diritto dell'Unione europea

La Corte di Karlsruhe, il mito della “neutralità” della politica monetaria e i nodi del processo di integrazione europea

Pasquale De Sena, Università Cattolica di Milano

Salvatore D’Acunto, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

1. Tutti, o quasi tutti gli interventi sinora apparsi sulla sentenza della Corte costituzionale tedesca nel caso Weiss  (sulla quale, per un primo commento, v., Cafaro) ne hanno sottolineato, sia pure con diversa tonalità, gli aspetti negativi, concernenti sia gli sviluppi del diritto dell’Unione europea, che quelli dell’azione dell’Unione stessa, e dei suoi Stati, in ordine all’emergenza sanitaria in corso e alle sue conseguenze economiche. In particolare, si è posta in evidenza l’illecita, mancata esecuzione della pronuncia Weiss della Corte di giustizia (peraltro provocata da un rinvio pregiudiziale, effettuato dagli stessi giudici costituzionali: al riguardo, v. infra, par. 2, per le posizioni di Ziller, Martucci, Tesauro e De Pasquale); la sua idoneità a far da battistrada a una pericolosa frammentazione dell’ordinamento dell’Unione – fra le altre cose – ad opera delle corti supreme dei Paesi europei a democrazia “illiberale” (Poiares Maduro); l’interferenza – per quanto mediata – nell’azione della Banca centrale europea e l’incidenza potenzialmente negativa, nel prossimo futuro, sull’azione della Banca stessa, nel perseguimento dei suoi obbiettivi statutari, specialmente sul terreno della difesa della moneta unica nell’attuale quadro di emergenza (ancora Poiares Maduro); la sottovalutazione della nozione di democrazia europea, rispetto a quella ricavabile dall’ordinamento costituzionale tedesco, la scarsa consapevolezza del proprio ruolo da parte dei giudici di Karlsruhe, la natura “politica” della decisione (Caravita, Condinanzi, Morrone, Poggi).

A nostro avviso, il giudizio in questione può essere “letto” anche in un’ottica diversa; e cioè, per la capacità, che esso oggettivamente esprime, di far emergere, e con estrema chiarezza, una delle tensioni di fondo del processo di integrazione europea, così come questo si è andato definendo nei suoi assunti giuridici di base, a partire dal Trattato di Maastricht

Nelle pagine che seguono, cercheremo dunque di illustrare tale tensione, di inquadrare in seno ad essa la decisione, e di trarne qualche considerazione di carattere più generale.

2. Com’è ormai noto, e com’è stato ampiamente posto in luce, l’argomento di fondo, in base al quale l’azione della Banca centrale europea ha finito per esser ritenuta in contrasto col principio di democrazia, è costituito dall’asserito superamento del principio delle competenze di attribuzione, causato, a sua volta, dalla violazione del principio di proporzionalità. Secondo la Corte, infatti, in tanto il trasferimento di sovranità ad un’organizzazione interstatale può considerarsi conforme al principio di democrazia, in quanto la sottrazione del controllo politico su pubblici poteri da parte dei cittadini – in cui si traduce il suddetto trasferimento – resti confinato nei limiti dei poteri attribuiti dai trattati istitutivi di una simile organizzazione. A sua volta, in tanto una simile condizione può dirsi ricorrente, in quanto tali poteri siano esercitati nel rispetto del principio di proporzionalità, positivizzato, nell’ordinamento dell’Unione, dall’articolo  5 del TUE, e violato, a dire dei giudici tedeschi, nell’azione della BCE, censurata dai ricorrenti, e “ratificata” dalla Corte di giustizia.  

