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“Gl’è tutto sbagliato, gl’è tutto da rifare!”: la Corte di giustizia frena l’adesione dell’UE alla CEDU

Simone Vezzani è ricercatore di diritto internazionale presso l’Università di Perugia

A poco meno di  un anno e mezzo dalla richiesta di parere della Commissione europea, il 18 dicembre 2014 la Corte di giustizia ha adottato il parere 2/13 pronunciandosi in ordine alla (in)compatibilità del Progetto di accordo per l’adesione dell’Unione alla CEDU rispetto al diritto primario dell’Unione. Da più parti si attendeva un giudizio che evidenziasse la non piena conformità del Progetto con i Trattati europei. Proprio nel forum SIDI, anche chi scrive aveva messo in luce taluni profili di criticità del Progetto. Ciononostante giungono largamente inaspettati sia il tenore complessivo del parere, sia le singole argomentazioni svolte. A pochi giorni dal Natale, la Corte di giustizia lascia sotto l’albero una pagina criticabile della propria giurisprudenza che rischia di appannare la credibilità dell’Unione come promotore dei diritti umani nell’ambito della comunità internazionale. Rinviando ad un momento successivo una trattazione maggiormente approfondita, il presente scritto si propone di proseguire il dibattito già aperto dal post della Prof.ssa Lucia Serena Rossi, fornendo alcuni spunti critici in merito al ragionamento della Corte e indicando quali sono i nuovi scenari che si aprono in tema di adesione dell’UE alla CEDU.

Nel merito, la Corte individua sei principali profili di incompatibilità del Progetto con il diritto primario dell’Unione.

In primo luogo, richiamando la giurisprudenza Melloni, il parere stima necessario introdurre nell’accordo di adesione un’apposita disposizione mirante ad assicurare che “la facoltà concessa dall’art. 53 della CEDU agli Stati membri resti limitata, per quanto riguarda i diritti riconosciuti dalla Carta corrispondenti a diritti garantiti dalla citata convenzione, a quanto è necessario per evitare di compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta medesima, nonché il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione” (par. 189).

In secondo luogo (parr. 191-195), la Corte reputa l’accordo di adesione in contrasto col c.d. principio della fiducia reciproca fra gli Stati membri, che impone a ciascuno di essi, “segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettano il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo” (par. 191). L’accordo non terrebbe conto del fatto che, nei rapporti disciplinati dal diritto dell’Unione, gli Stati membri devono presumere il rispetto dei diritti umani da parte degli altri Stati membri, non potendo, salvo casi eccezionali, sottrarsi agli obblighi posti dal diritto dell’Unione adducendo che un altro Stato membro non garantisce un livello adeguato di tutela dei diritti fondamentali.

In terzo luogo (parr. 196-200), la Corte ritiene che il Progetto di accordo di adesione sia suscettibile di nuocere all’autonomia e all’efficacia del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, nella misura in cui, a seguito dell’entrata in vigore del Protocollo n. 16, i giudici degli Stati membri potrebbero sollecitare un parere della Corte di Strasburgo, anziché rivolgersi alla Corte di giustizia, per chiedere un’interpretazione delle norme della Cedu: norme che, dopo l’adesione, formeranno parte integrante del diritto dell’Unione.

In quarto luogo, ad avviso della Corte, il Progetto di accordo non è conforme all’art. 344 TFUE, che vieta agli Stati membri di adire organi giurisdizionali diversi dalla Corte di giustizia per la soluzione delle controversie insorte inter se, oppure fra di loro e l’Unione e vertenti sull’interpretazione e applicazione del diritto UE, in quanto non esclude la possibilità che le controversie suddette siano sottoposte alla Corte EDU ex art. 33 della Cedu (parr. 201-214).

