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L’operazione “Leone Nascente” contro l’Iran: prime osservazioni giuridiche nella prospettiva jus ad bellum e jus in bello

Viola Santini (Università di Firenze)

Nelle prime ore di venerdì 13 giugno, lo Stato di Israele ha dato il via all’operazione denominata ‘Leone Nascente’ (Rising Lion) contro la Repubblica Islamica dell’Iran. L’intervento militare di Israele si configura come un’operazione su vari livelli operativi, la cui complessità solleva diverse questioni critiche circa la sua conformità ai principi del diritto internazionale generale e del diritto internazionale umanitario (DIU). Il presente contributo intende offrire una prima riflessione sui principali profili di rilevanza giuridica dell’operazione, con particolare riferimento ai principi dello jus ad bellum e dello jus in bello.

Jus in bello o jus ad bellum

Il primo nodo da affrontare concerne la qualificazione giuridica dell’attacco del 13 giugno: deve essere valutato alla luce delle norme sul ricorso alla forza armata (jus ad bellum) o, piuttosto, secondo quelle applicabili alla conduzione dei conflitti armati (jus in bello)? Di seguito, le due ipotesi e le tesi a sostegno di una e dell’altra saranno analizzate nelle loro implicazioni.

  1. L’attacco si inserisce all’interno di un conflitto armato internazionale (IAC) preesistente.Secondo un primo orientamento, tra Israele e Iran vi sarebbe già in atto un conflitto armato internazionale. L’attacco del 13 giugno andrebbe quindi valutato esclusivamente secondo le regole del DIU. Tale tesi si fonda su due argomentazioni principali. 
  2. Il “sostanziale coinvolgimento” dell’Iran nelle operazioni di attori non statali (NSA) ostili a Israele. È stata avanzata l’ipotesi che i legami tra l’Iran e attori non statali attualmente coinvolti in conflitti con Israele, come Hezbollah, Hamas e gli Houthi, potrebbe rilevare ai fini della determinazione dell’esistenza di un conflitto armato tra Teheran e Tel Aviv (la c.d. proxy war, o guerra per procura). Ai fini della qualificazione giuridica di tale coinvolgimento, rileva il criterio di attribuzione del controlloeffettivo, come elaborato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) in Nicaragua c. Stati Uniti (par. 115-116). Questo standard richiede che lo Stato eserciti un grado di controllo operativo diretto sugli atti specifici del gruppo armato. Per quanto riguarda Hamas e gli Houthi, seppur sia documentato un supporto da parte dell’Iran in termini di assistenza finanziaria, supporto militare e condivisione di tecnologia bellica, i due gruppi mantengono la loro autonomia politico-strategica, nonché ideologica. Nel caso di Hezbollah, il legame politico e operazionale con Teheran è più stretto. Va ricordato, però, che la soglia dell’effective control richiesta ai fini dell’attribuzione della condotta è particolarmente elevata e, nel caso di specie, difficilmente soddisfatta. Gli attacchi di Hezbollah sono stati lanciati da territori di Stati terzi, in particolare Siria e Libano, e non risulta evidente che l’Iran esercitasse un controllo operativo diretto su tali operazioni. Al più, potrebbe configurarsi una situazione di c.d. overallcontrol, rilevante non per l’attribuzione degli atti, ma per la determinazione dell’internazionalizzazione del conflitto, secondo l’orientamento della CIG in Bosnia c. Serbia (par. 404). Infine, il cessate il fuoco del febbraio 2025, sebbene fragile, ha temporaneamente congelato le ostilità sul fronte Hezbollah-Israele. Dunque, anche qualora si ipotizzasse un certo grado di controllo da parte dell’Iran su Hezbollah, non risulta evidente in che misura ciò possa costituire prova sufficiente dell’esistenza di un conflitto armato internazionale ancora in corso tra Iran e Israele. 
