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La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte europea o Corte EDU) ha inaugurato la prassi di emanazione di pareri consultivi il 10 aprile 2019 (su richiesta n. P16-2018-001), su uno dei temi più problematici emersi negli ultimi anni in materia di rapporti di famiglia: quello dello status dei figli nati a seguito della gestazione per altri. Il parere è in grado di ravvivare l’ampio e acceso dibattito nell’opinione pubblica sul tema della maternità surrogata e presenta un rilievo particolare sotto il profilo del diritto internazionale privato, data l’assenza di un orientamento omogeneo delle legislazioni e delle giurisdizioni degli Stati parti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

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Il regolamento n. 593/2008 (c.d. Roma I), che disciplina la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali nei processi celebrati dinnanzi ai giudici degli Stati dell’Unione europea, si fonda sul principio dell’autonomia delle parti. Quest’ultimo, secondo quanto affermato nel considerando 11 del regolamento stesso, è la «pietra angolare» del sistema europeo dei conflitti di leggi. Conferma di quanto appena detto è data dal fatto che il regolamento consente che due soggetti aventi la medesima nazionalità possano decidere che un contratto relativo a una situazione interamente interna a uno Stato sia disciplinato da un diritto straniero. Ciò perché, nel mondo degli scambi commerciali, sovente accade che un sistema giuridico sia percepito come particolarmente sviluppato nella regolamentazione di un dato tipo di rapporti (si pensi, ad es., al diritto inglese con riguardo alle materie della navigazione o dei mercati finanziari).

Ciononostante, il legislatore europeo ha comunque voluto astrattamente scongiurare il rischio che la scelta di un diritto straniero in situazioni puramente interne possa avvenire al solo scopo di eludere l’applicazione di alcune norme inderogabili dell’ordinamento giuridico che sarebbero state altrimenti applicabili al caso di specie. Con una disposizione di carattere generale, dunque, l’art. 3, par. 3, del regolamento Roma I introduce una limitazione al principio di autonomia delle parti, sancendo che «[q]ualora tutti gli altri elementi pertinenti alla situazione siano ubicati, nel momento in cui si opera la scelta, in un paese diverso da quello la cui legge è stata scelta, la scelta effettuata dalle parti fa salva l’applicazione delle disposizioni alle quali la legge di tale diverso paese non permette di derogare convenzionalmente».

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1. Non si può dire che la disciplina dell’ingresso, soggiorno e allontanamento dello straniero rispetto al territorio italiano non sia bisognosa di urgente riordino: frutto della stratificazione alluvionale di normative dettate da ragioni occasionali, spesso solo propagandistiche; ulteriormente confusa dall’adozione di atti di adattamento a direttive europee inserite come corpi estranei in un sistema con esse non coordinato, tale materia appare oggi come un groviglio di norme disordinato e spesso incoerente. Si potrebbe pertanto comprendere la fretta di intervenire da parte dell’attuale governo, a costo di forzare un po’ i presupposti del ricorso allo strumento del decreto legge (suscitando i rilievi critici dei costituzionalisti per i quali v. qui). Appare tuttavia assolutamente inadeguata, e anzi controproducente, la tecnica legislativa adottata e del tutto illusoria la ratioche la supporta.

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La progressiva apertura dei legislatori degli Stati membri dell’Unione europea al matrimonio tra persone dello stesso sesso ha portato la dottrina ormai da tempo a interrogarsi sulla riconoscibilità di tali matrimoni negli Stati membri che non prevedono forme di unione di tal genere o che prevedono unicamente tipologie di unione tra persone del medesimo sesso differenti dal matrimonio. Sul punto la giurisprudenza italiana, prima dell’adozione della legge 20 maggio 2016, n. 76 sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulle convivenze (per un commento v. il post di L. Scaffidi di Runchella), che prevede che il matrimonio tra persone del medesimo sesso contratto all’estero da cittadini italiani produca gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana (v. Corte di Cassazione, I Sez. civ., 14 maggio 2018, n. 11696, che ha confermato la trascrivibilità come matrimonio solo del matrimonio same-sex tra stranieri), era intervenuta a più riprese, con pronunce di segno opposto. Così, la giurisprudenza di legittimità considerava non trascrivibile, perché inefficace per difetto di capacità dei nubendi, il matrimonio omosessuale celebrato all’estero tra due cittadini italiani (Corte di Cassazione, I Sez, civ., 15 marzo 2012, n. 4184 e Corte di Cassazione 9 febbraio 2015, n. 2400, che tuttavia, in linea con la sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010, sollecitava il legislatore italiano a dare riconoscimento alle coppie omosessuali) e nel medesimo senso, se pur con motivazioni differenti (contrarietà all’ordine pubblico, inesistenza del vincolo, inefficacia dello stesso), si esprimevano alcuni tribunali di merito (Tribunale di Latina, decreto 31 maggio 2005; Corte d’appello di Roma, 6 giugno 2006; Tribunale di Treviso, sentenza 19 maggio 2010; Tribunale di Milano, decreti 2 luglio 2014 e 17 luglio 2014; Tribunale di Pesaro, decreto 14 ottobre 2014) e il Consiglio di Stato (sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 del 26 ottobre 2015, nelle quali il Consiglio di Stato si pronuncia nel senso della legittimità della circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 che ordinava ai Prefetti di provvedere all’annullamento d’ufficio delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali). Altre corti di merito ritenevano al contrario tali matrimoni trascrivibili (Tribunale di Grosseto, decreto 17 febbraio 2015, in relazione al matrimonio contratto all’estero tra due cittadini italiani del medesimo sesso, sulla quale si veda il post di G. Biagioni ed E. di Napoli; Corte d’appello di Napoli, sentenza 13 marzo 2015, in relazione al matrimonio contratto all’estero tra due soggetti del medesimo sesso stranieri) anche quando avessero coinvolto unicamente cittadini italiani.