Contro un simile argomento non sono mancate obiezioni di un certo peso, nel dibattito sinora svoltosi. Secondo Ziller, anche a prescindere dall’inaccettabile sovrapposizione – per tal via determinatasi – del giudizio della Corte costituzionale rispetto a quello della Corte di giustizia (in ordine ai comportamenti della Banca centrale), il principio di proporzionalità, così configurato, non solo non troverebbe giustificazione nel diritto pubblico comparato, ma risulterebbe altresì indebitamente applicato ad una questione di delimitazione delle competenze fra organi (in contrasto con il diritto dell’Unione; secondo Galetta, in modo confuso, complessivamente erroneo e culturalmente aberrante; mentre Marzal taccia di incomprensibilità il relativo ragionamento). Di analoga opinione è Martucci, a giudizio del quale Corte di giustizia e Corte costituzionale tedesca esprimerebbero, per ciò stesso, nelle rispettive decisioni, un diverso modo di interpretare la stessa nozione di proporzionalità. A stare, invece, a quanto sostiene la Corte, riferendosi all’esigenza di una valutazione di proporzionalità fra gli obiettivi monetari perseguiti dalla BCE con la propria azione e le conseguenze economiche di tale azione, lamenterebbe essenzialmente la mancanza di una motivazione esplicita di tale valutazione da parte della Banca, piuttosto che la sua assenza “tout court”. Di conseguenza, proprio ad un’esplicitazione delle ragioni delle sue azioni “incriminate” la BCE dovrebbe essere richiamata, da parte del Governo e del Bundestag, in esecuzione della pronuncia in esame (sebbene ad una prima reazione non sembra che la Banca intenda fornire ulteriori indicazioni, ritenendo la propria azione legittima alla luce della pronuncia della Corte UE). Diversa  ancora ci pare poi la posizione di Tesauro e De Pasquale, che, pur criticando, senza ambiguità, la pretesa dei giudici costituzionali tedeschi di controllare la legittimità di atti dell’Unione (in base allo stesso diritto dell’Unione), non mancano di rilevare come un simile tentativo abbia trovato spazio anche nella giurisprudenza di altre giurisdizioni nazionali.  

Al di là di ogni discussione nel merito di tali posizioni, ci pare che esse – coerentemente, peraltro, con la loro intonazione esclusivamente tecnico-giuridica – trascurino una circostanza che a noi pare di estrema importanza per la complessiva comprensione del significato della decisione in esame nel quadro del processo di integrazione europea. Malgrado un’affermazione di principio di segno contrario (par. 159), nell’identificare minuziosamente gli effetti economici delle misure di politica monetaria adottate dalla Banca centrale, e nell’affermare il rilievo giuridico di tali effetti, ai fini della valutazione della proporzionalità cui la Banca sarebbe tenuta, la Corte costituzionale prende chiaramente atto del fatto che misure di politica monetaria siano talora destinate a spiegare una forte incidenza su variabili di natura realein particolare su aspetti attinenti alla distribuzione delle risorse e delle opportunità tra le diverse categorie di attori economici

Non si tratta, naturalmente, di una posizione del tutto nuova nella stessa giurisprudenza europea sinora sviluppatasi in tema di azione della Banca centrale. Basta pensare che al punto 60 della decisione Weiss, adottata nel 2018 dalla Corte di giustizia – proprio su rinvio dei giudici di Karlsruhe – quest’ultima aveva osservato, non solo che nell’ambito del capitolo VIII del TFUE “gli autori dei Trattati non hanno inteso operare una separazione assoluta tra la politica economica e quella monetaria” (in linea con affermazioni già presenti, sia in Pringle  – punto 56 –  che in Gauweiler – punto 52), ma anche che tali effetti sono necessariamente implicati da misure preordinate ad incidere sul tasso di inflazione (ivi, punto 66, ed ancora Gauweiler, punti 78 e 108).   

A risultare nuove sono invece le conseguenze che la Corte costituzionale trae da un simile presupposto: e cioè che se, nel perseguimento degli obiettivi assegnatile dal Trattato, la BCE finisce inevitabilmente per ledere alcuni interessi e privilegiarne altri, essa deve tenerne dettagliatamente conto ed operare un bilanciamento. In particolare, nella fattispecie in oggetto, la Banca Centrale avrebbe dovuto tener conto di tutta una serie di effetti distorsivi sull’economia reale, necessariamente implicati dalla natura dell’intervento: l’alterazione del costo del rifinanziamento del debito a carico del settore pubblico degli Stati membri e delle imprese, l’aumento della valutazione del patrimonio delle banche commerciali conseguente al trasferimento a carico del SEBC di grandi quantità di titoli di stato ad elevato rischio, le significative modificazioni del rendimento di alcune forme di risparmio, l’alterazione dei valori dei cespiti immobiliari, l’artificiale “salvataggio” di un gran numero di imprese ormai incapaci di realizzare livelli minimi di redditività (punto 139 del testo inglese e tedesco della decisione). Si tratta di preoccupazioni che attraversano capillarmente la “costituzione economica” tedesca, riflettendone le venature “ordoliberiste”, di cui notoriamente i  governi della Repubblica Federale si sono sempre fatti fedeli interpreti negli ultimi 30 anni (Re, Pühringer, Bonefeld, Dardot e Laval, Tribe).