  3. Gli engagements diretti tra Israele e Iran. Una seconda linea argomentativa, più convincente, si fonda sulla constatazione di una serie di scontri armati diretti intercorsi tra Israele e Iran nel corso del 2024. In particolare, si fa riferimento agli episodi bellici documentati nei mesi di aprile, luglio e ottobre, qualificabili come IAC ai sensi dell’art 2(1) comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949. La minore intensità di questi confronti armati, come chiarito ai par. 236-244 del Commentario aggiornato del Comitato della Croce Rossa Internazionale (CICR), non impedisce la loro configurazione come IAC. È infatti, a tal fine, sufficiente qualsiasi forma di ricorso alla forza armata tra due Stati, indipendentemente dalla durata, intensità o scala. In questo senso, la soglia per l’attivazione delle norme del DIU è “remarkably low” (Milanović 2014) e certamente inferiore a quella necessaria per qualificare un conflitto armato non internazionale (NIAC), che richiede il requisito della “violenza armata protratta” (ICTY, Sentenza della Trial Chamber, caso Tadić, par. 562), Tuttavia, nel caso di specie, il nodo interpretativo riguarda non tanto la natura dei singoli eventi del 2024, quanto piuttosto la discontinuità temporale che li separa dall’operazione “Leone Nascente” del giugno 2025. L’ultimo engagement noto risale infatti a ottobre 2024, e nel periodo successivo non si registrano ulteriori episodi di ostilità diretta. Tale discontinuità temporale solleva interrogativi circa la possibilità di qualificare gli scontri del 2024 come un conflitto armato internazionale conclusosi, distinto dall’attuale operazione Rising Lion. In tal caso, quest’ultima andrebbe valutata alla luce dello jus ad bellum. Per quanto riguarda la fine di un conflitto armato internazionale, l’art. 6(2) della IV Convenzione di Ginevra stabilisce che il DIU cessa di applicarsi “al termine generale delle operazioni militari” (general close of military operations). Sebbene il Commentario del 1958 alla IV Convenzione di Ginevra suggerisse (par. 2) criteri formali come la fine definitiva di tutti gli scontri tra gli interessati, l’armistizio, la capitolazione o la debellatio, gli approcci più recenti convergono su una valutazione fattuale della cessazione del conflitto. Secondo l’orientamento prevalente nella dottrina più recente, nonché alla luce dell’interpretazione successiva fornita dal CIRC (Commentario del 2016 alla I Convenzione di Ginevra, par. 278), la nozione di “termine generale delle operazioni militari” va intesa in senso più ampio. Essa presuppone non soltanto la cessazione delle ostilità attive, ma anche l’assenza di un rischio concreto e sufficientemente imminente di ripresa delle operazioni militari, poiché tali operazioni non coincidono necessariamente con atti di violenza armata. Alla luce di tale criterio, si può ritenere che, nel periodo compreso tra ottobre 2024 e giugno 2025, vi sia stata una cessazione effettiva delle attività belliche tra Iran e Israele. A sostegno di questa tesi, vi sono anche alcune dichiarazioni ufficiali di Israele in seguito all’attacco, che sembrano indicare l’operazione del 13 giugno come autonoma e differente – per finalità operative, contesto strategico e natura – rispetto agli engagements del 2024, collocati da Israele nel quadro dell’operazione ‘Swords of Iron‘ contro Hamas. Tuttavia, va rilevato come la persistenza di un clima di tensione tra i due stati, peraltro difficilmente evitabile, data l’instabilità regionale dovuta alla prosecuzione del conflitto a Gaza, rende più difficile escludere del tutto la sussistenza di un rischio concreto di riattivazione delle ostilità nel medesimo arco temporale.

Il ricorso alla forza da parte di Israele come forma di autodifesa o come atto di aggressione armata. La seconda tesi sostiene che l’attacco lanciato da Israele il 13 giugno 2025 non si inserisca in un conflitto armato internazionale preesistente. Costituirebbe piuttosto un nuovo impiego della forza armata, da valutare alla luce dello jus ad bellum. In tale prospettiva, assumono rilievo le norme di cui all’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il divieto dell’uso della forza nelle relazioni internazionali, e all’articolo 51 della stessa Carta, relativo al diritto di autodifesa. Tale impostazione merita considerazione, specie alla luce delle dichiarazioni ufficiali rilasciate da Israele e di altri attori (AustraliaFranciaGermaniaUnione Europea, leader del G7), che hanno esplicitamente collocato l’operazione Rising Lion nel quadro dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, adottando il lessico e i riferimenti propri dello jus ad bellum. Sia gli interventi pubblici del Primo Ministro Netanyahu, sia i comunicati ufficiali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), sembrano qualificare l’operazione come una misura di autodifesa preventiva rispetto alla minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano, presentata come una questione esistenziale per la sopravvivenza stessa dello Stato di Israele. 

