diritto internazionale pubblicoDiritto penale internazionale

«GREAT EXPECTATIONS»: PRIME CONSIDERAZIONI SULL’ISTITUZIONE DI UN TRIBUNALE SPECIALE PER L’AGGRESSIONE DELL’UCRAINA

Maddalena Cogorno (Università di Firenze)

Il 14 maggio 2025, in occasione della riunione annuale del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, a Lussemburgo, l’Ucraina ha formalmente richiesto al Consiglio d’Europa di istituire un Tribunale speciale per il crimine di aggressione (TSA) e il Comitato ha invitato il Segretario Generale a guidare il processo di istituzione, che ha così preso avvio.

Il Tribunale, dunque, si farà e anche piuttosto rapidamente: la sua inaugurazione potrebbe già avvenire nel corso del 2025.

La bozza di statuto non è ancora stata resa pubblica ma, sulla base di informazioni diffuse dal Consiglio d’Europa, è possibile iniziare a riflettere sul ruolo e il funzionamento del futuro tribunale.

La prima domanda che sorge è che tipo di tribunale sarà.

Negli ultimi decenni, infatti, la repressione dei crimini internazionali si è realizzata in una varietà di forme: tribunali domestici (anche attraverso la giurisdizione universale), tribunali puramente internazionali (ICC, ICTY/ICTR), nonché grazie ai c.d. “tribunali ibridi” che, dopo un periodo di quiescenza, sono tornati in auge dal 2015 (Corte penale speciale in Repubblica Centrafricana (CPS), Kosovo Specialist Chambers (KSC)).

A prima vista, il TSA sembra configurarsi come un tribunale internazionale. Esso avrà competenza solo sul crimine di aggressione, come definito nella risoluzione 3314 (xxix) dell’Assemblea generale ONU, commesso sul territorio dell’Ucraina da «senior political and military leaders who are responsible for planning, preparing, initiating, or executing the crime». L’assenza di riferimenti espliciti alla nazionalità dei leader amplia la competenza ratione personae del tribunale, rendendola più universale e ammettendo che individui di qualsiasi nazionalità che abbiano avuto un ruolo significativo nell’aggressione dell’Ucraina potranno essere perseguiti di fronte al TSA; così come l’assenza di riferimento al diritto nazionale ucraino, con l’esclusione quindi della possibilità di perseguire anche reati ordinari (tipico dei tribunali misti), allontana il tribunale dal sistema giudiziario ucraino, sottolineandone l’internazionalità. Anche la sede, che verrà definita nei prossimi mesi e che, per ragioni di sicurezza e di fluidità nella cooperazione con Eurojust e la Corte penale internazionale, si prevede sia posta a L’Aja, città simbolo della giustizia internazionale, confermerebbe questa vocazione internazionale del TSA.

Alcuni tratti già rivelati della conformazione del tribunale, però, potrebbero tradire il modello puramente internazionale e spingere il TSA nel ventaglio dei tribunali misti, caratterizzati da una sintesi di elementi strutturali e funzionali tipici sia di tribunali interni sia di tribunali internazionali

Il TSA, infatti, secondo quanto reso noto, «will be established within the framework of the Council of Europe» ma «will derive its jurisdiction from Ukraine»: non è chiaro, quindi, se la base giuridica del tribunale sarà (come avvenne per la Corte Speciale per la Sierra Leone) direttamente l’accordo internazionale tra il Governo ucraino e il Consiglio d’Europa, o, come nel caso – ad esempio – delle Kosovo Specialist Chambers, la legislazione nazionale attuativa. Certo è che, assente una delle due fonti, il tribunale non può prendere vita, almeno nelle forme immaginate e che quindi una qualche sorta di collegamento con l’Ucraina lo ancorerà al sistema giudiziario nazionale, come è tipico dei tribunali misti.

