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Riflessioni ‘crepuscolari’: la proposta della Commissione Europea per un recesso coordinato dal Trattato sulla Carta dell’Energia

Mattia Colli Vignarelli (Università degli Studi di Torino)

1. Introduzione

L’epopea del Trattato sulla Carta dell’Energia (TCE) è entrata in una nuova fase. Quanto durerà non è ancora dato stabilirlo: dipende in larga parte dalle scelte degli Stati e dalla creatività dei giuristi. Ma, di fatto, siamo giunti al crepuscolo.

Il 7 luglio 2023 la Commissione Europea ha pubblicato la propria proposta per il recesso ‘coordinato’ dell’Unione, dei suoi Stati Membri e dell’Euratom dall’accordo. Si badi bene, la vicenda non finirà affatto qui. Come nelle migliori storie, ogni capitolo svela nuovi dettagli, chiude alcuni filoni narrativi e ne apre di nuovi, stimola la curiosità e lascia spazio all’immaginazione del lettore. Così, anche la saga del TCE è destinata a protrarsi ancora a lungo, e altrettanto il vivace dibattito ad essa correlato (solo su questo blog, a commento di alcune delle ultime tappe, si vedano Munari e Cellerino; Zarra; Cellerino; Lampo; Bergamaschi).

Il ‘tramonto’ del TCE si spiega in primo luogo rilevando che esso costituisce «a formidable practical obstacle to the transition to greener energy» (Klabbers), un tassello fondamentale di un modello di governance dell’energia fondato sull’espansione dell’estrazione e del consumo di fonti fossili. La stessa Commissione europea, stante l’impossibilità di approvare il testo riformato dell’accordo (ritenuto comunque inadeguato da svariati Stati Membri: sulla questione sia permesso rinviare ad un nostro recente contributo), considera il recesso inevitabile, per via dell’incompatibilità del TCE vigente con la propria politica energetica e climatica.

Vi è chi contesta tale posizione facendo riferimento ai numerosi ricorsi proposti da imprese che operano nel settore delle rinnovabili (si veda per esempio qui), che dimostrerebbero il potenziale dell’arbitrato investitore-Stato nel promuovere la transizione energetica. A nostro avviso, si tratta di una posizione poco convincente, perché non mette in discussione la correlazione mai dimostrata fra arbitrato e aumento dei flussi di investimento (vd. ad es. Arcuri e Violi) e, peraltro, non considera gli effetti distorsivi dell’arbitrato proprio nella gestione degli incentivi alle rinnovabili (vd. Tienhaara e Downie).

Nel contesto qui richiamato, il post esaminerà brevemente la proposta della Commissione Europea, soffermandosi soprattutto su come essa (non) affronti le conseguenze giuridiche del recesso dal TCE. Infatti, per quanto l’UE e i suoi Stati Membri possano decidere di affrontare questo passo in maniera ‘coordinata’, ci troveremmo pur sempre di fronte all’avvio congiunto di procedure unilaterali, ai sensi dell’art. 47 TCE. Come è noto, il principale elemento problematico è la cd. sunset clause di cui all’47(3) TCE, la quale dispone che:

«The provisions of this Treaty shall continue to apply to Investments made in the Area of a Contracting Party by Investors of other Contracting Parties or in the Area of other Contracting Parties by Investors of that Contracting Party as of the date when that Contracting Party’s withdrawal from the Treaty takes effect for a period of 20 years from such date».

Indipendentemente dal dibattito sull’arbitrabilità delle controversie intra-UE (oggetto ex multis dei contributi sul questo blog sopra citati), una qualsiasi parte recedente dovrebbe considerare con attenzione tale clausola, che estende l’applicazione del trattato per ben vent’anni dall’entrata in vigore del recesso. Ciò è ben noto all’Italia, che ha esercitato il recesso dal TCE già nel 2016, ma che nel caso Rockhopper c. Italia è stata condannata a risarcire la ricorrente per un ammontare superiore ai 240 milioni di euro. L’investitore aveva potuto avviare la procedura di arbitrato nel 2017 – dopo l’acquisizione di una compagnia petrolifera britannica cui era stato negato il permesso di sfruttamento del sito Ombrina Mare – proprio grazie agli effetti della sunset clause (sul lodo si vedano ad es. Bohmer; Marzal; Mazzotti).

Il presente contributo intende dunque fare il punto sulla fragilità nell’approccio della Commissione alla questione del recesso dal TCE e individuare le possibili strade per un recesso coerente con l’ambizione di rimuovere ciò che l’Unione Europea afferma essere un ostacolo all’attuazione di misure di contrasto al cambiamento climatico e alla transizione energetica.

2. L’ultimo travagliato anno del TCE, in breve

L’accordo in principio sulla ‘modernizzazione’ del TCE fu annunciato in contemporanea dal Segretariato della Carta sull’Energia e dalla Commissione europea il 24 giugno 2022. La Commissione, in particolare, sottolineò di aver ottenuto «a coherent and up-to-date framework» in grado di fornire «legal certainty and […] a high level of investment protection while reflecting clean energy transition goals and contributing to the achievement of the objectives of the Paris Agreement».

Tale fiducioso entusiasmo, tuttavia, non servì a evitare lo strappo di alcuni Stati membri. Nelle settimane successive alla comunicazione sull’accordo, i governi di Spagna, Polonia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Germania e Lussemburgo, seguiti poi dalla Danimarca, annunciarono la decisione del recesso. Secondo alcune fonti dello scorso aprile, Austria, Irlanda e Portogallo sembravano in procinto di unirsi al gruppo, rimanendo forse in attesa di una decisione da parte della Commissione. Ad oggi, soltanto Germania, Polonia e Francia hanno inviato la notifica ufficiale al depositario del trattato ai sensi dell’art. 47(1) TCE. Ad esse, come detto sopra, va aggiunta l’Italia.

Intanto, la Conferenza delle parti del TCE – inizialmente fissata il 22 novembre 2022 – dovette essere rimandata all’aprile successivo, e poi a data da destinarsi, per via dell’opposizione a qualsiasi ipotesi di approvazione del testo riformato da parte del Parlamento europeo e di una minoranza di blocco in seno al Consiglio. A quel punto, la Commissione si vide costretta ad accettare la prospettiva del recesso, considerato ormai inevitabile (vd. il ‘non-paper’ diffuso in rete nel febbraio 2023). La proposta per effettuare tale passo in maniera ‘coordinata’ venne dunque divulgata lo scorso 7 luglio.

3. Il contenuto della proposta e i suoi problemi

La parte rilevante della proposta della Commissione, nella quale si prende in considerazione l’attivazione della sunset clause quale conseguenza giuridica del recesso, afferma:

«Article 47.3 of the ECT would have no impact on intra-EU relations, to which the ECT has never, does not and will never apply, including its Article 47.3. However, […] there is a risk of legal conflict that must be eliminated. The Commission remains of the view that the appropriate response is to adopt an instrument that is a ‘subsequent agreement between the parties regarding the interpretation of the treaty or the application of its provisions’ within the meaning of Article 31(3)(a) of the Vienna Convention on the Law of Treaties (VCLT), among the Member States, the Union and EURATOM. […] The interpretation of the EU and its Member States [should be codified] in a separate treaty (something that is possible because of the bilateral nature of the obligations).

La Commissione riconosce innanzitutto il rischio di «legal conflict» che deriva dal recesso unilaterale. Non è un mistero, infatti, che per quanto la Corte di Giustizia sia granitica nel sostenere l’incompatibilità dell’arbitrato intra-UE con il principio di autonomia del diritto dell’Unione Europea (e si vedano i già citati Munari e Cellerino; Cellerino), altrettanto ferma è la posizione dei tribunali arbitrali nel confermare la propria giurisdizione (sempre qui, Zarra), salvo il caso per ora isolato di Green Power v. Spain (commenti di Lampo e Bergamaschi). In altre parole, per via della sunset clause lo scontro è destinato a proseguire, vanificando in parte la portata concreta del recesso.

