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Per un lungo periodo, le risposte dell’Unione europea alle cosiddette ‘crisi costituzionali’ sono state generalmente considerate insufficienti e inefficaci: le istituzioni non hanno saputo trovare risposte adeguate al consolidamento del potere nelle mani di Viktor Orban e Fidesz in Ungheria e alla ‘cattura’ dell’ordinamento giudiziario polacco da parte della maggioranza di governo. Solo negli ultimi mesi, con l’attivazione delle procedure dell’articolo 7(1) TUE, prima da parte della Commissione, nei confronti della Polonia, e poi da parte del Parlamento europeo, nei confronti dell’Ungheria, l’Unione ha finalmente dimostrato la volontà di prendere una posizione più decisa; ma anche queste iniziative hanno avuto un peso più significativo sul piano simbolico che su quello concreto, e non hanno prodotto un cambiamento sostanziale delle politiche dei due Stati membri.

Ci sono però finalmente notizie positive. La recente decisione della Corte di Giustizia nella procedura di infrazione riguardante parte delle riforme del sistema della Corte Suprema polacca dimostra come l’Unione europea possa essere incisiva, qualora agisca in modo deciso, puntuale e ben coordinato, sfruttando al pieno le possibilità previste dai Trattati, come già accaduto della pronuncia della Corte sul caso delle ‘foreste polacche’ e nelle due ordinanze cautelari che hanno preceduto la decisione finale nel caso della Corte Suprema. Nella sentenza del 24 giugno 2019, la Corte di Giustizia ha riscontrato una violazione dell’articolo 19 TUE rispetto a entrambi i profili contestati dalla Commissione: da un lato, la Corte ha concluso che la decisione di ridurre l’età pensionabile dei giudici della Corte Suprema lede il principio dell’inamovibilità del giudice; dall’altro, la facoltà accordata al Presidente della Repubblica di concedere ai giudici di continuare il loro mandato viola l’aspetto ‘esterno’ del principio di indipendenza dei giudici (sulla distinzione tra l’aspetto esterno e quello interno, si veda il caso Wilson).

L’intervento della Commissione e della Corte nel caso della Corte Suprema polacca, come si vedrà, ha già prodotto risultati concreti, e una serie di altre procedure già aperte offriranno nuove opportunità di tutelare lo stato di diritto in Polonia e nell’Unione. La nuova giurisprudenza sull’articolo 19 TUE, se inquadrata nel quadro complessivo dei recenti sforzi compiuti dalle istituzioni europee, potrebbe quindi segnare l’inizio di una nuova, più positiva, fase di tutela dei valori fondamentali europei.

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Le norme sui conflitti di leggi adottate dall’UE sulla base dell’art. 81, par. 2, lett. c, Tratt. FUE mirano fondamentalmente a far sì che un rapporto giuridico sia disciplinato dalla medesima legge quale che sia lo Stato membro dal cui punto di vista esso viene osservato. Tale obiettivo rischia di non essere soddisfatto allorché le norme in questione ricevano negli Stati membri un’applicazione non uniforme. Accresce questo rischio il fatto che le norme di conflitto, quando sono evocate nel quadro di un processo, possono subire l’influenza delle regole processuali del foro: regole di fonte interna, che variano talora in modo molto marcato da uno Stato membro a un altro.

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Il regolamento n. 593/2008 (c.d. Roma I), che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali nei processi celebrati dinnanzi ai giudici degli Stati dell’Unione europea, si fonda sul principio dell’autonomia delle parti. Quest’ultimo, secondo quanto affermato nel considerando 11 del regolamento stesso, è la «pietra angolare» del sistema europeo dei conflitti di leggi. Conferma di quanto appena detto è data dal fatto che il regolamento consente che due soggetti aventi la medesima nazionalità possano decidere che un contratto relativo a una situazione interamente interna a uno Stato sia disciplinato da un diritto straniero. Ciò perché, nel mondo degli scambi commerciali, sovente accade che un sistema giuridico sia percepito come particolarmente sviluppato nella regolamentazione di un dato tipo di rapporti (si pensi, ad es., al diritto inglese con riguardo alle materie della navigazione o dei mercati finanziari).

Ciononostante, il legislatore europeo ha comunque voluto astrattamente scongiurare il rischio che la scelta di un diritto straniero in situazioni puramente interne possa avvenire al solo scopo di eludere l’applicazione di alcune norme inderogabili dell’ordinamento giuridico che sarebbero state altrimenti applicabili al caso di specie. Con una disposizione di carattere generale, dunque, l’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I introduce una limitazione al principio di autonomia delle parti, sancendo che «[q]ualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente».