Anche la composizione delle Camere, che in molti tribunali misti includeva sia personale nazionale sia reclutato a livello internazionale e che rappresenta un fattore chiave per la definizione della natura di una corte, potrebbe allontanare il TSA dal modello puramente internazionale. Infatti, se la puntualizzazione che sia il procuratore sia i giudici «would not need to be a national of a state that is Member or Associate Member of the Management Committee» sembrerebbe suggerire che non via sia spazio riservato a giudici nazionali, sarà interessante verificare se, in linea con l’esperienza delle KSC, tutto il personale dovrà avere nazionalità non ucraina o se, pur non esistente una quota prevista di giudici ucraini, i giuristi ucraini potranno partecipare all’attività del tribunale.

Infine, il tribunale sarà finanziato su base volontaria da un gruppo di Stati, non necessariamente membri del Consiglio d’Europa, «in cooperation with Ukraine»: quest’ultima precisazione sembra sottolineare una particolare responsabilità dell’Ucraina nel garantire risorse al TSA, come fu il caso delle Camere per la Cambogia, e dei Panels in Timor Leste.

La definizione di tali elementi non è mai neutra: ogni scelta, infatti comporta significative ripercussioni in termini di legittimazione della corte, capacity-building, transitional justice e peacebuilding, che sono stati inizialmente riconosciuti come effetti “collaterali” stragiudiziali dell’attività processuale dei tribunali misti, ma che sono divenuti così importanti da essere posti, nelle corti più recentemente istituite, una finalità esplicita, nonché un loro tratto identitario. Funzioni di tal genere sembrano, in effetti, affidate anche al TSA, che, secondo quanto diffuso dal Consiglio d’Europa, avrà il compito di «reaffirm the fundamental principle that war must not be waged as a tool of state policy» e rappresenterà «an investment in global peace, justice and the credibility of international law». Diversamente dai tribunali misti, però, queste funzioni sembrano rivolgersi all’intera comunità internazionale e non essere volte specificatamente a ricostruire il tessuto sociale dell’Ucraina, presumibilmente in ragione della natura stessa del crimine di aggressione, che non comporta un logoramento interno allo Stato, quanto piuttosto un deterioramento delle relazioni tra Stati e della rule of law internazionale.

Qualora gli elementi ancora indefiniti accentuassero il coinvolgimento dell’Ucraina nel lavoro del tribunale, esso potrebbe più convintamente essere ricondotto nell’alveo delle corti ibride, andando a confermare, peraltro, anche le più recenti tendenze manifestate in riferimento a tale fenomeno: l’iniziativa per l’istituzione della corte proveniente dalla comunità internazionale, più che dallo Stato interessato, il coinvolgimento di un’organizzazione regionale e non più (o non principalmente) delle Nazioni Unite in un’ottica di regionalizzazione della repressione di crimini internazionali, una struttura accentrata e parallela o distaccata rispetto ai tribunali dello Stato coinvolto.

Infatti, la richiesta del 14 maggio rappresenta il culmine di un percorso iniziato subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, più di tre anni fa. La proposta di ricorrere ad un Tribunale speciale per perseguire il crimine di aggressione fu avanzata da giuristi e funzionari governativi ucraini già nel febbraio 2022, ma guadagnò rapidamente il sostegno di giuristi internazionali, organizzazioni per i diritti umani e numerosi Stati, per la maggioranza europei, e l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa fu il primo organo ad invocarne l’istituzione nell’aprile 2022, appena due mesi dopo l’invasione.

Anche l’Unione europea si attivò rapidamente: a novembre 2022 la Commissione europea presentò agli Stati membri diverse opzioni per garantire la responsabilità del crimine di aggressione contro l’Ucraina, confluite poi nel lavoro del Core group attivato da gennaio 2023 con rappresentati di diversi Stati e organizzazioni internazionali. Così, con un fortissimo coinvolgimento e una significativa propulsione delle organizzazioni regionali, sono state gettate le basi per l’istituzione di un tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina, fino all’elaborazione dello statuto che ne regolerà il funzionamento.