In quinto luogo (parr. 215-248), il parere statuisce che il meccanismo del co-respondent (secondo la traduzione italiana: “convenuto-aggiunto”) e la procedura del previo coinvolgimento della Corte non sono idonei a salvaguardare l’autonomia dell’ordinamento europeo e a preservarne le caratteristiche specifiche. In particolare, la Corte censura il fatto che la Corte europea dei diritti umani sarebbe chiamata a valutare le norme del diritto dell’Unione che prevedono una ripartizione di competenze fra Unione e Stati membri, al fine di stabilire se sia plausibile la richiesta, presentata dall’Unione o da uno o più Stati membri, di partecipare al procedimento in qualità di co-respondent (par. 224). L’autonomia dell’ordinamento europeo, unitamente alla competenza esclusiva della Corte di giustizia a decidere in merito alla ripartizione delle competenze fra Unione e Stati membri, sarebbero pregiudicate altresì dall’attribuzione alla Corte di Strasburgo del potere di adottare sentenze che eccezionalmente ripartiscano la responsabilità fra convenuto e co-respondent (parr. 229-234). Quanto al previo coinvolgimento della Corte di giustizia nei procedimenti in cui l’Unione è co-respondent, la Corte manifesta il convincimento che anch’esso violi il principio della competenza esclusiva della Corte medesima. Ciò per due motivi principali. Da un lato, l’accordo affida alla Corte di Strasburgo il compito di decidere circa la necessità di un coinvolgimento del giudice dell’Unione: ciò presuppone che la Corte europea valuti se la Corte di Lussemburgo si sia già pronunciata su una questione di diritto identica a quella pendente a Strasburgo (par. 238-240). Dall’altro lato, il parere censura il fatto che il Progetto di accordo consenta alla Corte di giustizia, nell’ambito della procedura di previo coinvolgimento, di pronunciarsi soltanto sulla validità del diritto derivato e non sulla sua interpretazione (parr. 242-247).

Da ultimo (parr. 249-257), la Corte statuisce che il Progetto di accordo lede le caratteristiche specifiche del diritto dell’Unione in quanto “la Corte EDU sarebbe legittimata a pronunciarsi sulla conformità alla CEDU di determinati atti, azioni od omissioni posti in essere nell’ambito della PESC e, in particolare, di quelli per i quali la Corte non ha competenza a verificare la loro legittimità in rapporto ai diritti fondamentali” (par. 254).

Tutto il parere, già oggetto di severe critiche nei primi commenti “a caldo” (si veda, oltre al contributo della Prof.ssa Rossi sopracitato, il post di Steve Peers), porta all’esasperazione la preoccupazione da parte della Corte di giustizia di salvaguardare le proprie prerogative e configura una partecipazione dell’Unione al sistema Cedu che privilegerebbe a nostro avviso ingiustificatamente la posizione dell’Unione rispetto a quella delle altre Parti contraenti (v. sul punto il par. 193 del parere, nella parte in cui la Corte evidenzia come la UE non sia paragonabile agli Stati contraenti della Convenzione). Ciò a serio detrimento della tutela giurisdizionale delle vittime di violazioni della Convenzione europea. Tutta protesa a mettere al riparo il diritto dell’Unione da censure di “non convenzionalità” ad opera della Corte di Strasburgo, la Corte di giustizia compie, ad avviso di chi scrive, evidenti forzature sotto il profilo tecnico giuridico, travalicando i limiti della propria competenza non contenziosa ex art. 218 TFUE.