È rilevante menzionare come tale linguaggio sembri richiamare, seppur implicitamente, il Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) del 1996 sull’uso delle armi nucleari, in cui si afferma che: «La Corte non può perdere di vista il diritto fondamentale di ogni Stato alla sopravvivenza, e dunque al ricorso di autodifesa, in conformità con l’articolo 51 della Carta, quando la propria sopravvivenza è in gioco» (par. 96). Tuttavia, anche in assenza di informazioni dettagliate di intelligence accessibili al pubblico, è possibile escludere che l’attacco israeliano del 13 giugno 2025 costituisca una forma di autodifesa ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Non risultano, infatti, atti ostili recenti da parte dell’Iran tali da integrare la nozione di “attacco armato” ai fini della nozione classica di legittima difesa. Di conseguenza, l’azione israeliana potrebbe essere piuttosto essere qualificata come una forma di autodifesa anticipatoria o, come suggerito nel comunicato stampa ufficiale dell’IDF, preventiva, in risposta alla minaccia nucleare iraniana. Tuttavia, sebbene l’articolo 2(4) della Carta ONU vieti sia la minaccia sia l’uso della forza, l’articolo 51 presuppone l’esistenza di un attacco armato effettivo (Gioia 2022). In questa prospettiva, la legittima difesa preventiva (pre-emptive self-defence), intesa come risposta armata a una minaccia ancora ipotetica o remota, è ritenuta non ammissibile dal punto di vista del diritto internazionale.

Una posizione intermedia è sostenuta (par. 41-51) dalla pratica di alcuni Stati e da parte della dottrina, che ammettono la cosiddetta legittima difesa anticipatoria (anticipatory self-defence), intesa come reazione a un attacco già in fase di preparazione avanzata, quando la minaccia sia imminente, certa e irreversibile. Anche a voler ammettere, in via ipotetica, la legittimità della legittima difesa anticipatoria nell’ambito dello jus ad belluml’analisi proposta da Marko Milanovic, a cui si rimanda, evidenzia come l’operazione israeliana del 13 giugno non soddisfi i requisiti stringenti che tale eccezione richiederebbe per essere giuridicamente fondata. Il programma nucleare iraniano, allo stato attuale, non sembra configurarsi come una minaccia imminente né certa, ma piuttosto di una capacità potenziale dell’Iran di sviluppare tali armi nel futuro. In assenza di un attacco armato effettivo o di una minaccia imminente, l’uso della forza da parte di Israele eccede i limiti di liceità, anche se letti nel modo più ampio possibile, previsti dall’art. 51 della Carta ONU. Di conseguenza, l’operazione Rising Lion può essere qualificata come atto di aggressione ai sensi del diritto internazionale generale e della Risoluzione 3314(XXIX), con le conseguenze che ne derivano, incluso il riconoscimento del diritto di autodifesa – da esercitarsi sempre in rispetto dei principi di proporzionalità e necessità, e in conformità con il DIU – dell’Iran.

Vi è infine un’interpretazione che concilia queste due prospettive, proponendo l’applicazione continua e concomitante dei principi di proporzionalità ad bellum e in bello (Greenwood 1983Lieblich 2021), in alternativa ad un approccio statico e nettamente separato tra i due. In questo senso, come sostenuto anche da Milanovic, un’analisi ad bellum autonoma può essere condotta in corrispondenza di significativi atti di escalation durante un conflitto già in corso. Tale impostazione ci pare la più convincente perché trova riscontro in diversi elementi. In primo luogo, la prassi degli Stati è univoca nel considerare l’evento attraverso le categorie proprie dello jus ad bellum confermando così la rilevanza delle norme della Carta ONU quale parametro di riferimento. Inoltre, tanto le modalità operative quanto le finalità dell’attacco del 13 giugno sembrano distinguersi in modo marcato rispetto agli episodi di ostilità precedenti. Infine, questo approccio sembra più appropriato a scenari di guerra dinamici e frammentati. Consente, infatti, di evitare l’applicazione on and off del DIU tra un impiego militare e l’altro, ammettendo però la possibilità che un’escalation significativa, sia praticamente che concettualmente distinta, nell’uso della forza possa richiedere una nuova valutazione ai sensi dell’art. 2(4). 