Un altro tratto peculiare degli ultimi tribunali ad hoc istituiti e che si riproporrà nel funzionamento del TSA, è la necessità di affrontare il tema della complementarità con la Corte penale internazionale. Al pari della CPS in Repubblica Centrafricana, infatti, il tribunale si rivolgerà ad una situazione su cui la CPI sta già indagando. A differenza della CPS, che ha competenza su tutti i crimini internazionali e che sembra volersi combinare “verticalmente”, sul piano della competenza personale, con il lavoro della CPI, tramite un’implicita suddivisione per la quale a quest’ultima verrebbero riservati i “big fish” e alla prima altri imputati di rango inferiore, nel caso del TSA è esplicitato che, siccome la CPI «currently lacks the legal authority to prosecute the crime of aggression in this case due to jurisdictional limitations […] The Special Tribunal will fill this gap», proponendo una sorta di “complementarità orizzontale” ratione materiae, sul piano del tipo di crimine indagato. In ipotesi di competenza concorrente, però, in entrambi i casi, è alla CPI che viene riconosciuta primazia. Questo spostamento di baricentro in favore del tribunale de L’Aja sembra convalidare la teoria della “complementarità positiva” proposta da Nouwen e Kersten: nonostante lo Statuto di Roma preveda un meccanismo di complementarità per cui la CPI può essere attivata solo successivamente ad una verifica che le giurisdizioni interne siano «unable or unwilling» a procedere,la prassi dell’ufficio della procura si è sviluppata in un senso parzialmente differente, premurandosi di ricordare, quando occuparsi di un caso di fronte alla CPI si è rivelato difficoltoso, l’importanza di preferire processi a livello locale, e viceversa, incoraggiando vivacemente il referral da parte degli Stati quando è apparso agile procedere di fronte alla CPI stessa. Secondo tale teoria, si rafforza così un’ideologia per cui la dimensione internazionale sarebbe preferibile per la repressione dei crimini internazionali, a scapito di quel principio di sussidiarietà che invece anima lo spirito dello Statuto di Roma. Il TSA, pur non essendo una corte nazionale, è comunque frutto della volontà e abilità dello Stato di procedere, sebbene in concerto con la comunità internazionale, e sembra porsi in una relazione ambigua con la CPI, volendone evidenziare la centralità quando questa riesce ad attivarsi, ma tentando, contemporaneamente, di aggirarne i limiti (e quindi, all’atto pratico, in una certa misura delegittimandola), quando essa si rivela inerme, in una specie di innovativa “complementarità inversa”.

Quello della complementarità, però, non è l’unico tratto problematico del lavoro del TSA. Il tribunale, infatti, presenta anche delle questioni nuove, che implicano delle criticità peculiari.

Il TSA sarà il primo tribunale ad occuparsi del crimine di aggressione nella sua forma attuale, nonché il primo tribunale istituito ad hoc per rivolgersi ad una situazione che non abbia carattere – puramente o primariamente – interno allo Stato interessato. L’esperienza più simile potrebbe essere riconosciuta nel lavoro delle Extraordinary African Chambers, che, però, sono state considerate un tribunale meramente nazionale, operante secondo il principio di giurisdizione universale grazie all’assistenza internazionale. Tale novità, connaturata alla struttura stessa del crimine di aggressione, convogliata nella forma di un tribunale ad hoc rischia di trasformare la repressione dei crimini internazionali in un utilizzo strategico e politicizzato del diritto internazionale. Il pericolo, infatti, è quello di plasmare il sistema di giustizia internazionale, ricorrendo all’istituzione di un tribunale internazionale laddove gli Stati (principalmente occidentali) desiderino condannare politicamente l’azione di un certo Stato, in una versione deformata di quella victor’s justice che tanto fu criticata a Norimberga, e pure in una forma più estrema, considerato che, al netto delle molteplici criticità, il tribunale per i crimini dei nazisti lavorò al termine del conflitto e non durante come farà il TSA – altra circostanza che ne sottolinea la potenzialità di strumento politico di lawfare. Tale politicizzazione erode l’universalità della repressione dei crimini internazionali, ponendo in campo evidenti double standard e ignorando altre situazioni (come l’aggressione continua da parte di Israele dei Territori Palestinesi) di cui è scomodo o meno conveniente occuparsi. Questa posizione sembra, in effetti, confermata nella dichiarazione resa dal Consiglio d’Europa che «The tribunal will reaffirm the fundamental principle that war must not be waged as a tool of state policy», che pare voler mutare il TSA in uno strumento principalmente politico. A cascata, il rischio è quindi, di ulteriormente minare la credibilità del funzionamento e della tenuta del diritto internazionale, già gravemente compromesso.