Naturalmente, non è dato sapere in che misura il Governo tedesco ed il Bundestag si faranno carico di ottemperare al mandato ricevuto dalla Corte riguardo alla necessità di ricevere delucidazioni dalla BCE a proposito delle suddette circostanze. Né è possibile escludere, al riguardo, che accada proprio quanto ipotizzato da Poiares Maduro; vale a dire, che gli organi suddetti si limitino semplicemente a domandare alla BCE di esplicitare le motivazioni dell’azione “incriminata”, e che la Corte se ne accontenti, nulla di più avendo effettivamente richiesto ad essi nella decisione in esame. D’altra parte, proprio a un risultato di tal genere sembrano mirate le dure reazioni adottate dalla stessa Corte di giustizia e dalla Commissione, la quale, per bocca della sua presidente, ha ventilato, sin d’ora, la prospettiva dell’avvio di una procedura di infrazione contro la Germania. 

Come che sia, ci sembra però chiaro che la sentenza in esame rappresenti il punto estremo, in qualche modo l’inevitabile corollario, di una vicenda che ha caratterizzato tutta l’ultima fase della storia dell’Unione, in particolare dell’Unione monetaria. Si tratta, per l’appunto, della tensione fra il modello di teoria economica retrostante all’impianto dell’Unione post-Maastricht e la torsione cui tale modello è andato incontro, in concreto, nel corso degli ultimi dodici anni

3. Per quanto riguarda i caratteri essenziali del modello in questione, va qui brevemente ricordato che i “costituenti di Maastricht” (ossia, gli studiosi che hanno disegnato o legittimato ex-post l’ordito del Trattato), nonché i riformatori che nel 2011 ne emendarono gli aspetti considerati più problematici, progettando il Fiscal Compact, hanno sempre giustificato l’assetto dei poteri economici nell’Eurozona sulla base di due argomenti che, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, rappresentano gli assi portanti del pensiero economico ortodosso. Si tratta, in primo luogo, dell’idea che nella letteratura economica viene generalmente sintetizzata come “neutralità della moneta”, ossia la convinzione che la moneta non possa esercitare effetti permanenti né sul livello del Pil, né sulla sua distribuzione tra le diverse categorie di attori economici che concorrono a produrlo (Friedman, Barro e Gordon). E si tratta, in secondo luogo, della proposizione secondo cui la politica di bilancio può condizionare la credibilità dell’autorità monetaria – e quindi pregiudicare il successo delle politiche di controllo del valore della moneta –  se l’assetto regolatorio non si preoccupa di proteggere con muri alti e spessi il “campo di gioco” dell’autorità monetaria medesima  dall’invadenza delle autorità fiscali, considerate naturalmente inclini ad esercitare pressioni in favore di politiche monetarie inflazionistiche, a causa dei vantaggi elettorali di breve periodo che ne conseguirebbero (Rogoff, Cukierman, Alesina e Summers).  

Dell’ipotesi di neutralità della moneta è figlia la divisione delle competenze e dei poteri economici dell’Unione nei due diversi ambiti della “politica economica” e della “politica monetaria”: la prima, «fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni» (art. 119.1 TFUE), e la seconda, finalizzata all’«obiettivo principale della stabilità dei prezzi» (art. 119.2 e art. 127 TFUE). Dall’endemico conflitto di interesse tra autorità fiscali e monetarie discendono invece l’art. 130 TFUE – che sancisce formalmente l’indipendenza del banchiere centrale dagli organi espressione della sovranità popolare, e gli artt. 123, 126 e 283 TFUE, che predispongono la strumentazione necessaria al banchiere centrale per difendersi dalle eventuali “aggressioni” delle autorità dotate di legittimazione democratica (D’Acunto, 174-178). La fisionomia istituzionale della banca centrale che risulta dall’incastro di queste tessere è quella di un attore che si muove in un campo di azione sostanzialmente circoscritto a «ciò che può controllare, vale a dire il livello dei prezzi» (De Grauwe, 189), e tuttavia collocato in una sorta di “fortezza” inespugnabile dai rappresentanti delle istanze dei titolari della sovranità. Nell’ambito di un quadro “democratico”, la legittimazione di questa programmatica “insensibilità” della banca centrale alle aspirazioni dei popoli di cui dovrebbe curare gli interessi riposa evidentemente sulla sua (presunta) incapacità di influenzare, attraverso gli strumenti monetari, la ripartizione della ricchezza prodotta nelle comunità assoggettate alla sua “giurisdizione” tra le diverse categorie di attori economici che contribuiscono a produrla. Viceversa, se l’uso dello strumento monetario fosse suscettibile di produrre significativi effetti distributivi, la natura delle decisioni in oggetto acquisirebbe rilievo intrinsecamente “politico”, e i poteri relativi dovrebbero pertanto essere assoggettati al controllo di organismi direttamente o indirettamente espressione della sovranità popolare. 