Tutti questi elementi insieme fanno propendere per un inquadramento ad bellum e, alla luce della rilevata non applicabilità dell’art. 51, per la qualificazione dell’attacco israeliano come atto di aggressione. 

Profili di diritto internazionale umanitario

Il secondo profilo critico attiene alla condotta concreta delle operazioni militari israeliane, sia in occasione del primo attacco del 13 giugno, sia nei giorni immediatamente successivi. La valutazione della loro liceità ricade nell’ambito del DIU, che risulta certamente applicabile, sia in quanto già attivato nel contesto di un conflitto armato internazionale preesistente, sia, in subordine, perché attivato ex novo a seguito dell’attacco stesso. Al momento, Israele sembra aver fatto ricorso a due principali direttrici strategiche.

  1. Attacchi a infrastrutture critiche. Gli attacchi hanno preso di mira due tipologie di strutture. Un’ulteriore infrastruttura colpita è quella digitale: l’accesso a Internet risulta pressoché interrotto in gran parte del territorio iraniano. Il blocco sembrerebbe essere stato attuato dallo stesso governo di Teheran, ufficialmente allo scopo di prevenire attacchi cibernetici. L’Iran, del resto, non è nuovo all’uso di blackout informatici, spesso con finalità repressive (Gohdes 2023). La misura solleva rilevanti interrogativi circa la sua compatibilità con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e merita senz’altro menzione; tuttavia, non sarà oggetto di approfondimento, per limiti di spazio e di focus sul diritto internazionale umanitario di questo contributo.
  2. Impianti nucleari. Nella prima fase dell’operazione, Israele ha colpito infrastrutture direttamente collegate al programma nucleare iraniano, in particolare gli impianti di arricchimento dell’uranio situati a Natanz, Fordow e Isfahan. Tali siti non sono centrali nucleari destinate alla produzione di energia elettrica (nuclear electrical generating stations, nuclear power plants), le quali, in linea generale, sono, anche secondo la CIRC, da presumersi beni di carattere civile ai sensi del DIU e godono, durante un IAC, di una protezione rafforzata ai sensi dell’art. 56(1) del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Pur non rientrando tecnicamente nella categoria delle centrali di produzione energetica, gli impianti colpiti rappresentano infrastrutture nucleari sensibili a duplice uso (dual use facilities), in quanto potenzialmente impiegabili sia per scopi civili (es. alimentazione di reattori di ricerca e centrali nucleari in generale) sia per fini militari (es. sviluppo di armi nucleari). Ai sensi dell’art. 52(2) del I Protocollo Aggiuntivo – riprodotto verbatim nella Regola consuetudinaria 8 – un bene può essere qualificato come obiettivo militare solo se soddisfa due condizioni cumulative: (1) contribuisce efficacemente all’azione militare per natura, ubicazione, uso attuale o uso futuro previsto; e (2) la sua distruzione, cattura o neutralizzazione conferisce un chiaro vantaggio militare, nelle circostanze del momento. Il riferimento allo “scopo” legittima la considerazione dell’uso futuro dell’infrastruttura, mentre il Commentario al medesimo articolo include, in via esemplificativa, anche i centri di ricerca e sperimentazione per lo sviluppo di armamenti tra i potenziali obiettivi militari. Ne deriva che, in linea di principio, taluni impianti nucleari dual use potrebbero essere legittimamente colpiti. Tuttavia, due sono le precisazioni necessarie rispetto al caso di specie.

In primo luogo, nonostante l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) abbia espresso (par. 34) preoccupazione per l’aumento di produzione e di accumulazione di scorte di uranio arricchito da parte dell’Iran, in una dichiarazione più recente, in seguito allo scoppio del conflitto, la stessa Agenzia ha richiamato le risoluzioni (in particolare, GC(XXIX)/RES/444 e GC(XXXIV)/RES/533) della Conferenza Generale in materia di attacchi militari contro installazioni nucleari, ribadendo che qualsiasi attacco armato o minaccia contro impianti nucleari destinati a fini pacifici costituisce una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale e dello Statuto dell’Agenzia. Questa comunicazione ufficiale e una successiva intervista al direttore generale della IAEA, chiariscono che la accumulazione di materiale fissile, sebbene preoccupante, non è prova, di per sé, un uso militare degli impianti iraniani. 