Criticabile, ancora nel senso della credibilità dell’operato del tribunale, è la scelta di ammettere la conduzione di processi in absentia, esclusi di fronte alla CPI dall’art. 63 dello Statuto di Roma, come innanzi a ICTY (art. 21 dello Statuto), ICTR (art. 20 dello Statuto), alla Corte Speciale per la Sierra Leone (art. 17 dello Statuto) e alle Camere per la Cambogia (art. 81 delle Internal Rules). La scelta del TSA, in realtà, non è del tutto sorprendente, vista la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che li ammette, pur con le dovute garanzie, riconoscendo che «the impossibility of holding a trial by default may paralyse the conduct of criminal proceedings, in that it may lead, for example, to dispersal of the evidence, expiry of the time-limit for prosecution or a miscarriage of justice». Ciononostante, la possibilità di procedere in absentia di fronte al TSA richiama fortemente l’esperienza dello Tribunale Speciale per il Libano (STL), che vide tutti i casi svolgersi assenti gli imputati e che fu aspramente criticata. Se dalla prospettiva della tutela dei diritti dell’imputato questa scelta di per sé non viola le prerogative dell’individuo, dal punto di vista dell’effettività del lavoro del tribunale e della sua percepita legittimità da parte della comunità internazionale e della società civile, essa è decisamente meno auspicabile: il rischio è la riduzione del lavoro del TSA ad un esercizio meramente simbolico ed intellettuale, per dare una forma processuale ad una condanna politica che è già possibile, con altri strumenti e che è già, almeno parzialmente, in atto, ad esempio con processi di fronte alla Corte europea dei diritti umani per le violazioni della CEDU nel contesto dell’aggressione, che si stanno svolgendo senza la partecipazione della Federazione Russa, uscita dal Consiglio d’Europa nel novembre 2022. Istituire un tribunale, condurre processi, emettere sentenze senza la presenza degli individui interessati (senza quindi, dalla loro prospettiva, una variazione delle loro vite), che possono nel frattempo continuare a condurre le proprie funzioni, comporta il pericolo di minimizzare qualsivoglia effetto deterrente e di frustrare le aspettative delle vittime, in un’epoca in cui la percezione dell’efficacia del diritto internazionale è fondamentale per garantire cooperazione e supporto.