Si fa riferimento ai passaggi in cui la Corte di giustizia individua i primi tre profili di non conformità ai Trattati dell’adesione dell’Unione alla Cedu, per come essa è prevista dal Progetto di accordo. Come si è detto, la Corte ritiene che gli obblighi scaturenti dalla Cedu non possano pregiudicare gli standard di tutela fissati dalla Carta e, più in generale, compromettere la corretta applicazione del diritto dell’Unione e il principio del primato di quest’ultimo sul diritto interno. Traspare qui nettamente la preoccupazione della Corte nei confronti dei recenti orientamenti affermatisi nella giurisprudenza di taluni giudici nazionali e del giudice di Strasburgo, tendenti a far prevalere l’esigenza del rispetto dei diritti fondamentali (quali tutelati dal diritto costituzionale interno o dal diritto internazionale pattizio) sugli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, con riferimento al mandato di arresto europeo e al c.d. “sistema di Dublino” (si vedano ad es. le sentenze della Corte EDU nei casi MSS c. Belgio and Grecia e Tarakhel c. Svizzera). Tuttavia, nel rivolgere un monito agli Stati membri e ai giudici di Strasburgo, la Corte di Giustizia indirizza – a ben vedere – i propri strali verso la Cedu, così come essa è oggi operante, e non nei confronti del Progetto di accordo che avrebbe dovuto costituire l’oggetto del suo esame. La Corte sollecita, cioè, i negoziatori dell’accordo a introdurre in esso delle clausole volte a modificare gli obblighi già in capo agli Stati in forza della Cedu, per salvaguardare quelli modellati dalla Corte di giustizia in modo tale da bilanciare i diritti fondamentali con le specifiche esigenze dell’ordinamento dell’Unione. Detto altrimenti la Corte reputa che, per rendere conforme il sistema Cedu al diritto UE, occorra introdurre, per il tramite dell’accordo di adesione, una nuova causa di esclusione dell’illecito, di cui possano avvalersi gli Stati membri quando attuino talune norme del diritto dell’Unione, specialmente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia.

Considerazioni analoghe possono svolgersi con riguardo alle critiche che il parere muove al Protocollo n. 16 (n.b. ancora non in vigore), o meglio al Progetto di accordo di adesione, nella parte in cui non va ad incidere sulla disciplina contenuta in detto Protocollo. A ben vedere, essa intende lanciare un monito agli Stati membri, mostrando di essere disposta a sanzionare, come una violazione dell’art. 267 TFUE, richieste indirizzate dai giudici nazionali alla Corte di Strasburgo relativamente all’interpretazione di un diritto garantito sia dalla Cedu che dalla Carta. Giova sottolineare che, ancor prima che l’adesione si realizzi, in base al Protocollo i giudici nazionali ben potrebbero rivolgersi al giudice di Strasburgo, invece di effettuare un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, per chiedere l’interpretazione di disposizioni della Cedu corrispondenti a quelle della Carta, anche in ipotesi in cui il giudizio a quo verta su rapporti giuridici regolati dal diritto dell’Unione. Ancora una volta, la Corte svolge considerazioni che non attengono propriamente alla conformità ai Trattati europei del Progetto di accordo sottoposto al suo esame (il quale non implica neppure l’adesione al Protocollo in questione). Comunque, carattere ultra petita dei rilievi della Corte a parte, la tesi secondo cui il Protocollo n. 16 pregiudicherebbe l’efficacia del meccanismo del rinvio pregiudiziale non è condivisibile. Infatti il parere reso della Corte di Strasburgo ai sensi del Protocollo n. 16 non vincolerebbe i giudici nazionali e, in ogni caso, non farebbe venire meno l’obbligo di effettuare il rinvio, incombente ex art. 267 TFUE sui giudici interni di ultima istanza.

Infra petita sono, invece, i rilievi concernenti il quarto e il quinto punto di cui sopra. Per ragioni di sinteticità, in questa sede non ci soffermeremo sull’individuato contrasto rispetto all’art. 344 TFUE della possibilità che siano sottoposte al giudice di Strasburgo delle controversie fra Stati membri o fra questi e l’Unione, aventi ad oggetto questioni ricomprese nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Questo problema ha, tutto sommato, un rilievo pratico di poca importanza, in considerazione sia della scarsità di ricorsi interstatuali nella prassi di Strasburgo, sia dell’esistenza di un ampio consenso fra gli Stati membri sul fatto che l’attivazione di un ricorso di questo tipo sarebbe vietata dall’art. 344 TFUE. Si osserverà qui soltanto come – limitatamente ai ricorsi che uno Stato membro promuova nei confronti di un altro e che mettano in gioco l’applicazione del diritto dell’Unione europea – la Corte si pronunci a ben vedere, ancora una volta, sulla compatibilità del sistema convenzionale quale è oggi vigente e non delle conseguenze che deriverebbero dall’adesione alla Cedu dell’Unione a fianco degli Stati membri.