In secondo luogo, la distruzione o danneggiamento degli impianti in questione può comportare rischi gravi e concreti per la popolazione civile in termini di rilascio di sostanze radioattive o di altre forze pericolose (IAEA, GC(XXXIV)/RES/533). Ai sensi del già citato art. 56(1) del Protocollo I, le installazioni contenenti forze pericolose, tra cui impianti nucleari destinati alla produzione di energia elettrica, sono soggette a una protezione speciale anche quando costituiscano obiettivi militari, a condizione che il loro attacco possa “causare gravi perdite alla popolazione civile”. Questo principio ha assunto anche carattere consuetudinario (Regola 42), dunque si applica al caso di specie nonostante né Israele né l’Iran abbiano ratificato il Protocollo I. Pertanto, anche laddove si ritenga che gli impianti di arricchimento colpiti contribuiscano in modo effettivo all’azione militare iraniana, essi non perdono automaticamente la loro qualificazione come beni civili, ma restano soggetti a una presunzione di protezione, la cui revoca richiede una valutazione rigorosa di proporzionalità e necessità. Inoltre, qualora l’attacco comporti la possibilità di rilascio di forze pericolose, sussiste un obbligo rafforzato di constant care al fine di evitare, o almeno minimizzare, effetti catastrofici per la popolazione civile. 

Industrie del petrolio e del gas e infrastrutture energetiche. Israele ha colpito, tra gli altri, hub per lo stoccaggio e la distribuzione di carburante (tra cui quello di Shahran, nei pressi di Teheran), nonché impianti di trattamento del gas e produzione elettrica a uso domestico, come Fajr-e Jam, e il principale giacimento nazionale, il South Pars. Tali infrastrutture rappresentano componenti critiche del sistema energetico iraniano e sono strettamente connesse ai c.d. beni e servizi essenziali. In quanto tali, esse rientrano prima facie nella categoria degli oggetti civili ai sensi del DIU. Esse risultano, inoltre, indispensabili per il funzionamento dei servizi pubblici e per l’approvvigionamento della popolazione di beni primari quali acqua potabile, alimenti, medicinali e assistenza sanitaria. L’art. 54 del Primo Protocollo aggiuntivo vieta espressamente di attaccare, distruggere, rimuovere o rendere inutilizzabili oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile. In quest’ottica, alla luce di un’interpretazione teleologica della norma, la protezione si estende anche a quelle infrastrutture dalle quali tali servizi dipendono funzionalmente.

Tuttavia, il diritto umanitario riconosce la possibilità che un oggetto civile divenga un obiettivo militare legittimo, a condizione che soddisfi i due requisiti cumulativi stabiliti dall’art. 52(2) del Protocollo I, visti sopra. Il Commentario al medesimo articolo precisa che solo le installazioni energetiche che forniscono energia prevalentemente a fini di difesa nazionale, come impianti per la produzione di gas o elettricità destinati in modo predominante all’apparato militare, possono, in linea teorica, essere considerate obiettivi legittimi. È richiesto che sussista un proximate nexus, ovvero un nesso diretto e sufficientemente immediato, diverso da una semplice funzione a sostegno dello sforzo militare, tra l’infrastruttura in questione e le operazioni militari in corso, affinché la perdita della protezione possa considerarsi giustificata (Dinstein 2004). Nel caso di specie, tale collegamento causale non risulta evidente. Le informazioni disponibili non suggeriscono un utilizzo militare primario o preponderante delle infrastrutture colpite, né indicano che esse svolgessero una funzione direttamente integrata nella condotta delle ostilità. In assenza di elementi probatori ulteriori, e considerato il potenziale impatto umanitario della loro distruzione sulla popolazione civile, tali obiettivi devono continuare a essere considerati beni civili, e in quanto tali protetti dal divieto di attacco ai sensi del DIU.

In entrambi i casi analizzati, è poi opportuno ricordare che il I Protocollo Aggiuntivo all’art. 55, unitamente alle Regole consuetudinarie 44 e 45, sancisce un divieto specifico relativo all’impiego di mezzi e metodi di guerra che siano diretti a causare o che possano prevedibilmente causare danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale. Tale divieto risulta rilevante nel contesto di attacchi contro le suddette industrie e infrastrutture, che possono causare, per esempio, il rilascio di gas ad alto impatto climatico (come il metano, a seguito dell’attacco a giacimenti o impianti di trattamento del gas), la contaminazione delle acque superficiali e sotterranee, danni alla fauna e agli ecosistemi locali, nonché, in caso di coinvolgimento di strutture connesse al ciclo del combustibile nucleare, possibili dispersioni di materiale radioattivo o contaminazione chimica dell’ambiente circostante.

