesi appena formulata, cioè la ‘non-non costituzionalità’ dell’invio delle armi all’Ucraina? (Vedi qui Paul Watzlawick, John H. Weakland e Richard Fisch, p. 99: «“non a ma anche non non-a”»). Riformulato in termini kantiani: quali sono le condizioni da realizzare prima possibile per ottenere una pace perpetua, cioè stabile e duratura?

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Edoardo Caterina

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