Tuttavia, la proposta della Commissione per affrontare questo problema è semplicemente impraticabile. Nel descrivere la stipula di una sorta di ‘accordo interpretativo inter se’, la Commissione sovrappone l’Art. 31(3)(a) e l’art. 41 CVDT. Il primo riguarda gli accordi interpretativi, il secondo gli accordi di modifica intercorrenti fra alcune parti di un trattato multilaterale. Tale fraintendimento si intuisce dalla precisazione secondo cui l’accordo interpretativo sarebbe possibile «because of the bilateral nature of the obligations». Così formulata, la proposta della Commissione non sembra avere fondamento giuridico. Gli accordi interpretativi operano ex tunc e richiedono l’unanimità delle parti del trattato. Al contrario, gli accordi modificativi operano ex nunc e la loro legittimità dipende dal rispetto delle condizioni dell’art. 41 CVDT. I due strumenti, semplicemente, non sono sovrapponibili (l’argomento non sembra richiedere ulteriore approfondimento, ed è stato esaurito da Morgandi e Bartels).

Proseguendo su questa strada, la Commissione non affronterebbe adeguatamente il problema della sunset clause, dando addirittura l’impressione di non voler fino in fondo porre rimedio alla questione.

4. I contorni di una strategia possibile

Per quanto al momento la proposta di recesso coordinato sia formulata in termini insoddisfacenti, essa contiene il nucleo di una possibile strategia. Ad avviso di chi scrive, infatti, una strada per eliminare ‘alla radice’ il problema della sunset clause (e, insieme, dell’arbitrato intra-UE) esiste, ma non può fondarsi sulla mera reiterazione della posizione secondo cui il diritto dell’Unione prevale sul diritto internazionale nei rapporti fra Stati membri, che i tribunali arbitrali hanno ripetutamente mostrato di ignorare.

La Commissione non dovrebbe promuovere un impraticabile accordo interpretativo, ma piuttosto un vero e proprio accordo inter se che estingua l’art. 47(3) TCE fra le parti del regime modificato. A seguito di tale accordo (a patto che, come si dirà sotto, esso sia legittimo ai sensi del diritto internazionale) il recesso potrebbe fare seguito senza ulteriori conseguenze. Naturalmente, la sunset clause continuerebbe ad operare nei rapporti con gli Stati terzi all’accordo inter se.

Si noti bene, un accordo in tal senso non dovrebbe essere a priori raggiunto solo dagli Stati membri dell’Unione, ma potrebbe al contrario essere aperto anche ad altre parti contraenti del TCE, indipendentemente dalla loro eventuale scelta di recedere dal trattato. Naturalmente, non si tratta di una scelta priva di rischi, come si vedrà fra poco. Tuttavia, quanto più la strategia sarà condivisa, tanto più è possibile che la strada del recesso porti all’esito sperato.

5. Brevi spunti sulla legittimità di una modifica inter se del TCE

Non è questa la sede in cui discutere approfonditamente la legittimità dell’accordo inter se sopra delineato. Ciononostante, si intende qui richiamare schematicamente il percorso argomentativo che porta a tale soluzione.

Innanzitutto, gli accordi inter se sono legittimi, ai sensi dell’art. 41 CVDT, se espressamente previsti ovvero non proibiti dal trattato. Il TCE non contiene alcun divieto esplicito di modifica inter se, dunque essa è ammissibile se rispetta le due ulteriori condizioni stabilite dallo stesso art. 41 CVDT, di cui si dirà sotto. Esistono però due possibili obiezioni da superare. Innanzitutto, la modifica potrebbe essere considerata un aggiramento del divieto di riserve di cui all’art. 46 TCE (Klabbers fa menzione di questa ipotesi). A tal proposito, occorre semplicemente ricordare che l’art. 41(1)(b) CVDT si riferisce esclusivamente ai divieti espliciti (cfr. ad es. Villiger). In secondo luogo, considerando l’accordo inter se quale caso particolare di accordo successivo relativo alla stessa materia del regime generale, si potrebbe affermare che la modifica sia proibita dall’art. 16 TCE. Tale disposizione, infatti, prevede la prevalenza del regime più favorevole agli investitori in caso di conflitto fra due trattati concernenti la protezione degli investimenti e la soluzione delle controversie a ciò relative (ad es. Morgandi e Bartels affrontano questo argomento). Tuttavia, si può sostenere che l’art. 41 CVDT risponde all’esigenza di prevenire l’insorgere di conflitti normativi. Da ciò deriva che l’art. 16 TCE, quale norma di soluzione dei conflitti, non ha rilevanza. Infatti, il rispetto o il mancato rispetto delle condizioni poste dall’art. 41 determinano nell’ordine l’applicazione del regime modificato fra le parti dell’accordo inter se o la sua disapplicazione nel caso concreto. Inoltre, un’interpretazione estensiva dell’art. 16 TCE determinerebbe nuovamente un divieto implicito, in contrasto con la ratio della disciplina degli accordi di modifica (ricostruita ad es. da Fitzmaurice e Merkouris).