Uccisioni mirate. Le uccisioni mirate (targeted killings) hanno avuto come obiettivo, fino ad ora, tre distinte categorie di soggetti, unitamente agli oggetti a essi funzionalmente connessi. La prima categoria è rappresentata dalla catena di comando militare, comprendente membri dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran) e delle forze armate regolari, tra cui il Comandante in capo, il Capo di Stato Maggiore e un generale del Comando congiunto tra Pasdaran e forze armate regolari, noto come Khatam al-Anbiya. Tali soggetti costituiscono obiettivi legittimi in quanto membri delle forze armate di una parte al conflitto, ai sensi della Regola 3 del DIU consuetudinario, secondo cui “all members of the armed forces of a party to the conflict are combatants”. Per questa categoria non è dunque necessaria un’ulteriore analisi sulla liceità del targeting. Restano invece da esaminare le due ulteriori categorie di soggetti colpiti.

Uccisioni mirate di scienziati nucleari iraniani. Israele ha condotto operazioni finalizzate all’eliminazione mirata di almeno sei o nove scienziati nucleari iraniani. Tali soggetti, non risultando formalmente incorporati nelle forze armate della Repubblica Islamica dell’Iran, devono essere qualificati, in linea di principio, come civili ai sensi del DIU. La sola circostanza che potrebbe eccezionalmente giustificarne la qualificazione come obiettivi militari legittimi è il loro eventuale direct participation in hostilities (DPH), secondo quanto previsto dall’art. 51(3) del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra. Tuttavia, il gruppo di esperti della CIRC sulla nozione di DPH, sembra avere escluso questa possibilità, affermando che: “neither armament industry employees, nor nuclear weapons experts, were considered to be directly participating in hostilities regardless of their value to the war effort” (p. 49). Infatti, lo status di DPH prevede un contributo diretto all’azione militare, distinguendosi così dalla partecipazione indiretta alle ostilità e dalla generica contribuzione allo sforzo bellico complessivo (cfr. Commentario al I Protocollo Aggiuntivo, par. 1945). Come chiarito nella Interpretive Guidance on the Notion of Direct Participation in Hostilities elaborata dal Comitato Internazionale della Croce Rossa, affinché un atto possa integrare una partecipazione “diretta”, è necessario che sussista un nesso causale sufficientemente stretto tra la condotta dell’individuo e il danno concretamente arrecato al nemico (p.52). Standard come la “causazione indiretta del danno” o la “facilitazione materiale” di atti lesivi non sono sufficienti a tal fine. In senso analogo si è espresso anche il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) nel caso Prosecutor v. Strugar (Appello, § 177, 178), evidenziando che la direct participation implica che l’individuo partecipi personalmente all’azione offensiva in corso finalizzata a danneggiare il nemico. Nel caso di specie, tuttavia, il danno ipotizzato appare non solo anticipato, ma addirittura predetto: si ritiene che l’Iran possieda le c.d. capabilities per sviluppare armamenti nucleari, ma non vi è al momento alcuna evidenza (vedi qui e qui) che tale sviluppo sia in atto, o che sia imminente. Pertanto, salvo che Israele sia in grado di fornire ulteriori elementi che dimostrino che ciascuno di tali individui fosse effettivamente impegnato in atti riconducibili a DPH nel momento del targeting – considerando che tale status non è permanente, ma discontinuo e intermittente (ICTY, Prosecutor v. StrugarAppello, § 177) in quanto limitato alla durata della partecipazione diretta – essi devono essere considerati civili. In difetto di tale prova, la loro uccisione deve ritenersi contraria al DIU e, dunque, illecita. 