Proprio le vittime, poi, rimangono una questione aperta, su cui solo la pubblicazione dello statuto del TSA potrà gettare luce. Se, da una parte, il coinvolgimento delle vittime nei processi per i crimini internazionali è ormai un elemento fondamentale del funzionamento dei tribunali penali internazionali e ibridi, fino quasi a sfociare in un “victim-centered approach” che dimentica la vocazione originaria dei tribunali di discernimento delle responsabilità, caricandoli invece di compiti di transitional justice che per loro natura possono solo parzialmente soddisfare, dall’altra il TSA sarà il primo tribunale a doversi interrogare sullo spazio da concedere alle vittime del crimine di aggressione, che non ha – a differenza degli altri crimini internazionali – obiettivo primario di colpire gli esseri umani ma che vede nello Stato aggredito la propria vittima principale. Spetterà dunque al TSA definire per tale crimine il concetto di vittima, che l’art. 85 delle Regole di procedura e prova della CPI  identifica invece, genericamente, come «natural persons who have suffered harm as a result of the commission of any crime within the jurisdiction of the Court», incluse le «organizations or institutions that have sustained direct harm to any of their property which is dedicated to religion, education, art or science or charitable purposes, and to their historic monuments, hospitals and other places and objects for humanitarian purposes». Tale formulazione, applicato nel caso dell’aggressione, porterebbe a riconoscere quali vittime anche civili danneggiati in modi che non sono necessariamente contrari ai diritti umani o al diritto umanitario internazionale, come quelli spinti a fuggire dal contesto di guerra, pur non essendo forzati a farlo, o coloro che non sono in grado di accedere a cibo o cure mediche a causa di un collasso dei servizi, così come, addirittura, membri delle forze armate dello Stato vittima che siano stati uccisi o feriti nel corso dell’aggressione, anche se in conformità alle norme del diritto internazionale umanitario. Questa impostazione sembra, in effetti, rispecchiarsi nel lavoro del Register of Damage for Ukraine, meccanismo istituito dal Consiglio d’Europa, che ha mandato di raccogliere «all eligible claims seeking compensation for the damage, loss and injury inflicted by the aggression of the Russian Federation in and against Ukraine» e che, in tale espressione, include reclami presentati da individui, persone giuridiche e dallo Stato stesso, relativi a spostamenti involontari della popolazione, violazioni dell’integrità fisica e psichica, distruzione di proprietà, danni economici e perdita di accesso ai servizi pubblici. Poiché il Registro potrà rivelarsi una fonte preziosa di prove già catalogate e selezionate, è probabile che esso rientri tra quegli organi (come la stessa CPI, l’International Centre for the Prosecution of the Crime of Aggression against Ukraine (ICPA) o la Commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio ONU per i diritti umani) con cui il TSA dovrà attivare forme di cooperazione e dialogo, anche nella gestione delle procedure di riparazione delle vittime. Una via percorribile, per evitare di soffocare il tribunale con una mole mastodontica di richieste da parte delle vittime, potrebbe essere allora quella, in parte scelta dalla CPI con il meccanismo del Trust Fund, di centralizzare in un apposito organo la gestione delle richieste delle vittime del crimine di aggressione, magari affidando al Registro stesso l’esecuzione di eventuali ordini di riparazione e la garanzia di assistenza morale e materiale dei soggetti identificati come vittime.

Ultimo, ma non certo per importanza, profilo critico del preannunciato funzionamento del TSA coinvolge il riconoscimento dell’immunità dei capi di Stato e di governo e dei ministri degli affari esteri. Mettendo le mani avanti, infatti, il documento che delinea la struttura del tribunale anticipa che «There are clear legal, political and practical obstacles [to bring Russian leaders to trial] — notably, the immunity of sitting Heads of State, Heads of Governments and Foreign Ministers (so-called “troika members”) and difficulties in obtaining physical custody over potential defendants. However, international law is evolving, and personal immunity is not a carte blanche for impunity. The “troika members” could only be brought to trial before the Special Tribunal if they were no longer in power or their immunity had been waived. However, investigations and the gathering of evidence can be conducted, indictments can be prepared, and a legal body will stand ready to prosecute and try the persons concerned if and when circumstances allow». La questione è risalente e ancora dibattuta, nonostante si possa ormai dire risolta per quanto riguarda la possibilità di esercitare la giurisdizione sui capi di Stato, di governo e i ministri degli affari esteri da parte dei tribunali penali internazionali, tanto che sia gli statuti, sia la giurisprudenza di ICTY, ICTR, della CPI (vedasi il caso Al Bashir e l’art. 27 dello Statuto di Roma), hanno affermato l’irrilevanza delle immunità su tali soggetti. Anche tutti i tribunali misti finora istituiti hanno, inoltre, dichiarato nei propri statuti l’irrilevanza dell’immunità – sia funzionale sia personale – dei soggetti apicali. È dunque, possibile, in tali fora, incriminare capi di Stato in carica, mentre rimane problematica l’esecuzione dei mandati di arresto spiccati nei loro confronti da tali tribunali, soprattutto – ma non solo – quando ciò spetterebbe da Stati terzi, rispetto allo Statuto di Roma o ad accordi istituitivi di tribunali ad hoc.