Come si anticipava, per valutare la legittimità dell’accordo inter se occorre allora esaminare il rispetto delle due condizioni poste dall’art. 41.La prima condizione è che l’accordo inter se «does not affect the enjoyment by the other parties of their rights under the treaty or the performance of their obligations». Nel determinare se questa condizione è soddisfatta, la distinzione tra obblighi di natura reciproca e obblighi erga omnes partes sembra giocare un ruolo decisivo. La sunset clause chiaramente non determina obblighi il cui rispetto è interesse comune di tutte le parti del trattato, dunque ha natura reciproca. Pertanto, la prima condizione sembra essere soddisfatta.

La seconda condizione richiede che la modifica non riguardi «a provision, derogation from which is incompatible with the effective execution of the object and purpose of the treaty as a whole». Si può concordare che la sunset clause sia connessa all’oggetto e allo scopo del TCE, riassumibile nell’ampia formula espressa dall’art. 2 TCE («long term cooperation in the energy field»). Tuttavia, ciò non dimostra affatto che una deroga a tale disposizione fra alcune parti sia incompatibile con l’effettiva esecuzione dell’oggetto e dello scopo del trattato «as a whole». Il modo più fondato di interpretare tale condizione sembra quello di leggerla congiuntamente alla prima (cfr. Pauwelyn): se l’obbligo cui si intende derogare ha struttura reciproca, una sua modifica non solo non pregiudicherà la sfera dei diritti e degli obblighi delle altre parti ma, come logica conseguenza, non avrà effetti apprezzabili sull’effettiva esecuzione dell’oggetto e dello scopo del trattato nel suo insieme (vd. anche Dörr e Schmalenbach). Dunque, anche la seconda condizione è soddisfatta.

6. Conclusioni

Il breve itinerario argomentativo proposto riassume i punti in cui, al bivio fra due scelte, si è adottata quella più favorevole alle esigenze di flessibilità espresse dagli Stati che intendono escludere la sunset clause nei loro reciproci rapporti. Tuttavia, sono senz’altro possibili ricostruzioni diverse. La non modificabilità della sunset clause è stata sostenuta anche di recente (da Morgandi e Bartels), per giungere ad esaminare un argomento ancor più ‘radicale’, quello dell’attivazione della norma rebus sic stantibus, codificata dall’art. 62 CVDT. Le parti dovrebbero invocare un «fundamental change of circumstances» quale base giuridica per il recesso unilaterale dal trattato. In particolare, gli autori affermano che:

«the ‘circumstance’ that underpinned the ECT, […] was that promoting the production, trade, and use of fossil fuels did not undermine the goals of the UNFCCC. On the contrary, as can be seen from the reference to the UNFCCC in the ECT’s preamble, it was thought that the ECT would contribute to these goals by promoting more efficient techniques in the hydrocarbon life cycle. This circumstance has now radically changed».