Quanto al meccanismo di co-respondent – “enfant terrible” del Progetto (Kosta, Skoutaris e Tzevelekos) – era prevedibile che la Corte avrebbe ritenuto una violazione delle proprie competenze l’attribuzione alla Corte di Strasburgo del potere di interpretare il diritto dell’Unione, in sede di valutazione circa  la ricevibilità di una richiesta di partecipazione a un procedimento a titolo di co-respondent, così come di ripartizione delle responsabilità fra convenuto e co-respondent (sul punto mi permetto di rinviare al mio scritto).

Grande interesse presentano i rilievi contenuti nel parere circa il meccanismo di previo coinvolgimento della Corte di giustizia, volto a consentire a quest’ultima di esercitare i suoi poteri di controllo sulla validità di un atto dell’Unione, prima che una decisione sia presa dalla Corte EDU (cfr. l’art. 3, par. 6, del Progetto). Ad avviso della Corte, per essere compatibile con i Trattati, il meccanismo in questione dovrebbe prevedere la trasmissione all’Unione di un’informazione completa circa ogni causa pendente dinanzi alla Corte EDU (sic!), in modo tale da consentire all’istituzione competente di valutare se attivare la procedura volta ad ottenere una pronuncia della Corte di giustizia (par. 241). Si tratta di una procedura alquanto farraginosa, che allungherebbe i tempi dei procedimenti innanzi agli organi di Strasburgo e aggraverebbe di lavoro la stessa Corte di Lussemburgo. Neppure convince l’interpretazione secondo cui, ai sensi del Progetto, la Corte di giustizia potrebbe pronunciarsi sulla validità degli atti e non sulla loro interpretazione; pare infatti a chi scrive che, investita di una questione di validità di un atto sulla base dell’accordo di adesione, ben potrebbe la Corte adottare una decisione che ne dichiari la validità, fornendone un’interpretazione conforme al diritto primario. In ogni caso, anche alla luce delle osservazioni presentate da vari Governi (parere, par. 137 e s.), stupisce che il parere non si interroghi in alcun modo circa il fondamento nei Trattati della procedura di previo coinvolgimento della Corte di giustizia (per la tesi secondo cui non vi sarebbe nei Trattati alcuna norma idonea a fondare questa nuova competenza della Corte, rinvio a quanto osservato nel mio scritto sopra citato).

L’autore di questo post si era precedentemente espresso nel senso che nessun coinvolgimento della Corte di giustizia nel procedimento dinanzi al giudice di Strasburgo sia necessario ai termini dei Trattati. Corte locuta, non resta che prendere atto dell’opposta conclusione cui giunge il parere. Si può tutt’al più rimarcare come questa presa di posizione costituisca un’ulteriore testimonianza del(l’ingiustificato) timore della Corte che le decisioni della Corte di Strasburgo possano minacciare le proprie prerogative e l’autonomia del diritto europeo. Tale atteggiamento, verrebbe da dire culturale ancor prima che ispirato da preoccupazioni di politica del diritto, è comprensibile alla luce dello sforzo compiuto dalla Corte di Lussemburgo (dalla sentenza Van Gend en Loos fino alla Kadi) per affermare l’autonomia del diritto UE rispetto al diritto internazionale, così come della strenua difesa delle proprie prerogative nei confronti delle tendenze nazionalistiche delle giurisdizioni di alcuni Stati membri. Tuttavia, lungi dal favorire l’integrazione europea, la tesi del giudice di Lussemburgo evidenzia semmai una posizione di debolezza e non pare comunque sorretta da solide argomentazioni. Il mancato previo coinvolgimento della Corte di giustizia non minaccerebbe infatti l’autonomia del diritto UE… in misura maggiore di quanto non sia minacciata l’autonomia del diritto italiano, nelle ipotesi in cui la Corte di Strasburgo sia investita di un ricorso senza che alla Corte costituzionale sia stata offerta la possibilità di statuire sulla costituzionalità di una legge, la cui applicazione abbia dato origine all’asserita violazione della Cedu. In verità, non pare che l’autonomia dell’ordinamento dell’Unione e le competenze della Corte di giustizia possano considerarsi minacciate, se è vero che, come sottolineato esattamente dal Regno Unito (parere, par. 138), le sentenze della Corte EDU dichiarative di violazioni della Convenzione europea non hanno alcun effetto sulla validità delle norme appartenenti al diritto delle Parti contraenti.