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Questo contributo compie una ricognizione dei recenti e importanti sviluppi relativi ai c.d. foreign direct liability claims promossi contro imprese transnazionali e le loro controllate estere nello Stato di domicilio della capogruppo, focalizzandosi in particolar modo sul panorama europeo. Mentre negli Stati Uniti l’applicabilità dell’Alien Tort Claims Act ai crimini d’impresa viene messa in discussione (v. Kiobel v Shell e Jesner v Arab Bank), cause innovative vengono intentate in altre giurisdizioni, tra cui il Canada (v. Choc v Hudbay) e alcuni Stati europei.

Gli esempi più significativi di questo tipo di azioni legali sono di seguito illustrati partendo dalla giurisprudenza inglese, che ha prodotto un importante precedente relativo al dovere di diligenza dell’azienda madre con la sentenza Chandler.

Il contributo si conclude con una riflessione sulle principali barriere che i ricorrenti devono fronteggiare nel promuovere questo tipo di cause; sui possibili incentivi avversi che potrebbero scaturire dall’affermazione giudiziale del duty of care dell’azienda madre e sulla possibilità, auspicata da molti, che l’attuale discussione di un trattato internazionale su imprese e diritti umani porti a un’affermazione giuridicamente vincolante del duty of care dell’azienda madre.

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Con sentenza dello scorso 23 maggio 2016, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata sulla tutela «indiretta» dei principi dell’equo processo nell’ambito di un giudizio di riconoscimento ed esecuzione di una sentenza straniera disciplinato dal diritto dell’Unione europea. La decisione traeva origine dal rinvio proposto dal ricorrente del procedimento ai sensi dell’art. 43 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) a seguito della sentenza resa il 25 febbraio 2014 dalla Quarta Sezione (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Avotiņš c. Lettonia, ricorso n. 17502/07), con la quale la Corte, a maggioranza dei suoi membri, aveva escluso che i giudici lettoni avessero violato le garanzie processuali dell’art. 6, par. 1, CEDU in sede di concessione dell’exequatur ad una decisione contumaciale cipriota (su quest’ultima decisione mi permetto di rinviare ad un mio precedente commento).

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Il 9 e 10 giugno l’Università di Parma ospiterà il XXI Convegno SIDI, sul tema “La tutela della salute nel diritto internazionale ed europeo tra interessi globali e interessi particolari”.

In vista di questo appuntamento, il SIDIBlog, rinnovato nella sua veste grafica, è lieto di ospitare – in un’apposta sezione denominata “SIDIpost” – una serie di contributi, inizialmente inviati in risposta al call for papers per il Convegno e segnalati a tal fine dagli organizzatori e dal Consiglio direttivo della Società.

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1. La legge recante la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, approvata l’11 maggio 2016 (proposta di legge C. 3634), attribuisce alle coppie formate da persone dello stesso sesso i c.d. love rights, vale a dire il diritto al riconoscimento giuridico delle proprie relazioni affettive. Per le coppie omosessuali la possibilità di disporre di uno schema legale rappresenta un fondamentale miglioramento della propria condizione sia sotto il profilo della tutela giuridica, perché si superano tutte le carenze e le difficoltà date dalla mera supplenza giurisprudenziale, sia sotto il profilo dell’accettazione sociale, in ragione del valore anche simbolico che si attribuisce al riconoscimento giuridico.

Come emerge sin dal titolo della legge, lo strumento in commento mira a introdurre all’interno del nostro ordinamento due istituti ben distinti: le unioni civili e le convivenze di fatto. Il primo è destinato alle coppie same-sex, mentre il secondo è aperto sia alle coppie omosessuali sia alle coppie eterosessuali.

L’iter di approvazione della legge è stato lungo e travagliato e si è concluso con il voto di fiducia, prima al Senato della Repubblica poi alla Camera dei Deputati, sull’emendamento proposto dal governo che ha integralmente sostituito la proposta originaria c.d. Cirinnà (ddl S.14, assorbito dal ddl S.2081). A seguito di tale modifica, è peraltro venuta meno la suddivisione in titoli ed articoli, ciascuno con la propria rubrica, presenti nell’iniziale disegno di legge, per cui il testo adottato consiste in un unico articolo, suddiviso in ben 69 commi di difficile lettura, soprattutto per l’incoerente uso della tecnica redazionale del rinvio.

Il presente contributo, dopo alcune considerazioni preliminari, si propone di offrire qualche spunto di riflessione sulle questioni di profili di diritto internazionale privato sollevate dalla legge con riguardo al primo dei due istituti previsti, ovvero le unioni civili, disciplinate nei commi 2°-35°.

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Benedetta Cappiello, Università di Milano 1. La necessità di regolare in modo equilibrato il rapporto tra le parti di un’operazione di investimento non è nuova ma rimane difficile trovare gli strumenti per bilanciare interessi contrapposti e, apparentemente, non componibili (Dupuy et al.). Ci riferiamo, in particolare, alla necessità per lo

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