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1. Non si può dire che la disciplina dell’ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero rispetto al territorio italiano non sia bisognosa di urgente riordino: frutto della stratificazione alluvionale di normative dettate da ragioni occasionali, spesso solo propagandistiche; ulteriormente confusa dall’adozione di atti di adattamento a direttive europee inserite come corpi estranei in un sistema con esse non coordinato, tale materia appare oggi come un groviglio di norme disordinato e spesso incoerente. Si potrebbe pertanto comprendere la fretta di intervenire da parte dell’attuale governo, a costo di forzare un po’ i presupposti del ricorso allo strumento del decreto legge (suscitando i rilievi critici dei costituzionalisti per i quali v. qui). Appare tuttavia assolutamente inadeguata, e anzi controproducente, la tecnica legislativa adottata e del tutto illusoria la ratioche la supporta.

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Nell’ultimo anno, si sono registrate, da parte delle istituzioni dell’Unione europea (UE), due iniziative rilevanti quanto alla tutela dello Stato di diritto quale valore fondante dell’UE. Il 20 dicembre 2017, la Commissione europea ha attivato la procedura prevista dall’art. 7, par. 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE) in relazione ai provvedimenti assunti dal governo e dalla maggioranza parlamentare polacchi, lesivi dell’indipendenza del potere giudiziario (sul punto, v. Kochenov et al. e, in generale, sulla situazione in Polonia, Sadurski e von Bogdandy et al.). Il 12 settembre 2018, il Parlamento europeo ha deciso di fare altrettanto con riferimento all’Ungheria a causa di una serie di problemi inerenti – inter alia – al funzionamento del sistema costituzionale e del sistema elettorale, all’indipendenza della magistratura, alla protezione dei dati personali, alla libertà accademica e di religione, alla tutela dei diritti delle minoranze e dei migranti (al riguardo, v. Bachmann e, per un’introduzione alla situazione dell’Ungheria, Halmai e Sonnevend) Tali scelte, ancorché lodevoli sul piano politico, pongono dei problemi quanto alla loro tempestività – almeno per quel che riguarda l’Ungheria, ove gli inizi della crisi dello Stato di diritto possono essere fatti risalire al 2010 – e alla loro efficacia, data la difficoltà di arrivare a sanzionare effettivamente i due Stati membri per le violazioni del sistema valoriale dell’Unione.

Scopo del presente contributo è individuare e valutare i meccanismi di risposta ai quali potrebbe farsi ricorso nell’ambito dell’UE al fine di assicurare la tutela dello Stato di diritto e, in generale, dei valori su cui si fonda l’UE. Partendo dall’art. 7 TUE, la riflessione intende allargarsi ad altre figure, identificandone i punti di forza e di debolezza. Nelle conclusioni, si sosterrà la tesi che nessuno degli strumenti individuati risulta, da solo, idoneo a proteggere adeguatamente l’assetto assiologico dell’Unione e che, tuttavia, una combinazione degli stessi potrebbe portare a dei risultati convincenti.

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All’esito di una lunga maratona negoziale, preceduta da aspre scaramucce dialettiche tra gli Stati membri e da un pre-vertice tenutosi nella capitale belga la domenica precedente, il Consiglio europeo del 28-29 giugno ha adottato alcune Conclusioni sulle migrazioni. Il documento finale pretende di offrire un quadro di riferimento per l’azione dell’UE in materia per i mesi e gli anni a venire, integrando precedenti conclusioni tematiche approvate in occasione delle riunioni succedutesi con una certa frequenza a partire dalla primavera del 2015. Per questo motivo esso tocca svariate questioni. Non torneremo qui sulle attività di ricerca e soccorso in mare operate dalle imbarcazioni delle ONG e sul controverso rapporto tra l’Italia e Libia in materia di prevenzione dei flussi migratori irregolari, su cui rinviamo al recente post di Vitiello. Ci occuperemo piuttosto di due aspetti affrontati nelle conclusioni, che sono entrambi sintomatici della persistente difficoltà di orientare lo sviluppo della politica UE sulle migrazioni secondo linee coerenti con il dettato del diritto primario (e in particolare con l’art. 80 TFUE): l’ipotesi di condurre le persone soccorse in mare in hotspot collocati in Paesi terzi o sul territorio UE; la riforma del sistema Dublino.