Una certa preoccupazione desta la parte conclusiva del parere. Durante i negoziati, come è noto, alcuni Stati avevano proposto di includere nell’accordo di adesione una clausola volta ad esentare l’UE dal controllo esercitato dalla Corte di Strasburgo; tuttavia l’opinione opposta era poi prevalsa. Secondo la Corte, stanti le limitazioni poste al proprio sindacato sulla legittimità e la validità degli atti PESC, sarebbe lesivo delle caratteristiche dell’ordinamento dell’Unione attribuire in via esclusiva ad un organo giurisdizionale esterno all’Unione la competenza a pronunciarsi sulla “convenzionalità” dei medesimi atti. Si tratta, ancora una volta, di una tesi non condivisibile, fondata sulla (erronea) convinzione che alla Corte di giustizia debba essere sempre offerta la possibilità di valutare la conformità rispetto alla Carta (e alla Cedu e ai principi generali) degli atti europei all’origine di una denunciata violazione della Cedu, prima che la Corte di Strasburgo esamini un ricorso nel merito. Questa impostazione produce la conseguenza, inaccettabile dal punto di vista della tutela dei diritti umani, di escludere la messa in opera della responsabilità internazionale dell’Unione in un ambito in cui gravi violazioni dei diritti umani (in primis del diritto alla vita) sono suscettibili di verificarsi frequentemente. Il Trattato di Lisbona ha previsto come obbligatoria l’adesione alla Cedu proprio per rendere più effettiva la tutela dei diritti umani in Europa, colmando eventuali lacune e sottoponendo l’Unione ad un controllo esterno sul proprio operato. Ove sussistano ambiti in cui sia carente la tutela giurisdizionale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea e ai giudici nazionali), sarebbe particolarmente opportuno che la Corte di Strasburgo potesse esercitare pienamente il proprio sindacato, esattamente come avviene in relazione a tutti gli Stati contranti. Ciò permetterebbe di evidenziare eventuali violazioni sistematiche e spronerebbe l’Unione e i suoi Stati membri a porvi fine, se del caso attraverso una modifica dei Trattati istitutivi.