Si tratta di una soluzione che ha l’indubbio pregio di tradurre nel linguaggio del diritto le ragioni materiali del recesso dal TCE, senza nasconderle dietro i tecnicismi degli accordi inter se. Tuttavia, su tale argomento si è già espresso con una preoccupata nota il segretariato della Carta sull’Energia, ricordando la pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Gabčíkovo-Nagymaros Project. Può essere condivisibile, come sostengono gli autori, che il test effettuato dalla Corte nel caso in questione (vale a dire che la circostanza radicalmente mutata debba essere «completely unforeseen» per consentire l’applicazione della norma) sia eccessivamente rigido rispetto al dettato dell’art. 62 CVDT (che fa semplicemente riferimento al fatto che circostanze «which [were] not foreseen by the parties, may not be invoked», suggerendo un test di ragionevole probabilità), ma ciò non esclude che esso possa essere senza troppa difficoltà applicato dai tribunali arbitrali per negare la legittimità di un recesso fondato su questa disposizione.

Allo stesso modo, peraltro, è inevitabile notare che la giurisprudenza dei tribunali arbitrali (ampiamente citata per es. da Lampo, che esclude la modificabilità inter se delle disposizioni del TCE in materia di soluzione delle controversie) sembra mettere in discussione la ricostruzione qui proposta. Da essa, al contrario, si ricava un’interpretazione estensiva dell’art. 16 TCE, nonché per converso una lettura estremamente restrittiva del margine di modifica inter se del TCE.

Per questa ragione, la strada di un recesso ‘coordinato’, anche nella versione qui proposta, rimane impervia. I tribunali arbitrali potrebbero confermare la propria giurisdizione, sostenendo che l’accordo inter se sia illegittimo e determinandone la disapplicazione nel caso concreto, ritenendo la sunset clause ancora in vigore. Per utilizzare il linguaggio della Commissione nella sua proposta, ciò determinerebbe la ‘circolazione’ di lodi che contrastano con la volontà inequivocabilmente espressa dai masters of the treaty. L’estrema conseguenza, per gli Stati colpiti da tali pronunce, sarebbe quella di rifiutarsi di darvi attuazione, finanche invocando l’immunità dalla loro esecuzione in giurisdizioni straniere, con tutte le complicazioni che da ciò derivano (ad es., con riguardo all’art. 55 della Convenzione ICSID, Reinisch).

Jan Klabbers commenta laconico, con riguardo al recesso dal TCE:

«If there is one thing the episode demonstrates, it is that while international law may operate through states, it rarely turns those states themselves into winners and losers. Instead, the winners here are the investors; the losers are all of us, due to the urgent need for green transition, and if compensation must be paid, it will have to come from taxpayer’s money. A mere withdrawal by a number of states seems too facile, and it is difficult to justify in international law terms. The simple withdrawal from the ECT without affecting the sunset clause amounts to taking a moral holiday: grandstanding, without actually doing much and hoping that symbolic action will be politically effective, or else just hoping that the clock will tick the next twenty years away and the planet does not perish in the meantime».

Ci sembra ragionevole sostenere che l’Unione Europea e i suoi Stati Membri debbano adottare la strada di un accordo inter se e del successivo recesso dal TCE, in coerenza con gli obiettivi climatici e l’impellente esigenza di accelerare la transizione energetica. Come si è avuto modo di vedere, esistono argomenti convincenti a sostegno della legittimità di tale soluzione, per quanto non si possa negare l’esistenza di ostacoli concreti al loro accoglimento.

L’approccio dell’Unione Europea è stato definito in questo blog «una vera e propria crociata contro il meccanismo di arbitrato internazionale in materia di investimenti» (Zarra). A noi sembra che – se di crociata si deve parlare – finora essa sia stata condotta con un esercito sguarnito e con armi spuntate. Se l’obiettivo è davvero lasciarsi alle spalle un sistema ritenuto strutturalmente sbilanciato a favore degli interessi privati e drammaticamente inadeguato ad affrontare le sfide che derivano dalla crisi climatica, per raggiungere tale scopo l’Unione e i suoi Stati Membri dovrebbero essere pronti ad utilizzare tutti gli strumenti giuridici a loro disposizione. Tuttavia, a quel punto la crociata diventerebbe una cosa seria. Non è dato sapere se esista la volontà politica di spingersi a tanto.

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