4. Com’è noto, l’impianto normativo appena accennato si è rivelato inadeguato a tenere l’Europa al riparo dalle turbolenze vissute dall’economia globale in occasione della crisi finanziaria del 2008, nonché incapace di  consentire ai Paesi europei di intercettare il vento della ripresa nel decennio successivo, quando, mentre gli Stati Uniti e le economie asiatiche tornavano a crescere a ritmi sostenuti, i Paesi in questione si ritrovavano invischiati nei vincoli derivanti dalla rigida architettura deflazionistica costruita a Maastricht ed ulteriormente inasprita nel 2011 con il Fiscal Compact. Questa inadeguatezza è, in gran parte, il risultato della fallacia delle proposizioni teoriche che di quell’assetto normativo sono state il fondamento, in particolare l’idea della sostanziale irrilevanza degli shock monetari sull’economia reale. L’esperienza della “Grande Recessione” ha evidenziato, al contrario, che l’interrelazione tra settore monetario e settore reale è profonda: quando, in conseguenza dello scoppio della bolla dei mutui subprime, le istituzioni finanziarie hanno contratto il credito, gli effetti si sono avvertiti, non soltanto sul livello generale dei prezzi dei beni, ma anche, e in maniera violenta, sul Pil (Krugman). E poiché l’assetto normativo dell’Eurozona imponeva vincoli rigidi nell’utilizzo della politica fiscale a tutti gli Stati membri colpiti più intensamente dalla recessione, la BCE è stata in un certo senso “costretta” ad entrare in campo in maniera decisa per attenuare le tendenza deflazionistiche dell’economia europea e quanto meno avvicinare gli obiettivi di inflazione definiti dal proprio statuto

Allargando il suo raggio d’azione attraverso l’utilizzazione dello strumento del Quantitative Easing – di  cui, com’è noto, il  Public Sector Purchase Programme costituisce una forma di manifestazione – la BCE si è, dunque, significativamente distaccata dal modello teorico or ora sintetizzato, manifestando di esser sempre più in grado di incidere – perlomeno potenzialmente – attraverso le sue politiche, anche sull’economia reale e sulla distribuzione del reddito. Dunque, è proprio in virtù della tensione in tal modo generatasi con quel modello che la Corte costituzionale tedesca è stata sollecitata ad indagare se, nell’esercitare questo ruolo, la BCE abbia travalicato i limiti del suo mandato, definito dagli artt. 119 e 127 del TFUE. Già  nella decisione sulle Outright Monetary Transactions (OMT), la Corte si interrogava, infatti, sui confini del perimetro della “politica monetaria”, ed utilizzava esplicitamente l’assenza di effetti redistributivi, in quel caso tra gli Stati membri interessati dalle operazioni di acquisto titoli, come criterio per la valutazione dell’attinenza dello strumento operativo in oggetto alle competenze della banca centrale. L’ipotesi della “neutralità” della moneta era messa decisamente in discussione, fino al punto di chiedere alla Corte di giustizia (non senza un pizzico di provocatoria impertinenza), in sede di rinvio pregiudiziale, di valutare preliminarmente se misure evidentemente “non neutrali” (D’Acunto, 2014) potessero legittimamente considerarsi rientranti nell’ambito di competenza di un organo tecnico, sottratto, per definizione, a qualsiasi controllo o responsabilità di carattere politico. Del tutto coerente rispetto a tale impostazione ci sembra, del resto, la stessa decisione con cui il giudizio reso dalla Corte di giustizia (Gauweiler: v. supra, nonché Cafaro) venne in quel caso recepito. Oltre a ritenersi soddisfatti della valutazione positiva sull’idoneità delle OMT a non alterare i caratteri di fondo del mercato europeo dei titoli pubblici, i giudici di Karlsruhe, nella sentenza del 21 giugno 2016, rilevarono espressamente che il principio di proporzionalità dell’azione della BCE doveva ritenersi rispettato, in quel caso, anche sotto il profilo della sua incidenza su profili di politica economica; ciò perché, pur ricorrendo tale incidenza, essa doveva ritenersi controbilanciata dalla circostanza che  “[…] the participation of Member States in adjustment programmes, Member States’ access to the bond market, and the focus on bonds with a short maturity – […] make it appear acceptable to assume that the OMT Programme is at least predominantly of a monetary policy character”  (ivi, punto 196 del testo inglese della decisione). 