Per finire, dopo aver evidenziato alcuni degli snodi maggiormente problematici del parere, è possibile svolgere alcune riflessioni circa il nuovo scenario che esso inaugura. Stanti l’obbligo per l’Unione di aderire alla Cedu, posto dal Trattato di Lisbona, e considerata l’efficacia giuridica propria dei pareri ex art. 218, par. 11, TFUE, Consiglio e Commissione dovranno attivarsi per riaprire i negoziati con il Consiglio d’Europa, in modo da giungere all’adozione di un nuovo accordo che tenga conto delle statuizioni della Corte di giustizia. Alcuni cambiamenti al Progetto di accordo potrebbero essere agevolmente apportati seguendo le indicazioni che emergono dal parere, senza sollevare particolari obiezioni né da parte degli Stati non membri dell’Unione, né degli organi del Consiglio d’Europa. Si tratta dell’esclusione dei ricorsi ex art. 33 CEDU nelle materie regolate dal diritto dell’Unione, così come della modifica dei profili procedurali relativi al meccanismo di co-respondent e al previo coinvolgimento della Corte di giustizia. Diversamente, ad avviso di chi scrive, sarebbe assai inopportuno inserire nell’accordo le modifiche suggerite nei primi tre punti sopra indicati, volte a restringere la portata degli obblighi incombenti sugli Stati membri in base alla Cedu nelle materie regolate dal diritto dell’Unione, nonché ad escludere il controllo giurisdizionale della Corte di Strasburgo sull’operato dell’Unione e degli Stati membri in ambito PESC. Le suggerite modifiche si pongono infatti in contrasto con l’oggetto e lo scopo della Convenzione EDU, in quanto produrrebbero effetti equivalenti a delle riserve generali non consentite dall’art. 57 della Cedu.

Nonostante quanto precede, non pare condivisibile l’affermazione di Peers – volutamente provocatoria e dettata dall’amarezza suscitata dal parere a poche ore dalla sua emanazione – secondo cui sarebbe preferibile, a questo punto, che l’Unione non aderisse alla Cedu. Né sembra potersi auspicare, insieme a questo autore (ibidem), che il Consiglio dei Ministri, agendo ai sensi dell’art. 47 della Cedu, investa la Corte di Strasburgo del quesito se un accordo di adesione modellato sui dicta della Corte di giustizia sia conforme all’oggetto e scopo della Convenzione, o rechi viceversa un vulnus al ruolo della Corte EDU quale garante dell’ordine pubblico europeo. Non sembra invero che la drammatizzazione del contrasto fra le due Corti possa offrire un contributo costruttivo al processo di adesione.

Un’altra strada dovrebbe, piuttosto, essere esplorata, che passa per una revisione dei Trattati.

Dallo stesso  parere 2/13 (parr. 109 e 117) emerge infatti che fra gli Stati membri vi è un ampio consenso circa il contenuto del Progetto di accordo. Di fronte all’“arroccamento” intransigente della Corte, spetta dunque alla politica attivarsi per uscire da una situazione di impasse e scongiurare che l’adesione dell’Unione alla Cedu avvenga a condizioni che implicherebbero addirittura una deminutio nell’efficacia della Convenzione nei confronti degli Stati membri. Considerata la modifica apportata dal Trattato di Lisbona all’art. 6 TUE, per tener conto del parere 2/94, non sarebbe la prima volta che gli Stati procedono ad una revisione dei Trattati per superare gli ostacoli all’adesione individuati dalla Corte di giustizia. Vi sono fondate ragione per ritenere che, questa volta, una modifica dei Trattati potrebbe avvenire in tempi decisamente più rapidi. Del resto, per quanto complessa dal punto di vista procedurale e sempre dagli esiti incerti,  la strada della revisione ordinaria non è molto più gravosa della procedura di approvazione dell’accordo di adesione, che prevede ugualmente l’approvazione del Parlamento europeo e di tutti gli Stati membri nelle forme previste dalle rispettive costituzioni nazionali.

Qualora si decidesse di seguire la via sopra indicata, la soluzione più semplice sarebbe un’integrazione dell’attuale art. 6, comma 2, TUE, che attribuisse chiaramente a questa norma una funzione permissiva, idonea a consentire deroghe ad altre norme dei Trattati. Il nuovo comma potrebbe essere formulato in questi termini: “Onde garantire la più ampia tutela dei diritti umani nello spazio giuridico europeo e colmare le lacune esistenti nella loro tutela giurisdizionale, l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. Nell’ambito di tali competenze, l’Unione accetta di sottoporsi al sindacato della Corte europea dei diritti umani su un piano di parità con le altre Parti contraenti”.

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Simone Vezzani

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