“Strategia della decapitazione” contro i leader politici del paese. Il termine strategia della decapitazione fa riferimento al tentativo di paralizzare un gruppo o uno Stato attraverso la rimozione dei suoi vertici e viene spesso attuato mediante operazioni di targeted killings (Antulio J. Echevarria 2017). Israele ha condotto dei raid contro il palazzo presidenziale di Masoud Pezeshkian e contro la residenza della Guida Suprema (rahbar), l’ayatollah Ali Khamenei. Nei giorni successivi al 13 giugno, sono stati colpiti anche il Ministero della Difesa e il quartier generale delle Forze Armate. Come già osservato per i leader militari, il Ministero della Difesa e i centri di comando delle forze armate sono generalmente considerati obiettivi legittimi, in virtù della loro funzione strategica (Jachec-Neale 2018). Allo stesso modo, Khamenei potrebbe essere considerato un obiettivo legittimo, dal momento che tra le funzioni della Guida Suprema rientrano il comando delle forze armate, la dichiarazione di guerra e di pace e la mobilitazione delle truppe, elementi che suggeriscono uno status militare del rahbar. Rimane controverso, però, l’attacco al palazzo presidenziale.

Non si tratta, in realtà, di una strategia bellica nuova: si pensi, ad esempio, al bombardamento della residenza di Slobodan Milošević durante l’intervento NATO del 1999 (Jachec-Neale 2015). Nonostante ciò, la questione dello status e della legittima attaccabilità dei leader politici è poco esplorata dalla dottrina. Se l’obiettivo era l’edificio in quanto tale, occorre applicare la già vista distinzione tra bene civile e obiettivo militare, considerando se, oltre alla funzione politica, il palazzo presidenziale avesse assunto anche una funzione militare al momento dell’attacco. Se, invece, l’intento era colpire direttamente il Presidente, e dunque il leader politico, la questione resta giuridicamente aperta. Potrebbe rilevare, in tal caso, la Convenzione del 1973 sulla prevenzione e la repressione di crimini commessi contro individui internazionalmente protetti, in particolare l’art. 1, lett. b), che estende tale protezione a qualsiasi rappresentante o funzionario statale che, al momento e nel luogo del fatto, goda di una tutela speciale contro attacchi alla persona, libertà o dignità, ivi inclusi i suoi alloggi privati, i locali ufficiali e i mezzi di trasporto. Tuttavia, pur suggerendo l’esistenza di un regime di protezione speciale per le più alte cariche dello Stato, la Convenzione del 1973 si applica esclusivamente ad atti ostili compiuti da persone fisiche e non da soggetti statali (art. 1(2): “Alleged offender” means a person […]).

L’incidenza dell’operazione “Leone nascente” sulle trattative per la conclusione di un accordo internazionale

Una volta rilevate le principali criticità dell’operazione “Leone nascente” nella prospettiva jus ad bellum e jus in bello, un ultimo profilo, quello relativo al suo possibile impatto sulla dimensione diplomatica e negoziale, merita attenzione.

L’attacco israeliano si inserisce, infatti, nel contesto delle negoziazioni tra Stati Uniti e Iran su un trattato in materia nucleare, ora in stallo. Le trattative risultavano già difficili a causa della richiesta statunitense di una rinuncia totale dell’Iran al proprio programma nucleare, in contrasto con il Trattato sulla non proliferazione, il cui art. 4 garantisce il diritto all’uso pacifico dell’energia nucleare. L’Iran si era espresso su tali condizioni, definendole “inaccettabili”. In questa prospettiva, le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti precedenti (“Trump warns of ‘massive conflict’ soon if Iran nuclear talks break down”) e successive all’attacco (“Trump warns Iran to agree to a deal ‘before there is nothing left”), nonostante il contestuale distanziamento a livello di coinvolgimento diretto dalle operazioni israeliane, sollevano dubbi circa una possibile coercizione esterna. Qualora l’accordo venisse effettivamente concluso, tali circostanze potrebbero configurare un motivo di nullità del trattato ai sensi dell’art. 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, che sancisce la nullità di un trattato concluso sotto minaccia o uso della forza. Tale disposizione non esclude che la coercizione possa provenire da uno Stato terzo, non parte alla negoziazione e, al contempo, le dichiarazioni statunitensi sembrano potenzialmente qualificabili come minaccia o escalation annunciata dell’uso della forza. Sebbene al momento le trattative risultino sospese, si ritiene che questo profilo rimanga di grande rilevanza per valutare la validità giuridica di un eventuale accordo futuro tra le parti (su cui v. più approfonditamente Mauri, Spagnolo).

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Viola Santini

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