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La progressiva apertura dei legislatori degli Stati membri dell’Unione europea al matrimonio tra persone dello stesso sesso ha portato la dottrina ormai da tempo a interrogarsi sulla riconoscibilità di tali matrimoni negli Stati membri che non prevedono forme di unione di tal genere o che prevedono unicamente tipologie di unione tra persone del medesimo sesso differenti dal matrimonio. Sul punto la giurisprudenza italiana, prima dell’adozione della legge 20 maggio 2016, n. 76 sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulle convivenze (per un commento v. il post di L. Scaffidi di Runchella), che prevede che il matrimonio tra persone del medesimo sesso contratto all’estero da cittadini italiani produca gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana (v. Corte di Cassazione, I Sez. civ., 14 maggio 2018, n. 11696, che ha confermato la trascrivibilità come matrimonio solo del matrimonio same-sex tra stranieri), era intervenuta a più riprese, con pronunce di segno opposto. Così, la giurisprudenza di legittimità considerava non trascrivibile, perché inefficace per difetto di capacità dei nubendi, il matrimonio omosessuale celebrato all’estero tra due cittadini italiani (Corte di Cassazione, I Sez, civ., 15 marzo 2012, n. 4184 e Corte di Cassazione 9 febbraio 2015, n. 2400, che tuttavia, in linea con la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010, sollecitava il legislatore italiano a dare riconoscimento alle coppie omosessuali) e nel medesimo senso, se pur con motivazioni differenti (contrarietà all’ordine pubblico, inesistenza del vincolo, inefficacia dello stesso), si esprimevano alcuni tribunali di merito (Tribunale di Latina, decreto 31 maggio 2005; Corte d’appello di Roma, 6 giugno 2006; Tribunale di Treviso, sentenza 19 maggio 2010; Tribunale di Milano, decreti 2 luglio 2014 e 17 luglio 2014; Tribunale di Pesaro, decreto 14 ottobre 2014) e il Consiglio di Stato (sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 del 26 ottobre 2015, nelle quali il Consiglio di Stato si pronuncia nel senso della legittimità della circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 che ordinava ai Prefetti di provvedere all’annullamento d’ufficio delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali). Altre corti di merito ritenevano al contrario tali matrimoni trascrivibili (Tribunale di Grosseto, decreto 17 febbraio 2015, in relazione al matrimonio contratto all’estero tra due cittadini italiani del medesimo sesso, sulla quale si veda il post di G. Biagioni ed E. di Napoli; Corte d’appello di Napoli, sentenza 13 marzo 2015, in relazione al matrimonio contratto all’estero tra due soggetti del medesimo sesso stranieri) anche quando avessero coinvolto unicamente cittadini italiani.

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Il lungo peregrinare della nave Aquarius, sospinta dai nuovi venti politici che le hanno negato l’autorizzazione all’ingresso nelle acque interne italiane, è terminato nel porto di Valencia il 17 giugno scorso. La disponibilità offerta dal governo spagnolo all’ingresso dell’imbarcazione in uso alle organizzazioni non governative SOS Mediterranée e Medici senza frontiere ha temporaneamente disinnescato una crisi umanitaria, consentendo alle 629 persone a bordo di sbarcare in un luogo sicuro (per alcuni commenti v. qui, qui e qui).

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There can be little doubt that the long-awaited judgment of the Court of Justice in the Achmea case delivered on 6 March (Case C-284/16, Slovak Republik v. Achmea BV) gives the last word on the (even longer) debated issue relating to the (in)compatibility of intra-EU investment bilateral investment treaties (BITs) with the EU legal order. In particular, in sharp contrast with the Opinion of AG Wathelet, the Court does not hesitate to state that an arbitration tribunal established under a BIT between two Member States «call[s] into question not only the principle of mutual trust between Member States but also the preservation of the particular nature of the law established by the Treaties, ensured by the preliminary ruling procedure provided for in article 267 TFEU, and is not therefore compatible with the principle of sincere cooperation» (para. 58). The judgment is certainly to be welcome, it will have important consequences on the future of the intra-EU investment agenda, and may have some impact also on the extra-EU investment agenda (see infra, § 5). It finally clarifies a series of important legal questions which had often been raised in the last decade before investment arbitration tribunals seized under relevant intra-EU BITs or under the Energy Charter Treaty, that probably lacked an adequate EU law perspective.

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