Non può allora stupire più di tanto che nella sentenza del 5 maggio scorso  sul PSPP, la Corte – come si è illustrato poco sopra (par. 2) – abbia riproposto il criterio della presenza di effetti redistributivi come cartina tornasole per la precisazione di prerogative e obblighi della BCE; né può stupire che un simile criterio risulti giuridicamente ricondotto nell’alveo del principio di proporzionalità, visto che proprio questo si era già verificato nella stessa decisione del 2016, appena ricordata.

Il fatto che, nel frattempo, fosse intervenuta una pronuncia della Corte di giustizia (l’“omonima” sentenza Weiss) a chiarire che l’azione della politica monetaria non può che esercitarsi per mezzo di interventi di natura intrinsecamente “invasiva” (ivi, par.  59), in particolare mediante l’alterazione dei tassi di interesse, piuttosto che … chiudere il conflitto, ha paradossalmente rafforzato i dubbi della Corte costituzionale in merito alla coerenza dell’azione della BCE con i principi dell’ordinamento costituzionale tedesco. Il problema – ci dice in sostanza la Corte tedesca – è assai più complesso di come la Corte di giustizia voglia farlo apparire. Nel mettere in evidenza gli effetti distorsivi dell’economia reale già evidenziati (concernenti i redditi delle diverse categorie di agenti economici: ancora supra, par. 2), il Bundesverfassungsgericht  paventa, insomma, un’alterazione dei meccanismi di mercato, di dimensioni tali da indebolire gravemente il potere segnaletico dell’intero sistema dei prezzi dei fattori produttivi.

È dunque in un contesto di tal genere che, in ultima analisi, deve inquadrarsi il ricorso effettuato nella sentenza in esame al principio di proporzionalità. All’invito a “prendere sul serio” il rispetto di detto principio sembra cioè soggiacere la convinzione che, proprio in virtù della natura squisitamente redistributiva dell’azione della politica monetaria, ovvero, della sua incidenza sugli ordinari meccanismi del mercato, l’assenza di forme significative di controllo politico sulla BCE, in relazione al suo operato (ex art. 130 TFUE), debba trovare, in qualche misura, una forma di compensazione. A giudizio della Corte, tale forma di compensazione non può che consistere nel “rendere conto” – per l’appunto, nella logica propria al principio di proporzionalità – degli strumenti utilizzati rispetto allo scopo perseguito, delle alternative eventualmente praticabili, degli effetti secondari associati ad ognuno degli strumenti disponibili, e dei criteri concretamente adottati nel bilanciamento dei (tanti) diversi interessi coinvolti.

5. Quali sono, dunque, le considerazioni che si possono svolgere, in base a quel che precede? Benché possa forse risultare il contrario, non rientrano nelle nostre intenzioni né quella di avallare la scelta di “politica giudiziaria” operata dalla Corte costituzionale tedesca, né quella – correlativa – di criticare l’azione sinora svolta dalla BCE, sia al fine di combattere le tendenze deflazionistiche di cui si è detto, sia allo scopo di sostenere la moneta unica nel caso di tensioni speculative, in particolare nel quadro generale dell’emergenza che attraversiamo.

In ordine al primo dei due profili evocati, siamo perfettamente consapevoli che la pretesa espressa dalla Corte di sovrapporre la propria interpretazione a quella della Corte di giustizia (pur vincolante ai sensi dei trattati), corrisponde anche all’esigenza di “difendere” principi propri, in ultima analisi, della “costituzione economica tedesca” (ed infatti, v. quanto detto supra, par. 2 e par. 4, in fine), oltre che a quella, pur presente, di far valere il principio di democrazia, così come questo si presenta nell’ordinamento costituzionale di quel Paese (principio fatto valere, nel 2016, anche a proposito dell’applicazione provvisoria dell’accordo CETA, concluso dall’Unione).

In merito al secondo profilo, è sufficiente ricordare che non abbiamo mancato di valorizzare, in altre sedi, l’azione sin qui condotta dalla BCE nell’ambito della crisi in corso, auspicandone addirittura un’estensione eccezionale, al di là dei limiti per essa previsti, sulla base di un (possibile) mutuo consenso degli Stati parti dei trattati rilevanti (artt. 57-58 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati).

Tuttavia, ci sembra che le critiche rivolte alla sentenza del 5 maggio scorso, e le funeste profezie ad essa generalmente associate, siano esagerate; o meglio, che esse non centrino necessariamente il bersaglio.

Non si tratta di ricordare – come pure è stato fatto (supra, par. 2) – che l’atteggiamento del Bundesverfassungsgericht nei confronti della Corte di giustizia dell’Unione trova riscontro, in realtà, benché in forme diverse e meno eclatanti, in parecchie decisioni di altre Corti supreme, o costituzionali, nazionali (per i riferimenti, v. Sarmiento, 2020), e che pure il ricorso ai “controlimiti” si fa sempre più consistente nella giurisprudenza rilevante di tribunali supremi nazionali (Malenovsky, 2017). Né si tratta di sottolineare che, nei confronti degli Stati europei, infelicemente definiti come Stati a “democrazia illiberale”, ancor prima che il potenziale esempio negativo ricavabile dalla Corte costituzionale tedesca, abbiano già giocato, assai negativamente, le blande reazioni sinora adottate dall’Unione (Casolari), e – per ciò che riguarda in particolare le recenti misure emergenziali ungheresi –  l’assenza di reazioni degli stessi Stati parti della Convenzione europea  (De Sena).

Si tratta, piuttosto, di ribadire quanto abbiamo cercato di argomentare, ossia che la decisione della Corte costituzionale tedesca costituisce l’esito finale della torsione subita – per effetto dell’azione condotta negli ultimi anni dalla BCE – dal modello teorico soggiacente al Trattato di Maastricht (e alle “riforme” successive) e dal correlativo assetto normativo. Visti in quest’ottica, l’impostazione di tale decisione, e i suoi stessi esiti, possono allora considerarsi rivelatori di una duplice, scomoda verità (scomoda, anche per insospettabili politici tedeschi: v. qui le sorprendenti dichiarazioni di  Wolfgang Schäuble). E cioè, del fatto che la neutralità … politica della politica monetaria europea è essenzialmente un … mito (in linea con quanto sostenuto oggi nel brillante articolo di Tooze); e che, malgrado questa circostanza, tale politica resta, allo stato attuale, nelle mani di un organo tecnico, non soggetto, in quanto tale, a controllo politico.

Ciò detto, non è nostra ambizione fornire, in questa sede, alcun suggerimento specifico riguardo al possibile superamento della contraddizione posta in luce. Una simile prospettiva, non solo ci pare velleitaria, ma finanche inutile, dato il presente proliferare di “task forces” e di “consiglieri del principe”, più o meno disinteressati.  Non ci sfugge, però, che gli interventi straordinari della BCE sono figli della originaria decisione di mantenere a livello nazionale le decisioni in materia economica e fiscale, a fronte del trasferimento a livello sovranazionale della competenza in tema di politica monetaria. E  neppure ci sfugge che questa stessa decisione è alla base delle modeste dimensioni del bilancio europeo e della conseguente impossibilità delle tradizionali istituzioni dell’Unione – in primis  il Parlamento – di intervenire per sanare gli squilibri fra Stati membri, in assenza di risorse fiscali autonomamente decise (Rossolillo, Cafaro, nonché Avbelj). Proprio queste circostanze ci inducono allora a concludere il nostro intervento con qualche interrogativo. Se è vero che la decisione del Bundesverfassungsgericht non è che una conseguenza delle contraddizioni della complessiva vicenda da noi tratteggiata, è davvero pensabile che il superamento di simili contraddizioni sia oggi possibile con la “politica dei piccoli passi” (Pocar)? Ed ancora: è davvero possibile continuare a pensare che contraddizioni di questa portata possano essere governate – se non sciolte – da organi tecnici o giudiziari, e non per la via maestra, politica e democratica, del procedimento di revisione dei Trattati? In ultima analisi: non è proprio in/da una situazione di tal genere – piuttosto che da una decisione di una Corte costituzionale – che organi come la Corte di giustizia o la stessa BCE rischiano, alla lunga, di restare stritolati?

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