Per i tribunali nazionali rimane, invece, saldo l’orientamento della Corte internazionale di giustizia per il quale «certain holders of high-ranking office in a State, such as the Head of State, Head of Government and Minister for Foreign Affairs, enjoy immunities from jurisdiction in other States, both civil and criminal». La scelta del TSA, sotto questo profilo, di staccarsi dalla prassi dei tribunali internazionali e misti e di voler ammettere l’immunità dei soggetti vertice, oltre ad assimilare tale giurisdizione, implicitamente, alla categoria dei tribunali nazionali relativamente al riconoscimento delle immunità, getta un’ulteriore ombra di disillusione rispetto all’effettività ed incisività del futuro tribunale. In tale cornice, ancor di più, il lavoro del TSA rischia di rivelarsi un paradossale esercizio figurativo: da una parte, infatti, i leader in carica (attori, per definizione, del crimine di aggressione) non possono essere processati, dall’altra, qualora cessino la propria carica, potrebbero essere perseguiti in absentia, senza vere ripercussioni sulle loro vite. Su tale scia la società civile ha condannato la scelta compiuta sul rispetto delle immunità, auspicando un emendamento dello statuto del tribunale in senso contrario, denunciando che, spesso, «immunity goes hand in hand with impunity».

In effetti, così conformato, tra il rispetto esplicito delle immunità e la possibilità di condurre processi in absentia, il rischio di politicizzazione “primomondista” e di lawfare, l’assenza di riferimenti alle vittime e una relazione con la CPI a metà strada tra la cooperazione la fuga, il TSA non si presenta alla comunità internazionale con gambe salde per sostenere il peso della responsabilità, moralmente enorme e tecnicamente complessa, che gli è stata affidata.

Sebbene non si possa rilevare un unico parametro su cui misurare il successo o il fallimento di un tribunale (Il numero di condanne? Il numero di casi? L’importanza gerarchica degli imputati? La quantità di vittime coinvolte o risarcite? L’effetto riconciliativo sulla società? Il contributo della sua giurisprudenza allo sviluppo del diritto?) rimane molto chiara la necessità di evitare che il lavoro del TSA non sia altro che simbolico.

Il terreno è certamente scivoloso, ma forse in questo sta la chiave dell’unica possibile prospettiva da cui apprezzare l’istituzione del TSA: ridurre le aspettative su di esso, ridimensionarlo ad un mero tassello di un più ampio piano di ricostruzione della pace, tra sforzi diplomatici per la cessazione del conflitto e programmi operativi per la ricostruzione (come il Council of Europe Action Plan for Ukraine “Resilience, Recovery and Reconstruction”), secondo un approccio olistico di pace, giustizia e promozione dello stato di diritto. La responsabilità primaria di tutto ciò, allora, ritorna sulla volontà degli Stati di far funzionare – o meno – il sistema di giustizia internazionale e di dimostrarsi – essi stessi, e non il sistema astrattamente considerato – credibili, efficaci e incisivi nel voler lottare contro l’impunità e la commissione di (tutti) i crimini internazionali, ovunque nel mondo.

Previous post

Giurisdizione in materia di validità e contraffazione di un brevetto europeo: note a margine della sentenza BSH Hausgeräte c. Electrolux

Next post

Responsabilità d’impresa e industria estrattiva: cosa cambia con la nuovaDirettiva UE? Il caso del marmo di Carrara

The Author

Maddalena Cogorno

Maddalena Cogorno

No Comment

Leave a reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *